Il meteorite in grado di distruggere il mondo delle CTU come luogo istituzionale elettivo per la valutazione delle capacità genitoriali così come l’abbiamo finora conosciuto, e di danneggiare irreparabilmente la credibilità della psicologia clinica, è già in vista, in orbita stazionaria intorno a noi.
L’associazione italiana avvocati per la famiglia (AIAF), una delle principali associazioni di legali in questo campo, ha dipinto la ferale meteora nel suo “Manifesto per la riforma della giustizia familiare” indicando l’esigenza di stabilire un “divieto di delegare al c.t.u. ogni e qualunque decisione in punto di responsabilità genitoriale, modalità di accudimento e tempi di permanenza”; “esclusione dei servizi sociali dallo svolgimento di qualsivoglia attività di valutazione delle capacità genitoriali e di accertamento” e il “divieto di c.t.u. c.d. trasformative”.
Senza entrare nel merito delle singole indicazioni di una delle più autorevoli associazioni di avvocati familiaristi, ha senso domandarsi come mai questa evidente sfiducia nell’opera dei consulenti tecnici del Giudice e degli psicologi in genere che si legge tra le righe di queste indicazioni.
Non bastasse la pubblicazione di “Veleno” di Pablo Trincia, ora peraltro in comoda e avvincente versione serial su piattaforma Amazon Prime, che si connette alle vicende di Bibbiano, ci si mette dell’altro.
Sono tempi difficili.
Tempi in cui sempre più la riforma bocciata per ottime ragioni tecniche oltre che politiche del DDL 735 “Pillon” sembra rientrare dalla finestra attraverso sempre più diffuse ed evidentemente pregiudiziali inclinazioni dei CTU per gli affidamenti condivisi, da sempre considerati dalla giurisprudenza italiana e della ricerca clinica internazionale come funzionali solo in casi ben delineati. Ovvio coltivare ragionevoli dubbi sui clinici incaricati di valutare la genitorialità. In effetti, se lo scopo è di arrivare a un regime di collocamento già pre-stabilito, cui prodest affrontare un percorso tecnico di valutazione doloroso e impegnativo su ogni fronte?
Il tema del “topicco” causato del pregiudizio clinico è tornato prepotentemente in una recentissima sentenza di Cassazione, del 17/3/21, la 13274, che ha annullato i due giudizi di merito della corte di primo grado e di appello, basati su due distinte consulenze tecniche che stabilivano l’affidamento cosiddetto super esclusivo al padre di due bambine e una radicale limitazione della frequentazione dell’ambiente materno sulla base della presenza di una “madre malevola”, concetto nipote di quella sindrome di alienazione parentale che contrappone da anni associazioni di padri separati e di madri vittime di violenza.
La sentenza definisce il “vibe” di queste due consulenze assimilandole a una “tatertyp”, un concetto giuridico utilizzato in Germania nel 1940, in pieno periodo nazista, riferito al giudizio conferito al modo di essere della persona (in questo caso della madre) molto più che a fatti precisi o alle conseguenze dimostrabili che derivano ai figli da tali azioni.
Cioè, siamo accusati, come categoria, di giudizi poco scientifici, il che, per una professione giovane come la psicologia è tuttora nel nostro paese, è più di una condanna. Di cui tutti facciamo le spese.
Ancora, l’alienazione?
Questa sentenza affronta, di petto, e dovremmo dire ancora una volta, i tre più grandi problemi che ci troviamo di fronte quando assistiamo al fenomeno clinico in cui un minore, coinvolto in una separazione giudiziale, fatica ad accedere ad uno dei due genitori o lo rifiuta in maniera esplicita.
In questo caso, dobbiamo anzitutto considerare l’esistenza di quello che potremmo chiamare il problema nominalistico dell’alienazione, ovvero il fatto che occorre dare atto del rifiuto radicale dei manuali psicodiagnostici, tanto il DSM-5 che più recentemente l’11ª versione del ICD, di tutto ciò che abbia a che fare con l’alienazione come sindrome.
Il concetto originario infatti, sia nella versione inizialmente elaborata da Gardner nel 1985 sia nella sua rielaborazione come “sindrome della madre malevola” (Turkat, 1995) sono viziati dagli stessi problemi di fondo. Si tratta anzitutto della descrizione di concetti sistemici e non riferibili ad uno specifico paziente. Quando si parla di queste situazioni, ci si deve riferire all’esperienza di un fenomeno clinico di natura triangolare, che riguarda almeno tre soggetti che ne sono in diverse misure autori e protagonisti. Inoltre la sindrome originaria puntava il dito su un colpevole della condizione di alienazione, di solito individuato nella madre, che avrebbe messo in atto una “campagna di denigrazione” dell’altro genitore, facendo dell’alienazione un concetto che nella migliore delle ipotesi può essere definito moralistico, e che si è ben prestato a una contrapposizione partitica degli uomini contro le donne, dei padri contro le madri.
Così, tuttavia, poste le basi per il rifiuto del mondo scientifico verso un concetto che di scientifico ha ben poco, rimane la realtà dell’esistenza di un fenomeno clinico realmente esistente che su questo piano ha ricevuto ancora poca attenzione da parte di chi in fondo non è minimamente interessato alla contrapposizione belligerante di uomini e donne, ma semplicemente a muoversi nell’ottica dell’interesse superiore del minore.
Sta di fatto che le parole “PAS”, “madre malevola” e “alienazione” andrebbero ormai bandite, non per l’inesistenza del fenomeno ma per la connotazione antiscientifica, politica nel senso più deleterio del termine che hanno assunto, dal vocabolario di chiunque svolga il lavoro di psicologo consulente tecnico.
Una seconda questione messa in risalto dalla sentenza è l’esigenza di competenze di valutazione clinica esenti da qualsiasi pregiudizio e predisposizione antecedente alla valutazione stessa. Giustamente i giudici della Suprema Corte si sono concentrati nel commento di comportamenti della madre definiti nelle CTU come “scellerati”. Una definizione interessante, che da sola dice poco, ma che è forse paradigmatica di un atteggiamento. Sbagliato.
La definizione di un comportamento come scellerato (def diz. Google: Che denota malvagità, crudeltà, efferatezza) è, certamente, presa di per sé e astratta dalla più ampia valutazione, una definizione che potremmo definire sospetta. I comportamenti materni sono definiti richiamandosi ad una definizione etica del comportamento stesso, che fa pensare, insieme all’utilizzo della definizione “madre malevola” ad un posizionamento del consulente che evoca il sospetto di una posizione moralistica e non scientifica.
Il terzo, gravissimo problema in tutti i casi di rifiuto di un genitore ancorché immotivato, riguarda le azioni da intraprendere, tema gravoso e di enorme complessità. Alcuni, come in questo caso, propongono l’inversione del collocamento e l’affidamento super-esclusivo al genitore alienato. Molto correttamente da questo punto di vista il reclamo alla Corte di Cassazione si basa anche su un argomento corretto, ovvero sul fatto che il CTU non avrebbe effettuato una valutazione comparativa degli effetti del trauma dell’allontanamento dalla casa familiare rispetto al beneficio atteso sulle minori coinvolte. È di grandissimo interesse, non solo certo per questo caso il fatto che la circostanza specifica possa mettere in tensione il principio del superiore interesse del minore con l’attuazione coattiva del diritto alla bigenitorialità, che spesso, ma non sempre, ne dovrebbe costituire una declinazione specifica.
La questione non è astratta, poiché non si conoscono con certezza gli effetti dell’alienazione sul futuro equilibrio di un minore. Le ricerche, scientifiche, a fronte di una definizione del tutto incerta e ambigua del fenomeno clinico, non possono essere considerate conclusive. Al momento, è necessario che le conseguenze vengano valutate sul piano prognostico a livello del caso individuale, così come l’eventuale conseguenza dell’applicazione di un regime di affidamento e collocamento forzato finalizzato ad una possibile soluzione dell’ostacolo al diritto relazionale.
Quale soluzione?
Il rischio di cedere alla tentazione di un colpo di spugna su tutto ciò che esiste, su tutte le CTU e su tutta la competenza costruita in anni, e di conseguenza l’estinzione della figura dello psicologo consulente tecnico è un rischio estremo ma non del tutto remoto in questa fase storica. L’indicazione dell’Aiaf nasce dal fatto che la gente ha perso fiducia nei tecnici incaricati di questo tipo di valutazione, e non si può dare loro del tutto torto, quando troppo spesso si ha la sensazione di incontrare CTU che “hanno già deciso” come andrà a finire.
Il pregiudizio e il verificazionismo di soluzioni già predefinite sono i nemici del principio scientifico evocato da Karl Popper che prevede la messa in discussione sistematica di qualunque certezza.
Nella sua ordinanza la Corte di Cassazione indica i criteri di individuazione degli elementi fondamentali specifici da considerare per valorizzare l’interesse del minore, che si richiamano al principio sacro di una valutazione necessaria caso-per-caso, all’esigenza di lasciarsi sorprendere dall’irripetibile individualità di ogni situazione nella sua singolarità:
a) Privilegiare il genitore che appaia più idoneo a ridurre al massimo il pregiudizio derivante per i minori dalla disgregazione della loro famiglia;
b) Effettuare un giudizio prognostico circa la capacità del padre e della madre di crescere ed educare il figlio, da fondarsi sulle modalità con cui il medesimo ha svolto in passato il proprio ruolo;
c) Fare particolare riferimento alle capacità di relazione affettiva, di comprensione, di educazione, di disponibilità a un assiduo rapporto;
d) Fare un apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente che è in grado di offrire al minore.
Come si vede, nulla in apparenza di nuovo o di straordinario. Eppure, di questi tempi sembra indispensabile forse anche ribadire l’ovvio per evitare che l’asteroide in orbita della sfiducia della società civile si abbatta sul mondo della psicologia giuridica.