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Ad oggi, circa il 17% delle scuole di psicoterapia gestisce anche corsi di counselling e altre pratiche affini, rivolti a non-psicologi. Qualcuno svolge perfino lezioni unificate, insegnando tecniche agli uni e agli altri: psicologi e non-psicologi.

Per molti di noi questa prassi è grave per la mancanza di rispetto verso i colleghi, già abilitati all’esercizio della professione di psicologo che si vedono affiancati ad aspiranti stregoni che cercano un rimedio ai danni della crisi economica. Ed è grave per via della confusione che si crea nei confronti dell’utenza, dei cittadini, a cui verrà offerto un servizio privo di reali garanzie di efficacia, di competenza del professionista, addirittura di chiarezza in merito alla differenza fra un professionista abilitato grazie ad un passaggio certificato dallo Stato, ed uno che ha soltanto il diplomino privato, stampabile comodamente da casa.

Troppo spesso ci si dimentica il significato per cui esiste la psicologia come mestiere, e una legge che la tutela. La Legge 56/89 non è lì per proteggere gli psicologi, ma i cittadini e un loro diritto fondamentale dei cittadini affidato a chi esercita una professione: la professionalità è collegata alla necessità di assicurare la tutela di alcuni beni fondamentali per la vita sociale.

Nel caso della psicologia, il diritto tutelato è il diritto alla salute, di importanza primaria. La legge 56 del 1989 nasce quindi perché la cura della psiche venga riservata a soggetti che abbiano acquisito una competenza specialistica attraverso un iter formativo e un tirocinio, percorso la cui conclusione viene sancita dal superamento dell’esame di stato previsto dall’articolo 33 della Costituzione Italiana.

Non stiamo quindi parlando di interessi corporativi della nostra comunità professionale, ma del fatto che la psicologia, come ogni altra professione viene definita da una legge perché la società esige da chi cura la psiche alcune garanzie precise. Facendo un paragone con il sistema medico, nessuno andrebbe da un medico non laureato. Non che la laurea difenda in assoluto dai professionisti poco seri, o che appiattisca le differenze tra bravi e meno bravi o meno seri, ma stabilisce un minimo comune denominatore. Una tutela.

Da qui l’importanza di una regola interna che inibisce la trasmissione di competenze psicologiche a chiunque: non può essere permesso di fare quel che fa lo psicologo, a persone che non diano adeguate garanzie. Non è possibile permettere a persone qualsiasi, che non offrono alcuna garanzia di competenza certificata dallo Stato, di mettere in atto azioni tipiche della nostra professione grazie al fatto che qualche psicologo gliele ha insegnate.

Oggi questo non si può fare: gli psicologi non possono insegnare tecniche professionali ai non-psicologo. Glielo impedisce una norma rappresentata dal più ‘scomodo’ e discusso articolo del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, il famigerato articolo 21. Nella formulazione finora in vigore recita:

“Lo psicologo a salvaguardia dell’utenza e della professione è tenuto a non insegnare l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di psicologo a soggetti estranei alla professione stessa, anche qualora insegni a tali soggetti discipline psicologiche”.

La sua storia inizia e finisce con due tentativi di sabotaggio, entrambi falliti.

@Il primo, nel 1998 ha preso la forma di una segnalazione all’antitrust, che concluse l’istruttoria chiedendo agli psicologi, alla prima revisione utile del C.D., di definire gli “strumenti operativi” degli psicologi che richiedano di non essere diffusi.

@Il secondo, nel 2011 ha preso la forma di un ricorso temerario contro una delibera di OPL che ribadiva la “piena applicabilità” e “l’importanza” dell’articolo 21.

Ma perché l’articolo 21 del Codice Deontologico è così discusso? Secondo una versione che potremmo definire più nobile e disinteressata, questo articolo metterebbe in contrapposizione due diversi “diritti” costituzionalmente sanciti: il diritto alla trasmissione del sapere e della conoscenza, da un lato, e il diritto alla salute dall’altra. L’articolo 21 inibisce il diritto ad insegnare tecniche psicologiche per tutelare la salute dei cittadini.

E’ giusto? Secondo Roberto Cippitani (2012), ogni qualvolta nel nostro Stato questo è avvenuto, l’Autorità Giudiziaria ha sempre, invariabilmente deciso di tutelare il diritto alla salute. L’articolo 21 sarebbe quindi salvo.

Ci sarebbe tuttavia una ragione meno nobile che spiega l’accanimento con cui si cerca di disattivare o di aggirare questa fondamentale regola, e tale ragione è strettamente connessa agli interessi economici connessi alla formazione. Ad esempio, non è difficile constatare che solo a posteriori del primo insediamento dell’Ordine degli Psicologi, datato 1992, nascono alcune realtà4 che si propongono come rappresentanti del “counseling”, attività che non richiede formazione di base e incardinamento con il sistema accademico, ma la cui sovrapposizione con il sostegno psicologico è evidente. Risultato: oggi più del 50% delle segnalazioni di esercizio abusivo che perviene agli Ordini professionali riguarda sedicenti “counselor”.

E’ un esempio evidente della necessità di salvaguardare le competenze psicologiche e di mantenerle riservate al fine di rispettare il mandato che lo Stato ha affidato agli Psicologi italiani.

L’importanza dell’articolo 21 è chiara. E’ forse eccessivo -ma non troppo- affermare che senza articolo 21 non esisterebbe più la psicologia come professione. Esso costituisce certo un baluardo fondamentale contro la tentazione di operare forme di lucro sulla trasmissione di competenze psicologiche e un obbligo preciso a fare prevalere su qualunque altro diritto o considerazione la salute dei cittadino, che il legislatore ha inteso tutelare con la legge 56.

Tra poche settimane tutti gli psicologi saranno chiamati ad un referendum sulla revisione di questa importante norma. Nelle prossime puntate pubblicheremo e commenteremo il testo del nuovo articolo 21 con le ragioni che hanno guidato la revisione.