image_pdfimage_print

In tv stanotte (13/01/2013) una rassegna commemorativa in ricordo di Mariangela Melato. Tra i vari film in programmazione, ho rivisto un capolavoro assoluto di Elio Petri, “La classe operaia va in paradiso” un film che meriterebbe un remake, ma con le condizioni di vita attuali. Tutto quanto viene mostrato in quel film del ‘71 è ancora pienamente attuale. Gli intellettuali contemporanei sono lontani anni luce dalla profondità di analisi sociale e psicologica della condizione esistenziale agli albori del turbocapitalismo. Un film che a quanto pare fu accolto freddamente dalle sinistre di allora in quanto ne svelava già l’inconsistenza.

Non entro nel dettaglio della trama del film, dico solo che il personaggio di Lulù Massa, l’operaio stakanovista, interpretato da un gigantesco Gian Maria Volontè, che attraversa tutte le contraddizioni esistenziali della sua epoca, sul bordo del cambiamento irrealizzato e della follia, è un’icona della contemporaneità insuperato. Il film si conclude con il racconto di un sogno: Lulù che dopo aver sfondato il muro trova dentro una fitta nebbia il suo amico Militina, ormai in manicomio da tempo, e poi se stesso in una sorta di apparentamento nell’alienazione.

Contemporaneamente sto leggendo un libro di storia del pensiero filosofico, Minima Mercatalia. Capitalismo e Filosofia, di un giovanissimo filosofo dell’Università San Raffaele, Diego Fusaro. Condivisibile da parte mia la sua ricostruzione delle varie fasi del capitalismo, specie attuale (tanto che l’ho invitato ad un doppio impegno qui a Roma 8 e 9 Febbraio sia per la presentazione di questo libro sia per un seminario sul tempo, tema del suo libro precedente).

Tra le tante cose importanti che Fusaro scrive nel suo ultimo libro, una mi ha spiazzato più delle altre, riguarda il ‘68, una di quelle cose che ti capita di pensare “a bassa voce”, ma che non osi mai dirti fino in fondo. Sarà che Fusaro ha meno di 30 anni (sic!) e quindi non si sente debitore verso questo passato mitico, ma egli sostiene che le rivoluzioni culturali del 68 sono state di fatto l’inizio di quella che lui definisce la fase astratta (metafisica) del capitalismo, l’ultima, quella che stiamo vivendo. Il potenziale trasformativo del ‘68 fu presto annacquato in quanto le rivendicazioni anti-autoritarie e libertarie (le macchine desideranti di deleuziana memoria, la creatività, etc.) si risolsero di fatto in rivendicazioni interne alle logiche economicistiche aprendo di fatto la strada all’individuo post-moderno e multitasking attuale, il quale sembra aver barattato la propria libertà di vivere in mondi nuovi e alternativi con lo zapping e le opzioni di acquisto ai centri commerciali.

Ebbene, nel film di Petri ho trovato una conferma di questa analisi specie quando l’ala estrema, quella degli studenti oltranzisti e barricaderi, che acuiva la contraddizione sociale istruendo la classe operaia verso una maggiore consapevolezza della loro schiavitù agli stili di vita totalizzanti del capitale (quello di allora), alla fine ciò che chiedeva al megafono erano “più soldi e meno lavoro”. Uno slogan non propriamente rivoluzionario. Avrebbero casomai dovuto proporre modelli sociali autenticamente alternativi, non certo il capitalismo di stato del comunismo reale. Non c’era cioè una vera proposta alternativa. Già allora…

Non a caso quella stessa classe dirigente avanguardista borghese-rivoluzionaria, negli anni successivi, quelli del cosiddetto riflusso, laddove non uccisi come mosche da qualche overdose di eroina, o quando non schiacciati dalla vita, diventò di fatto portatrice dei valori più estremi del conformismo tardocapitalistico.

A distanza di 42 anni le contraddizioni ritornano, più o meno le stesse, ma ancora più estese e profonde e su altri scenari tecno-sociali, con un intorpidimento se vogliamo ancora più profondo delle coscienze rispetto a quello dell’operaio Lulù, con più esperienza alle spalle ma paradossalmente con meno strumenti di cambiamento a nostra disposizione.

Se arriviamo agli scenari politici attuali, a partire dalle amare e realistiche analisi del panorama italiano (questa importante riflessione di E. Orso, ad esempio) e alle riflessioni che in quanto psicologi possiamo fare in tempo di crisi, io credo che accanto alla maturazione di una consapevolezza della limitatezza del nostro potenziale trasformativo democratico, dentro regole che hanno di fatto snaturato la rappresentanza, la tentazione di interiorizzare la lotta che noi abbiamo come vezzo professionale sia un vero pericolo incombente. L’idea che i veri cambiamenti passino solo da supposti cambiamenti interiori (il mito dell’illuminazione nirvanica), è un retaggio di quei tempi che di fatto disinnesca ogni potenziale trasformativo, come di fatto è già avvenuto in quanto si tratta semplicemente di un portato ideologico postmoderno. Oggi questi discorsi non si possono, a mio parere, più sostenere senza cadere nel ridicolo.

Ogni trasformazione interiore piuttosto non può non passare che da un cambiamento delle regole di partecipazione alle questioni pubbliche che ci riguardano più da vicino, superando la falsa antitesi tra mondo interno e mondo esterno e mantenendo in parallelo sempre i due piani.

Una piccola nota utopica personale: occorrerebbe ricominciare da piccole comunità democratiche e non settarie con nuove regole dello scambio economico e con nuove regole organizzative.

Avremmo in teoria tutte le carte in regola per pensarle e progettarle. E tra un po’, ho la sensazione, che diventerà urgente realizzarle.