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Recentemente, sfogliando il notiziario dell’Enpam (Ente nazionale di previdenza per i medici), siamo venuti a conoscenza di una sentenza che sembra presentare interessanti analogie con le difficoltà che noi psicologi spesso dobbiamo affrontare rispetto alle nuove professioni che vengono ad erodere, più o meno silenziosamente, i nostri confini.

Infatti, la Sentenza n.34200 6 agosto 07 della Sesta sezione penale della Corte di Cassazione, si conclude con l’attribuzione ai medici del diritto esclusivo di prescrivere i rimedi omeopatici, anche se gli stessi non sono riconosciuti dallo Stato; diversamente, la condotta deve intendersi come esercizio abusivo della professione e in tal senso, infatti, viene deciso nella sentenza contro l’imputato.

Vi sono alcuni punti interessanti che possono fornire spunti per un parallelismo con la nostra stessa situazione; nella sentenza, infatti, si ribadisce come “non sia il nomen della professione esercitata a designare il tipo di attività come corrispondente a quella esclusiva del medico, ma le concrete operazioni eseguite, a meno che l’attività (…) sia di per sé qualificabile come esercizio di attività esclusiva del medico”. In pratica, l’essenziale non è definirsi omeopata, quanto i concreti atti che vengono espletati e che, nel caso si sovrappongano a attività di competenza medica, sono sufficienti a configurare l’esercizio abusivo, anche se nel nome riferiti ad un’attività non esclusivamente medica.

Ora, ci si chiede, non è forse questa la medesima situazione che ci troviamo a vivere continuamente noi psicologi quando ci vediamo “derubati” in una delle nostre attività essenziali, come il counselling, da professionisti non regolamentati che, in forza di un titolo non ufficiale (come “counsellor”, ma anche addirittura più vaghi, quali “coach”, “reflector”, ecc.) svolgono, in pratica, attività che vanno ad invadere la nostra sfera di competenza esclusiva?

L’importanza che viene ad assumere nella sentenza lo svolgimento concreto dell’attività in sé e non tanto il nome con il quale all’esterno essa si connota, viene sottolineato anche dalle ulteriori riflessioni della Corte di Cassazione, che non ha dato alcun peso al fatto che i pazienti fossero consapevoli della non laurea in medicina né al fatto che le indicazioni fornite fossero solamente verbali e non formalizzate in una ricetta.

Di più: la sentenza si spinge fino a sancire che, oltre all’omeopatia, persino la chiropratica, agopuntura, ipnosi, idrologia, fitoterapia, massaggi terapeutici, siano di competenza esclusiva di laureati in medicina iscritti all’albo.

Molte felicitazioni per i nostri colleghi medici, ma possibile che noi psicologi non siamo in grado di ottenere sentenze come questa negli ambiti di nostra pertinenza? Non sono, forse, le conclusioni assolutamente parallele e trasferibili al nostro caso?

E’ mai possibile che la legge non tuteli la nostra professionalità nello stesso modo in cui tutela quella dei medici? O forse è solo questione di diversa rappresentatività, anche politica?

La sentenza in oggetto riporta tra l’altro un interessante passaggio in cui, rifacendosi ad una sentenza emessa contro rappresentanti di Scientology, dice che:

“[…] commette esercizio abusivo della professione medica chiunque esprima giudizi diagnostici e consigli ed appresti le cure al malato; precisandosi che da tale condotta non è esclusa la psicoterapia, giacché la professione in parola è caratterizzata dal fine di guarire e non già dai mezzi scientifici adoperati; onde, qualunque intervento curativo, anche se si concreti nell’impiego di mezzi non tradizionali o non convenzionali da parte di chi non sia abilitato all’esercizio, integra il reato previsto dall’art. 348 cp. nella fattispecie, i giudici di merito avevano ritenuto la sussistenza del reato di esercizio abusivo della professione a carico degli operatori di un centro non abilitato ove i pazienti venivano sottoposti, tra l’altro, a sedute psicoanalitiche“.

Questo passaggio, per noi psicologi, è estremamente interessante; purtroppo, però, è anche incomprensibilmente male espresso e non corretto.

La sua importanza sta nel fatto di stabilire, finalmente, che la psicoanalisi è, a tutti gli effetti, un metodo di cura paragonabile a una psicoterapia. Per quanto a noi possa apparire evidente, per i giudici così non è stato fino ad oggi, perché la psicoanalisi, non essendo riconosciuta, a differenza della psicoterapia, come cura per la quale siano specificamente titolati solo alcuni soggetti, come psicologi e medici, rischia di essere utilizzata da alcuni come schermo dietro cui celarsi per sfuggire alle maglie del 348 c.p. (Esercizio abusivo di una professione).

Naturalmente, è l’equivalente di nascondersi dietro ad un dito, ma finché non interviene la legge a normare tale ovvietà (o, come in questo caso, una sentenza a chiarirlo) la vaghezza la fa da padrone. Perciò, se questa affermazione da un lato finalmente rende giustizia all’attività psicoanalitica – paragonabile a un’attività psicoterapeutica di fronte alla quale gli utenti sono da tutelare, dovendo essa essere espletata solo da professionisti abilitati – dall’altra non possiamo non rimarcare una grossolana inesattezza nell’affermazione riportata, che sembra affermare che la cura psicoterapeutica è permessa solo ai medici. Ora, la frase di per sé non è preoccupante, perché la sua inesattezza è chiaramente dimostrata dalla Legge 56/89, così come è chiaro che la leggerezza è dovuta, evidentemente, al contesto della sentenza, che si occupava nello specifico di esercizio abusivo di professione medica ed evidentemente il giudice ha ritenuto di doversi riferire solo a tale professione nelle sue affermazioni, senza entrare maggiormente nel dettaglio.

Nondimeno, sarebbe gratificante ritrovare una maggiore precisione che renda il dovuto rispetto anche ai colleghi, altrettanto titolati a svolgere attività psicoterapeutica anche quando questa assuma le forme, evidentemente, della cura psicoanalitica.

Le riflessioni di cui sopra, in definitiva, aprono ad una domanda (e, implicitamente, ad una speranza): perché pare così difficile che anche la nostra categoria possa arrivare ad ottenere sentenze a favore della propria professione e chiaramente indicanti come alcune attività, che si nascondono dietro nomi più o meno fantasiosi, sono in realtà di esclusiva pertinenza dei colleghi?

Ci auguriamo vivamente che questa sentenza, pur con tutte le sue inesattezze, sia indice di un’apertura verso questa nuova possibilità.