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Il ministro dell’istruzione sarebbe intenzionato a rendere abilitante la laurea e quindi abolire l’Esame di Stato per alcune professioni, fra cui la nostra. La notizia è riportata fra gli altri dal Sole24Ore in QUESTO ARTICOLO.

Ne è nato un dibattito nella categoria, fra sostenitori e oppositori di questa idea. Tanto per fare numero, appoggio anch’io la mia opinione sul tavolo.

L’ESAME DI STATO. Voglio premettere una cosa: l’Esame di Stato ha un preciso valore di matrice costituzionale. La distinzione fra diploma di laurea ed esame di Stato non è un orpello: comunica chiaramente che tu puoi essere il migliore guidatore al mondo, ma l’ultima parola, l’ultimo bollino, la patente, te la deve dare lo Stato.

Questo è l’esame di Stato: una formale autorizzazione a svolgere un mestiere delicato, a tutela dei cittadini.

Questo tema tuttavia non trova assolutamente spazio nell’attuale dibattito generato dalle promesse del ministro. Il dibattito si concentra su altro.

ESAME DI STATO E LAVORO. Il dibattito si polarizza su quanto l’esame di Stato sia o meno funzionale all’ingresso dei laureati nel mondo del lavoro. Come se discutessimo se l’esame per la patente di guida ritarda o meno l’ingresso di nuovi guidatori sulle strade. Sarà vero o falso, ma che c’entra?

Però ci sta pure, da un altro punto di vista. L’accesso alle professioni è un tema molto dibattuto, su cui l’Unione Europea si è già ampiamente pronunciata: gli Stati devono rimuovere qualunque ostacolo all’ingresso nelle professioni, a meno che non ci siano solide ragioni per porre dei limiti. Tali ragioni non possono essere di tipo economico, solo superiori interessi della collettività.

ESAME DI STATO E PSICOLOGI. Prendendo comunque per buono che l’abolizione dell’esame di Stato possa favorire in generale l’ingresso nel mondo del lavoro, non è detto che sia vero per tutte le categorie. Ecco, io vorrei spendere qualche parola su quanto sia illusoria questa soluzione per la nostra categoria.

L’ingresso nella nostra professione è già libero. L’esame di Stato non filtra assolutamente nulla. E questo lo dicono i numeri, per quanto mai pubblicati in un report sintetico nazionale. Dal colabrodo dell’esame di Stato passano circa 8 candidati su 10, e i restanti 2 si abilitano nella sessione successiva.

Non c’è limite al peggio: si può tentare quante volte si vuole, in qualunque sede l’Italia e questo trasforma il nostro Esame di Stato in qualcosa di molto simile ad una slot-machine, che a forza di tentare ogni tanto rilascia qualche moneta. C’è chi arriva prima, chi dopo, la perdita è sempre superiore al guadagno, ma basta insistere e qualcosa si ottiene.

Dati alla mano, l’Esame di Stato non svolge alcuna funzione di filtro. Si tratta semplicemente, ormai e purtroppo, di un passaggio in più. Cosa che i laureati in procinto di affrontarlo non mancano di far notare, mostrando al contempo grande pragmatismo e assoluta ignoranza dei principi costituzionali che regolano le professioni.

Ma continuando in questa reductio ad absurdum, e facendo finta di prenderla per buona, l’unica conclusione è che mantenere o eliminare l’Esame di Stato oggi non cambierebbe nulla della demografia professionale e dei suoi trend.

Gli psicologi resterebbero sempre quelli che sono adesso: quasi 120.000 di cui la metà non lavora come psicologo e la metà dell’altra metà che lavora dichiara redditi inferiori alla soglia di povertà.

E psicologia resterebbe sempre una facoltà attraente, per la relativa facilità dei suoi corsi di laurea e per un certo fascino romantico che ancora l’ammanta, a prescindere dalle prospettive occupazionali. Che, non dimentichiamolo, sono prospettive di vita.

La laurea in psicologia continuerebbe ad essere scelta non sulla base di considerazioni concrete, di spendibilità professionale e di possibilità di sostentarsi economicamente per tutta la vita. Ma su questioni ideali, aspirazioni di ruolo e di identità, del tutto sganciate dall’idea che sia un lavoro e non un romantico sogno d’amore.

LA COLPA È ANCHE NOSTRA. Intendo, di noi che abbiamo ruoli di rappresentanza, di governo di Ordini e Associazioni, e forse qualche influenza, e non facciamo nulla per cambiare questo stato di cose.

David Lazzari, attuale presidente del CNOP, ha coniato lo slogan ‘Viva la psicologia’ e a volte si è spinto a definirla la professione più bella del mondo.

Ora, senza nulla togliere all’entusiasmo del collega (vorrei averne anche solo metà, ma conservando il mio pragmatismo), che la nostra sia la professione più bella del mondo è del tutto irrilevante.

Non rileva per la società, non rileva per i cittadini, non rileva per chi ha disturbi mentali. In ultima analisi è uno slogan vuoto, inutile perfino per gli psicologi stessi.

Anzi, rischia di essere fuorviante perché è proprio su queste visioni idealistiche che migliaia di persone compiono una scelta esistenziale che rischia di metterli in difficoltà per tutta la vita.

Allora, io non voglio fare il solito guastafeste della situazione. Però dopo 15 anni di politica professionale sono arrivato alla conclusione che gli slogan vuoti non servono a nulla.

Come non servono a nulla le soluzioni magiche o miracolistiche: promuovere e sostenere la professione si può e si deve fare, ma non vendiamola come una soluzione in grado di ribaltare le sorti della categoria.

RIDIMENSIONARE I NUMERI. Abbiamo un grosso problema di numeri e di redditi.

Occorrerebbe che la politica professionale avesse il coraggio di ridimensionare i numeri della categoria. Che non significa occuparsi di cose fuori dalla nostra portata e dalle nostre competenze, come gli accessi programmati alle Università o l’abolizione dell’Esame di Stato.

Basterebbe già che fossimo tutti d’accordo nell’introdurre correttivi nella gestione dei professionisti iscritti all’albo, tali da comunicare chiaramente che essere iscritti all’albo non è una medaglia ma un impegno, e porre serenamente e pragmaticamente tutti nelle condizioni di scegliere se proseguire o meno.

Con una direzione politica ben precisa: una categoria dovrebbe essere formata da persone che praticano la professione. Non esistono professioni fatte da più della metà di persone che non esercitano, e da oltre un quarto che sistematicamente non vive di professione. Non parlo di chi è all’inizio, e deve avere il tempo di ingranare, parlo di dieci o vent’anni a 2000 euro di reddito annuo.

Questo, prima di tutto a tutela dei clienti e della società. Poi, a tutela della reputazione della categoria stessa. Infine, a tutela delle vite di migliaia di persone che non devono essere continuamente tratte in inganno da prospettive lavorative ed esistenziali falsificate e inconsistenti.

Oggi abbiamo a disposizione numeri consolidati. Dati. Da vicepresidente Enpap ho curato personalmente un report su demografia e redditi degli psicologi italiani. Perché fosse un utile strumento di guida delle scelte dei singoli e della categoria. E lo stesso CNOP ha ogni giorno sotto gli occhi il gap fra Iscritti all’albo e professionisti effettivi.

Non possiamo più nasconderci dietro un dito. Nessuno di noi può fare nulla singolarmente, ma tutti noi insieme possiamo fare molto. Se decidiamo di non farlo, la responsabilità sarà nostra e soltanto nostra.