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Credo che ormai quasi ad ogni psicologo sia capitato di ricevere proposte di lavoro gratuito o ” a titolo volontario”.
Ma può esistere un lavoro gratuito o a “titolo volontario“?
Cos’è il lavoro? E cos’è, allora, il volontariato?

Facevo ancora il liceo quando ho iniziato a prestare servizio come volontaria nell’emergenza sanitaria e nella protezione civile: un’esperienza formativa, di crescita personale ed umana che ha fortemente contribuito a costruire la donna e la professionista che sono oggi.
Crescendo, sono diventata psicologa e ho deciso di continuare a mettere a disposizione della società le mie nuove competenze, partendo poi come psicologa volontaria per l’Aquila durante il terremoto.
Oggi mi trovo nuovamente a preparare lo zaino per partire per le Marche e non ho potuto fare a meno di indugiare in una riflessione.
L’accoppiata “lavoro” e “volontariato” è a tutti gli effetti un ossimoro, una distorsione, che però sappiamo bene quanto sia diffusa; ahimè talvolta grazie alla collusione di colleghi, spesso all’inizio della loro carriera, poco lungimiranti e, mi verrebbe da azzardare, forse anche poco consapevoli delle proprie competenze.
Non molto tempo fa, mi è stato proposta una docenza in una struttura pubblica a titolo gratuito: i discenti erano dipendenti pubblici regolarmente pagati per assistere alle mie lezioni.
E io, libera professionista che ha pagato tutta la propria formazione specialistica e i cui guadagni dipendono in tutto e per tutto dal proprio tempo dedicato al lavoro?

Non ci sono fondi, devi farlo a titolo volontario!

Non ho accettato, ma c’è chi talvolta lo fa.
Non ho potuto fare a meno di chiedermi: quali sono le motivazioni del “collega disponibile” ad accettare un’offerta di lavoro gratuito?

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Da costruttivista, mi sono sforzata di mettermi nei panni dell’altro, ho cercato di scorgere qualche alta motivazione o semplicemente un senso, parlandone anche apertamente con chi fa questo tipo di scelta, condividendo dubbi e perplessità.
Quello che mi sembra sia emerso è che vige ancora una cultura di clientelismo: si lavora gratuitamente, nelle speranza che quella persona lì, quel dirigente di là, si ricordi di noi e premi il nostro sacrificio. Peccato che non funzioni così… oltretutto perché da psicologi dovremmo comprendere che questo ha a che fare con una dimensione personale, più che professionale.
Do ut des, dicevano i latini, ma è una strategia efficace?
Direi di no, visto le condizioni in cui naviga la nostra categoria. Spesso di fatto, più che unirci nel nome della colleganza, ci troviamo a combattere una guerra tra poveri, elemosinando la benevolenza di presunti “potenti”. Forse sarebbe più utile puntare sulle nostre competenze, sul far emergere nell’altro il bisogno della nostra professionalità…

Sto partendo per le zone terremotate, lo farò come psicologa volontaria.
Lavoro e nessuno mi paga, ma non lo faccio perché qualcuno ricompensi la mia bontà d’animo, dandomi un posto in un’ASL, in una cooperativa o in un’azienda.
Lo faccio innanzitutto perché è un mio bisogno; perché scelgo di mettere le mie qualità e le mie competenze di psicologa a disposizione della collettività, fermamente convinta che non solo siano utili, ma anche indispensabili; perché scelgo di credere, e di impegnarmi attivamente con il mio personale contributo, in un mondo fondato sulla solidarietà, l’etica e la colleganza. Questo è quello che mi spinge a partire fra qualche giorno.

Ma allora qual è la differenza tra il lavoro gratuito e il volontariato?
Se consideriamo il guadagno economico, non troviamo differenze perché in entrambi i casi si lavora ma non si percepisce stipendio; questo aspetto balza immediatamente agli occhi.
Proviamo allora a riflettere sugli altri.

La fantomatica visibilità: molti di coloro che accettano di lavorare a titolo gratuito, lo fanno perché pensano così di mettersi in buona luce. Ma è davvero così? In realtà è molto più probabile che nella testa dei committenti non ci sia il pensiero che siamo bravi e buoni nel lavorare gratuitamente, quanto che la nostra opera professionale ha poco valore, o peggio è un qualcosa in più, di cui si può fare tranquillamente a meno. Senza contare che la prospettiva si rovescia diametralmente: non è il servizio che ha bisogno delle competenze del professionista, ma è il professionista che ha bisogno, per sopravvivere, del servizio e per questo accetta qualsiasi condizione.
Non voglio certo generalizzare, ogni situazione è a sé, ma anche in termini di reputazione professionale, non mi sembra una gran bella mossa.

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Nel volontariato nessuno ti chiede più o meno esplicitamente di lavorare gratuitamente, ma sei tu che decidi di dedicare parte del tuo tempo e di te stesso agli altri: non si parla di cose o servizi, ma di persone.
Ed infine parliamo di relazioni. Il tipo di rapporti che si possono instaurare nel circolo vizioso del lavoro gratuito si fondano su basi utilitaristiche, strumentali in cui spesso vi è poco spazio per la lealtà. Siamo oggetti, non persone, quindi anche facilmente sostituibili, nonostante tutti i nostri sforzi per campare e contemporaneamente lavorare a titolo gratuito. Senza contare che l’attenzione non è focalizzata sulle competenze, ma su ciò che fa più comodo in quel momento: paradossalmente potremmo essere scelti non per tutti gli anni di studi e la fatica che abbiamo fatto per costruirci una professionalità, ma semplicemente perché serviamo, magari ad un sistema disfunzionale e probabilmente clientelare. Bella consolazione, direi…
Nel volontariato nessuno chiede e tu dai senza volere niente in cambio; vivi situazioni difficili, emotivamente molto forti e questo crea dei legami sinceri. Ancora oggi mi sento fortemente legata alle persone con cui ho fatto servizio anni fa, mando volentieri un sms di auguri a chi ho conosciuto quando sono andata a prestare soccorso, penso a chi ha condiviso con me certe esperienze e non c’è più.

…ecco, per queste emozioni, credo davvero che non ci siano parole… si possono solo vivere.

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