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SI, LO AMMETTO: SONO UNO SNOB. Per esempio, trovo spaventoso che qualcuno pensi che un discorso si spiaccichi come un cono gelato su un muro (e non si spiccichi, che è diverso), e se qualcun altro parla di un arresto in fragranza (invece che in flagranza) penso a una rapina in una panetteria. E’ più forte di me. Quando poi c’è una sanzione da irrogare mica è come erogare la benzina dal distributore, non ci si deve confondere. Ognuno ha i suoi difetti, c’è chi beve, chi fuma, chi tradisce la moglie. Io mi irrito con chi sbaglia le parole, e i concetti.

LICENZE PO(D)ETICHE? Figuriamoci quando incappo in un testo ufficiale dell’Ordine Psicologi Campania, a firma dell’ex presidente Raffaele Felaco, oggi responsabile della comunicazione del CNOP – nientepopòdimeno! – uomo di cultura e di una simpatia tutta napoletana, che così recita:

Quando si incontra un paziente per la prima volta, è necessario compilare il modulo di “Consenso Informato”. Per i minori, è necessario che il “Consenso Informato” sia firmato da chi ne ha la podestà. Nel caso di genitori coniugati, è sufficiente una sola firma. Nel caso invece di genitori separati, bisogna essere certi di chi ha la podestà. Se essa è affidata dal Tribunale in via esclusiva ad un genitore, basta la sua sola firma, se invece la podestà è condivisa sono necessarie le due firme.

[Qui la newsletter inviata a tutti gli psicologi campani]

PREMESSA: IL CONSENSO INFORMATO. Per non essere insultato, con buone ragioni eviterò i dettagli, anche se già la pelle d’oca mi viene vedendo che il consenso informato viene riportato con le lettere maiuscole, come un nome proprio. O per dargli l’importanza che merita, come Consenso ma anche perché splendidamente Informato? Vediamo se è così.

PUNTO PRIMO: IL CONSENSO DISINFORMATO. Valeria La Via, una delle massime esperte di deontologia in Italia, ci ricorda che il consenso informato non è anzitutto un modulo. Se avete già notato che “informato” è un participio passato, questo ha due conseguenze: primo, si capisce che siete snob quanto me; e secondo, ci ricorda sempre La Via, significa che prima si deve dare l’informazione, poi, e solo dopo essersi assicurati che l’interlocutore abbia capito, si raccoglie il consenso. Può anche darsi che ci voglia del tempo per spiegare cosa facciamo, magari più di un colloquio. Il concetto è: il consenso informato non è necessariamente un modulo, ma sicuramente è un atto professionale. Di sicuro non ci si precipita a far firmare niente, a meno che complice la crisi del mercato si punti a piazzare un’enciclopedia o un’assicurazione vita al malcapitato. L’unica firma obbligatoria è quella per il trattamento dei dati, ma quella è un’altra storia.

PUNTO SECONDO: QUANTI GENITORI SERVONO PER AVERE UN CONSENSO? Qui, il testo è meraviglioso, per quanto errato, anzi erratissimo. L’articolo 31 parla chiaro: ci vogliono le firme di entrambi i genitori. E l’articolo 31 è proprio quello che porta più colleghi inconsapevoli, non necessariamente lettori appassionati della prosa felachiana, davanti alla Commissione Etica.

Ma il testo è comunque meraviglioso. Cosa dice, infatti? Che in fondo, al di là di ogni burocrazia, dell’immutabilità sorda e un po’ idiota delle regole, se le persone si vogliono bene, se due sono coniugati e sereni, che bisogno hai tu, psicologo, di mettere il dito tra moglie e marito? Metti che a stare a guardare se sono d’accordo a mandare il bambino dallo psicologo quelli si mettono a litigare… No, no! Di firma ne basta una! Certo. Ne basta una, almeno finché qualcuno ti segnala all’Ordine. E allora lì sono guai, dopo che proprio Felaco, ex presidente dello stesso ordine che ti dovrebbe giudicare, ti ha convinto a perpetrare l’errore. E se i genitori sono separati? Lì c’è il capolavoro. Solo un triste leguleio come me ci direbbe che ci sono tre diversi concetti – collocamento, affidamento e responsabilità genitoriale, già patria potestà.

Già. Ma… potestà o podestà? Qui la critica si divide…

TERZO PUNTO: I FIGLI DEL PODESTA’. Il Podestà (sostantivo maschile, maiuscolo) era un’alta carica nel Medioevo, rispolverata in epoca fascista; viceversa la potestà – prima patria fino al 1975, e poi genitoriale fino a un paio di anni fa, perché mica è solo del papà – adesso si chiama responsabilità genitoriale. L’affidamento esclusivo a uno dei due coniugi a seguito di una separazione non fa decadere dalla responsabilità genitoriale (cosa abbastanza rara).

E QUINDI? CONTINUANO A VOLERCI DUE FIRME. Ma anche qui, perché insistere, sembra dirci Felaco? Se i due non si vedono, non si amano più, che vuole il fedifrago che vive fuori casa, certamente nel peccato e magari con una giovanissima di costumi discutibili? Il minimo è punirlo, e dirgli: ‘la Tua firma, amico mio, non vale più, e se il Tuo bambino va dallo psicologo, beh, sono fatti suoi’. In ogni caso, tra podestà e potestà, l’etimo è sempre lo stesso: potestas, potere. Quando si ha il potere di comunicare, però, occorrerebbe metterci la testa: niente di più pericoloso che scindere testa e potere, e infatti si torna in un solo istante al Podestà di medievale memoria. Almeno nel magico mondo di Raffaele, responsabile della comunicazione del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ed ex presidente dell’Ordine Campania.