Ad oggi, circa il 17% delle scuole di psicoterapia gestisce anche corsi di counselling e altre pratiche affini, rivolti a non-psicologi. Qualcuno svolge perfino lezioni unificate, insegnando tecniche agli uni e agli altri: psicologi e non-psicologi.
Per molti di noi questa prassi è grave per la mancanza di rispetto verso i colleghi, già abilitati all’esercizio della professione di psicologo che si vedono affiancati ad aspiranti stregoni che cercano un rimedio ai danni della crisi economica. Ed è grave per via della confusione che si crea nei confronti dell’utenza, dei cittadini, a cui verrà offerto un servizio privo di reali garanzie di efficacia, di competenza del professionista, addirittura di chiarezza in merito alla differenza fra un professionista abilitato grazie ad un passaggio certificato dallo Stato, ed uno che ha soltanto il diplomino privato, stampabile comodamente da casa.
Troppo spesso ci si dimentica il significato per cui esiste la psicologia come mestiere, e una legge che la tutela. La Legge 56/89 non è lì per proteggere gli psicologi, ma i cittadini e un loro diritto fondamentale dei cittadini affidato a chi esercita una professione: la professionalità è collegata alla necessità di assicurare la tutela di alcuni beni fondamentali per la vita sociale.
Nel caso della psicologia, il diritto tutelato è il diritto alla salute, di importanza primaria. La legge 56 del 1989 nasce quindi perché la cura della psiche venga riservata a soggetti che abbiano acquisito una competenza specialistica attraverso un iter formativo e un tirocinio, percorso la cui conclusione viene sancita dal superamento dell’esame di stato previsto dall’articolo 33 della Costituzione Italiana.
Non stiamo quindi parlando di interessi corporativi della nostra comunità professionale, ma del fatto che la psicologia, come ogni altra professione viene definita da una legge perché la società esige da chi cura la psiche alcune garanzie precise. Facendo un paragone con il sistema medico, nessuno andrebbe da un medico non laureato. Non che la laurea difenda in assoluto dai professionisti poco seri, o che appiattisca le differenze tra bravi e meno bravi o meno seri, ma stabilisce un minimo comune denominatore. Una tutela.
Da qui l’importanza di una regola interna che inibisce la trasmissione di competenze psicologiche a chiunque: non può essere permesso di fare quel che fa lo psicologo, a persone che non diano adeguate garanzie. Non è possibile permettere a persone qualsiasi, che non offrono alcuna garanzia di competenza certificata dallo Stato, di mettere in atto azioni tipiche della nostra professione grazie al fatto che qualche psicologo gliele ha insegnate.
Oggi questo non si può fare: gli psicologi non possono insegnare tecniche professionali ai non-psicologo. Glielo impedisce una norma rappresentata dal più ‘scomodo’ e discusso articolo del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, il famigerato articolo 21. Nella formulazione finora in vigore recita:
“Lo psicologo a salvaguardia dell’utenza e della professione è tenuto a non insegnare l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di psicologo a soggetti estranei alla professione stessa, anche qualora insegni a tali soggetti discipline psicologiche”.
La sua storia inizia e finisce con due tentativi di sabotaggio, entrambi falliti.
@Il primo, nel 1998 ha preso la forma di una segnalazione all’antitrust, che concluse l’istruttoria chiedendo agli psicologi, alla prima revisione utile del C.D., di definire gli “strumenti operativi” degli psicologi che richiedano di non essere diffusi.
@Il secondo, nel 2011 ha preso la forma di un ricorso temerario contro una delibera di OPL che ribadiva la “piena applicabilità” e “l’importanza” dell’articolo 21.
Ma perché l’articolo 21 del Codice Deontologico è così discusso? Secondo una versione che potremmo definire più nobile e disinteressata, questo articolo metterebbe in contrapposizione due diversi “diritti” costituzionalmente sanciti: il diritto alla trasmissione del sapere e della conoscenza, da un lato, e il diritto alla salute dall’altra. L’articolo 21 inibisce il diritto ad insegnare tecniche psicologiche per tutelare la salute dei cittadini.
E’ giusto? Secondo Roberto Cippitani (2012), ogni qualvolta nel nostro Stato questo è avvenuto, l’Autorità Giudiziaria ha sempre, invariabilmente deciso di tutelare il diritto alla salute. L’articolo 21 sarebbe quindi salvo.
Ci sarebbe tuttavia una ragione meno nobile che spiega l’accanimento con cui si cerca di disattivare o di aggirare questa fondamentale regola, e tale ragione è strettamente connessa agli interessi economici connessi alla formazione. Ad esempio, non è difficile constatare che solo a posteriori del primo insediamento dell’Ordine degli Psicologi, datato 1992, nascono alcune realtà4 che si propongono come rappresentanti del “counseling”, attività che non richiede formazione di base e incardinamento con il sistema accademico, ma la cui sovrapposizione con il sostegno psicologico è evidente. Risultato: oggi più del 50% delle segnalazioni di esercizio abusivo che perviene agli Ordini professionali riguarda sedicenti “counselor”.
E’ un esempio evidente della necessità di salvaguardare le competenze psicologiche e di mantenerle riservate al fine di rispettare il mandato che lo Stato ha affidato agli Psicologi italiani.
L’importanza dell’articolo 21 è chiara. E’ forse eccessivo -ma non troppo- affermare che senza articolo 21 non esisterebbe più la psicologia come professione. Esso costituisce certo un baluardo fondamentale contro la tentazione di operare forme di lucro sulla trasmissione di competenze psicologiche e un obbligo preciso a fare prevalere su qualunque altro diritto o considerazione la salute dei cittadino, che il legislatore ha inteso tutelare con la legge 56.
Tra poche settimane tutti gli psicologi saranno chiamati ad un referendum sulla revisione di questa importante norma. Nelle prossime puntate pubblicheremo e commenteremo il testo del nuovo articolo 21 con le ragioni che hanno guidato la revisione.
Un referendum? Si farà per via telematica?
Non ho capito se il nuovo articolo dovrebbe tutelare maggiormente la professione o al contrario permetterne l’insegnamento ai non psicologi.
Gentile Grimoldi, ho letto l’articolo. Come lei ben sa, per salvaguardare qualcosa occorre definirlo. Le “competenze psicologiche” andrebbero definite dettagliatamente prima di creare articoli che le tutelino. Inoltre il suo mi appare un atteggiamento “difensivo” della professione che ritengo costoso e scarsamente efficace, e fa sì che in Italia per fare qualsiasi cosa, sia lo psicologo che il counselor, occorra andare sempre a braccetto con un avvocato che ci “difenda” da qualcun altro che ci minaccia. Io, onestamente, sarei stanco di questo e tutto ciò ha poco a che fare con uno stile, di cui io psicologo sento maggiormente la necessità, che sia promozionale, pro-attivo, accreditatorio, che non dia l’idea che noi psicologi siam qui a “scimmiottare” le professioni sanitarie. Rappresentazione sociale deleteria e mortifera, ma giustificata dal fatto che facciam di tutto per nutrirla (vedi l’assorbimento delle facoltò di psicologia in quelle di medicina), che la popolazione in genere ha di noi (e per cui, se può, ci evita). Inoltre, lei sa bene come sia molto difficile decidere cosa sia atto tipico dello psicologo e cosa no, e come sia facilmente evitabile erogare a non-psicologi della formazione definendo la stessa cosa con termini diversi (e questo dà già l’idea della difficoltà a definirla). Le competenze per una buona relazione d’aiuto non sono solo patrimonio degli psicologi (a volte non lo sonom per nulla perché poche università le insegnano e sfornano invece qualche giovane arrogante che solo perché ha un titolo con valore legale va in giro a dire agli altri quello che devono farfe, rovinando loro sì lìimmagine sociale dello psicologo), ma anche di assistenti socili, infermieri, educatori, insegnanti, preti, genitori, ecc.. Chi gliele insegnerà? grazie
l’art 21 mi è poco chiaro, sono solo delusa che tutte le scuole di psicoterapia compresa la mia tengano corsi di counseling. a me fu proposto già con il diploma da ragioniera e nonostante il mio ardente desiderio decisi che non avrei fatto il master se non dopo la laurea. intanto dà strumenti molto potenti e dà un senso di potere che a volte non ben calibrato confonde l’altro. ben venga la corretta comunicazione, l’accoglienza dell’altro, ma se si vuol fare economia e fare sportelli pseudopsicologici in ospedale, azienda e scuola la mia laurea, la mia specializzazioen va a farsi benedire. e così vale per il ruolo dello psicologo in rsa indispensabile in veneto, mentre in emilia è indispensabile l’animatrice. in lombardia posso cambiare pannolini in un micronido, in emilia e altre regioni no. ci si mette anche la figura del mediatore familiare e siamo tutti psicologi. Io non guadagno ma guarda un pò quella che fa la sensitiva e regressione ipnotica si. e parlo con cognizione di causa perchè vengo dalla sicilia, vivo in emilia, studio in veneto e sono anche una qualificata animatrice sociale, lavoro che fino ad ora mi ha permesso di sostenermi, sono un counselor, una formatrice, una postina. insomma sono una persona stanca di essere sminuita professionalmente, compreso il titolo di psichiatra e psicoterapeuta usato solo per sedare senza un minimo di lavoro su sè stessi. Il lavoro sull’anima dell’altro è qualcosa di prezioso e delicato come un cristallo finissimo, se non c’è umiltà e lavoro su di sè è solo un uso improprio del potere. E poi sono spesso persone che già lavorano e tolgono il pane a noi che ci siamo fatti……SCusate lo sfogo.
Mi spiace molto dirlo per la categoria alla quale appartengo ma devo putroppo concordare con il collega Giovanni quando parla di atteggiamento difensivo. Trovo che questa “crociata” contro le professioni non regolamentate nasconda, dietro lo sbandierato intento di “tutela della salute dei cittadini”, quello reale dell’autotutela degli psicologi contro la concorrenza. Voglio dire, conosciamo tutti quanti la difficile situazione occupazionale della nostra categoria. Io stessa non mi sarei mai immaginata di sentire il Presidente dell’Ordine degli Psicologi sconsigliare ai ragazzi di iscriversi alla facoltà di Psicologia per via dell’eccessivo numero di psicologi ormai in circolazione. La verità, e lo sappiamo tutti (giovani psicologi in primis), è che siamo troppi, e questo per tutta una serie di motivi che non è questa la sede di affrontare. Per cui, se la lotta contro gli “pseudo-psicologi” può anche essere comprensibile per uno scopo di auto-conservazione in una situazione già di per sè critica, mi sembra francamente pretestuoso farla passare come una difesa della salute pubblica contro i potenziali danni fatti dagli “stegoni”. Questo perchè (e anche qui mi trovo d’accordo con il collega) purtoppo nè l’università nè tantomeno l’Ordine costituiscono in realtà una garanzia di questa fantomatica competenza e professionalità che sarebbe da ascrivere agli psicologi e a loro solamente. La formazione universitaria a volte lascia decisamente a desiderare, del tirocinio non se ne parla (spesso trascorso in mansioni che poco hanno a che vedere con la pratica clinica) e l’esame di stato ogni anno sforna centinaia di nuove leve grazie ad una scarsa selezione. Tutto questo per dire che, in tutta onestà, non mi sentirei a volte di attribuire ad uno psicologo in quanto tale una maggiore capacità professionale e fiducia rispetto ad altri; nella realtà la capacità del singolo professionista finisce spesso per dipendere da molti altri fattori che poco o niente hanno a che vedere con quell’iter formativo a cui ci si riferisce come fosse un “marchio di qualità”.
Da quello che leggo devo forse dedurre che se un filosofo ha alcune caratteristiche gli basta un master per poter fare lo psicologo? così come potrebbe fare un commercialista e così via? wow invece di migliorare peggioriamo sempre più.. .
perchè ci scandalizziamo tanto quando una persona non laureata si finge dentista e opera su pz ignari di tutto e poi non facciamo la stessa cosa quando si parla della psicologia materia come tutti sappiamo delicatissima e assolutamente impossibile da improvvisare o da praticare dopo un corso di soli 3 anni.
per quanto riguarda il tirocinio basta scegliere quello giusto oppure denunciare alla propria facoltà l’inefficacia di una struttura o del professionista/tutor. noi prima di tutti dobbiamo custodire la nostra professione e fare in modo che nessuno osi vendere all’asta i nostri studi al miglior acquirente ciò significa tutelare e rispettare chi ha studiato per 5 anni più un anno di pratica e rispettare i pazienti. la facoltà di psicologia è aperta a tutti questo significa che tutti possono studiare e praticare questo tipo di professione,prendere scorciatoie diventa poco rispettoso nei confronti di tutti.
Invito i colleghi, interessati al referendum, per farsi un’idea a visitare il sito di Assocounseling. Potranno così verificare l’affermazione del dott. Grimoldi ” …. i colleghi, già abilitati all’esercizio della professione di psicologo che si vedono affiancati ad aspiranti stregoni che cercano un rimedio ai danni della crisi economica. Ed è grave per via della confusione che si crea nei confronti dell’utenza, dei cittadini, a cui verrà offerto un servizio privo di reali garanzie di efficacia, di competenza del professionista, addirittura di chiarezza in merito alla differenza fra un professionista abilitato grazie ad un passaggio certificato dallo Stato, ed uno che ha soltanto il diplomino privato, stampabile comodamente da casa.”
Non dimentichiamoci dei neuropsicologi. Vorrei segnalare che ad oggi vengono venduti “corsi” e materiali riabilitativi (software e non solo) e chiunque, in primis logopedisti e fisioterapisti. Se vogliamo tutelare la specificità dellla nostra professione credo che, al pari del materiale testistico per la diagnosi, anche gli strumenti riabilitativi specifici dello psicologo non dovrebbero essere accessibili a chi non ha la formazione adeguata per utilizzarli
Mi trovo del tutto in sintonia con quanto affermato da Giovanni Turra. Personalmente non sono psicologo, ma mi trovo un’esperienza pluridecennale come educatore. Ho lavorato in comunità terapeutica con tossicodipendenti, nella doppia diagnosi, con le famiglie e svolgo attività di formazione e supervisione per personale di comunità, tra cui diversi psicologi assunti come educatori. Trovo questa anomalia una compromissione di competenze, quasi che per lo psicologo fosse scontato il saper fare bene anche l’educatore, ma non il contrario, ovvviamente. Sento diverse opinioni sull’articolo 21, ma nessuna definizione chiara dei confini, nè tantomeno una chiara definizione di setting (eppure questo nella professione di psicologo dovrebbe essere piuttosto chiaro). Sembra di assistere a una disperata ricerca di una definizione della professione per differenza, ovvero definendo più coloro che “non sono” psicologi (attribuendovi peraltro una buona dose di malafede, di incompetenza, di inconsistenza e di intento criminale)rispetto a quello che gli psicologi “sono”. Nella mia personale esperienza ho acquisito diverse competenze psicologiche, oltre ad aver sostenuto diversi esami in tale senso, che sono entrate a far parte della mia professione. Curiosamente sono proprio queste, come è capitato diverse volte, a consentirmi, di fronte a una richiesta di aiuto e qualora tale richiesta uscisse dal mio territorio, di effettuare l’invio a un professionista psicologo, a uno psichiatra o a qualsiasi altra risorsa disponibile sul territorio. Eppure ho usato empatia, ascolto, comprensione, assenza di giudizio, accoglienza, tutti elementi che appartengono al mondo della psicologia. Mi occupo di supervisione e formazione di colleghi educatori che lavorano nelle comunità, ascoltando e accogliendo i loro vissuti nella professione, le loro difficoltà e le loro crisi. Mi prendo cura di loro, ma è proprio il setting a essere definito e delimitato. Il confine fra il sé privato e il sé pubblico o professionale, non è sempre così netto come si vuole far credere. Non esistono emozioni private ed emozioni professionali, ma si può definire un territorio nel quale possiamo trattare solo ciò che è inerente il ruolo e la professione, nonchè tenere fuori ciò che invece appartiene all’intimità e alla storia privata della persona che non può e non deve essere resa pubblica. Chi deve insegnare ai non psicologi questa differenza? E soprattutto, si può insegnare una tale dimensione complessa senza offrire strumenti per interpretare la realtà? Si può insegnare a non fare qualcosa senza averla prima conosciuta? Nel tentativo di impedire a psicologi di insegnare si va a confermare proprio l’approssimazione, ovvero il fatto che tali insegnamenti possano essere propinati proprio da chi non è formalmente riconosciuto dallo stato come detentore di tali competenze. Posso parlare di profezia che si autoavvera zenza essere tacciato di abuso della professione psicologica? Un boomerang devastante. In ultima analisi, non sento parlare della branca di formatori psicologi (nonostante la formazione, è bene ribadirlo ogni tanto, sia attività pedagogica) che intraprendono voli pindarici fra PNL, Analisi Transazionale o pratiche che invadono le organizzazioni di contenuti psicologici del tutto fuori controllo. Non si insegnano tecniche gestionali, ma tattiche di arginamento e di manipolazione invadendo, spesso e volentieri, proprio la sfera privata della persona. Personalmente trovo più criminale permettere a uno psicologo di andare in azienda a parlare dei meccanismi di difesa per consentire al manager di aggirare quelli dei suoi collaboratori al fine di ottenere un profitto, piuttosto che insegnare a un educatore, a un assistente sociale o a un volontario come si fa ad ascoltare e a prendersi cura dell’altro.
Ho tuttavia l’impressione che che la chiarezza di questi aspetti sia del tutto soggettiva e che, proprio gli psicologi, non se ne occupino per nulla. Trovo questo clima del tutto sgradevole e, nonostante abbia personalmente avuto la possibilità di intraprendere la professione di psicologo, mi sento, a fronte di ciò, del tutto felice di non averlo fatto. Questo è molto grave, per una professione che a mio parere ne sta uscendo con le ossa rotte.
inoltre vi è il paradosso assurdo che ai medici, che ne sanno assai meno di psicologia degli educatori formati all’università e pure degli assistenti sociali, è concesso l’accesso alla formazione e lapratica professionale in psicoterapia (anche se sono medici del pronto soccorso o ortopedici) e, di conseguenza, è loro concesso l’insegnamento delle tecniche psicoterapeutiche a chicchessia: counselor, educatori, infermieri, ecc.. E su questo il CNOP abbassa le orecchie e dà un bell’esempio di “chinarsi” volentieri alle logiche sanitarizzanti. A quando, gentile Grimoldi, l’esclusione anche dei medici dalla formazione in psicoterapia?
Dal 10 febbraio di quest’anno la professione di counselor è ufficialmente riconosciuta e regolamentata. Il loro target è sostanzialmente lo stesso degli psicologi, infatti si occupano di comunicazione, supervisione, gestione delle relazioni interpersonali, tecniche di rilassamento, ecc.
Assistenti sociali, infermieri, educatori, insegnanti, ecc. sono anche i loro clienti.
Scusate, ma ho l’impressione che ci stiamo preoccupando di chiudere le porte dopo che i buoi sono scappati. La classe medica è riuscita a proteggere la propria professionalità dagli omeopati che si improvvisano medici, noi invece…
Ricordo che quando mi laureai in psiocologia mi sembrò ingiusto avere come concorrenti dei laureati in materie altre ma iscritti all’albo in virtù, a volte, della compiacenza di psicologi amici. Ora mi chiedo che senso abbia per un giovane impegnarsi in 5 anni di studio, esami e tesi quando in tre anni può diventare counselor.
Insomma, mi chiedo se abbia ancora senso continuare a difendere questa laurea o se non sia meglio tifare per l’accorpamento a medicina.
Condivido perfettamente il problema della mancata tutela della nostra professione da parte degli stessi colleghi. Ma il problema non si limita solo al Counseling. Tempo fa, girando virtualmente per le facoltà d’Italia mi sono confrontata con il percorso formativo della Laurea Sanitaria di Educatore Professionale dell’Università di Torino. Bene, praticamente è quasi identica al percorso di Laurea in Psicologia che io ho seguito alla Sapienza, un percorso snellito e di poco variabile; però sappiamo benissimo quanto l’accesso al mondo del lavoro di queste lauree sanitarie sia più facilitato; ma non finisce qui, nel percorso di Laurea in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica dell’Università di Ferrara ho riscontrato nell’esame di METODI E TECNICA DELLA RIABILITAZ.PSICHIATRICA E VALUTAZIONE MULTIPROFESSIONALE il seguente programma:
Testi di Riferimento
Boncori L., “Teoria e Tecniche dei Test”, Torino, Bollati Boringhieri, 1993
Cassano B. C., Pancheri P. e coll. (a cura di ), “Trattato Italiano di Psichiatria” (vol. 1: Test Mentali; Strumenti di Valutazione e di Misura), Milano, Masso 2002.
Del Corno F., Lang M. (a cura di ), “Psicologia Clinica” (vol III: La Diagnosi Testologica), Milano, Franco Angeli, 1977.
Pancheri P., Sirigatti S., (a cura di), S.R. Hathaway e J.C. McKinley, “Minnesota Multiphasic Personality Inventory – 2”, Firenze, OO.SS., 1995.
Ruggeri M., Dall’Agnola R.B., “Come Valutare l’Esito nei Dipartimenti di Salute Mentale”, Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2000.
Sono uscita fuori dai miei panni perchè, tranne l’ultimo, sono tutti testi che abbiamo utilizzato alla Sapienza, ma soprattutto viene insegnato l’MMPI, e io quando sono uscita dalla mia facoltà ho dovuto pagare un Master post universitario per poterlo studiare e soprattutto, come sapete benissimo, bisogna essere abilitati con l’ESAME DI STATO per poterlo somministrare! Noi laureandi in Psicologia sapevamo benissimo che erano guai all’esame di stato se dicevamo di aver somministrato test di personalità anzitempo!
Non vi nascondo che in tutto questo ho spesso pensato di iscrivermi ad una di queste Facoltà e non mi sono ancora iscritta all’Albo proprio per la scarsa tutela…
Perché io con la Laurea che ho non posso accedere direttamente a questi nuovi percorsi di Laurea senza esame d’ammissione e con la convalida di tutti gli esami equivalenti?
E se volessi formarmi nel Counseling? Devo trovare a fianco a me fisioterapisti, logopedisti, ragionieri …ecc… e allora cosa significa veramente essere psicologi?!!!
Scrivo tutto questo perché qui non si tratta più di tutelare solo gli utenti, ma noi stessi. Tutti i colleghi e gli enti che violano l’articolo 21 stanno facendo un grosso danno, specie a quelli come me che non hanno potuto seguire una scuola di specializzazione in Psicoterapia.
Grazie per questo spazio dove ho potuto finalmente esprimere questi miei risentimenti.
Ma come è regolamantata la professione di counselor nel resto d’Europa e ad esempio negli USA dove storicamente esiste la figura del consulente?
Rispondendo all’ultimo post in particolare, mi verrebbe da dire che il – “giovane arrogante che solo perché ha un titolo con valore legale va in giro a dire agli altri quello che devono fare” – non è certo una prerogativa delle facoltà di psicologia.
Il problema infatti è su un altro piano ossia l’importante necessità di limitare la diffusione di “professioni non titolate” nate ai margini di quelle riconosciute ufficialmente. Vale per gli psicologi come per tutte le altre categorie titolate di professionisti.
Purtroppo la psicologia, per sua natura, lascia indubbiamente più margini operativi in tal senso in quanto vi sono più difficoltà a definirne in modo netto i confini operativi. E’ in ogni caso evidente che la figura del counselor (tanto per fare un esempio) nasce proprio per chi vuole percorrere la professione di “aiuto alla persona” senza “impegnarsi” in un percorso titolato e con valore legale. Bando all’ipocrisia…
Se volessero essere realmente titolati ufficialmente per quell’area professionale basterebbe che seguissero la strada “con valore legale”. Ma chi glielo fa fare? Tanto non gli dice niente nessuno… Basta navigare un po’ in rete per accorgersi di quanti “finti psicologi” professano di fare “terapia o consulenza psicologica” stando ben attenti a non utilizzare le “parole vietate dalla legge” ma lasciando ben intendere la loro prestazione. E chi gli fa niente? Se volete degli esempi concreti basta chiedere.
Se vogliamo, un problema in parte simile è in oltre presente anche all’interno dell’ “area psicologica” ossia quello degli psicologi non titolati per fare terapia ai propri pazienti ma che si infischiano apertamente della necessità di un’ulteriore riconoscimento legale.
Per ora è tutto, anche se non è certo tutto quì.
Saluti
Alberto Mazzotti
Concordo pienamente con il collega Turra perché non si può fare la guerra partendo già zoppi…e tanti anni di battaglie in passato sono state perse per questa ragione. Siamo ancora una categoria debole per molti aspetti,primo fra tutti la poca chiarezza che noi psicologi abbiamo del nostro profilo e delle nostre competenze. E c’è ancora tra di noi chi si oppone ad una definizione chiara e puntuale delle stesse, nascondendosi dietro il baluardo della “riduzione della libertà”, cosa quanto mai falsa visto che è proprio la carenza di trasparenza riguardo ai nostri confini che crea la nostra debolezza e schiavitù. Bisogna lavorare per costruire i nostri confini, non difendere continuamente la loro invasione da parte dei nemici (sempre per mantenere la similitudine con l’arte della guerra)!
A tutt’oggi l’articolo 21 non viene applicato, dal momento che Scuole varie insegnano teorie e tecniche psicologiche a non-psicologi.
Sotto il nome di Counseling in realtà si insegnano strumenti della psicoterapia e questo è grave.
Quindi mi domando cosa si vuole revisionare: un articolo che non è mai stato applicato? I vari Ordini perchè hanno permesso una tale non-applicazione?
Io è da tanto tempo che sento questa cosa del divieto di insegnare competenze e strumenti proprie dello psicologo a non psicologi e vedo tutto ciò puntualmente disatteso. E’ pieno di piccole scuole che insegnano di tutto e di più a persone con i tioli più disparati. Una volta seppi di una signora con diploma in segretaria d’azienda che stava frequentando una scuola di counseling con materie come la consulenza psicologica, tecniche colloquio etc. Ovviamente questa finito il corso andrà in giro a dire che sarà una specie di psicologa e chi ha bisogno può andare da lei. Le cose sono tutt’altro che regolari.. all’università ad esempio perchè certi corsi sui test erano opzionali per studenti di altri corsi e quindi uno studente di scenze dell’educazione poteva frequentarli e fare l’esame coem gli studenti di psicologia? Mi domando se le regole siano mai state applicate in tal senso…
Domanda: si trovano esposti ed enucleati quali siano questi “strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di psicologo”? No, perché altrimenti gran parte dell’attività, compreso il trasferimento terapeutico, da un lato, e il magistero, dall’altro, ci potrebbero venire impediti! Il problema è che cosa o a quale tipo di figure dev’essere inibito?
Altra domanda: e per quei contenuti nati in altri ambiti (psichiatria, filosofia, religione…) e che vengono usati dagli psicologi possono essere “rivelati” ai non adepti? E gli psicologi hanno diritto di conoscerli? E possono essere pubblicati e commercializzati pubblicamente?
Oggi la Sipap ha diffuso una versione (definitiva) del modificato art. 21 su cui ci verrà chiesto di esprimerci.
Il testo in questa versione mi apre a due domande:
1. L’aggravante deontologica è espressa in forma così ampio da far riferimento non solo ai “counselor” ma a tutte le attività educative, scolastiche, infantili, di associazionismo e caritatevoli che si occupano di relazioni di aiuto e rilasciano un qualsiasi “attestato”. Ora la definizione di “attività ingannevole” è o talmente generica da includere tutto ciò che non ha evidenze scientifiche di efficacia (ma quante pratiche psicoterapeutiche rientrerebbero?) ovvero non verrà utilizzata se non in un procedimento civile/penale.
2. “Avvallare con la propria opera professionale” sembrerebbe far riferimento anche ai tanti colleghi che scrivono manuali e libri totalmente operazionalizzati, in cui partendo praticamente da niente si può imparare a sapere e saper fare quanto descritto.
Concludendo concordo sul bel lavoro nella definizione degli “atti tipici”, definizione che mancava da troppo tempo nel panorama italiano, ma rimango fortemente perplesso sulle “aggravanti deontologiche” che mi sembrano più aprire le porte a caccia alle streghe (quando i “mostri” sono in professioni di più lunga data e potere).
Non credo che ci sia niente da spiegare oltre, articolo 21..o non articolo 21.
Ciò che andrebbe rivendicato, secondo me, è che CHIUNQUE insegni, QUALUNQUE cosa che dia dei titoli (da “counselor a quelli più fantasiosi) che permettano, in qualche modo, ad un soggetto di esercitare una professione che necessita di uno (ed uno solo) percorso istituzionale già esistente (medico, veterinerio, psicologo, architetto, ingegnere, etc) venga sanzionato penalmente, come prevede la legge.
Per quanto riguarda specificamente i nostri problemi come psicologi, vero è che ci abbiamo messo del nostro. Infatti. le “rogne” più pruriginose ci vengono proprio da alcuni dei nostri “onorevoli” colleghi.
Un medico, un ingegnere..etc non si sognerebbero minimamente di fare cose del genere nei confronti dei colleghi, non fosse altro per non sperimentare vicende penali, rischi di radiazione sicura e piangere lacrime amare.
Allora, come mai queste cose succedono solo agli psicologi?
Io mi sono fatta un’idea (intendiamoci, un’idea molto personale che non pretende di essere verità per tutti voi!)abbastanza chiara del problema,soprattutto frequentando una scuola di specializzazione di psicoterapia (medica, aperta anche agli psicologi)ed è questa:
1) non possiamo avere accesso alle strutture pubbliche solo come psicologi, a differenza dei medici;
2) facciamo fatica ad aprire uno studio perché oneroso
3) reperire pazienti non è facile
4) per fare psicoterapia (senza incorrere in sanzioni)o qualunque straccio di concorso ci vuole la specializzazione che, grazie sempre ai nostri colleghi, è privata e costosa;
E siccome dobbiamo pur mangiare, alcuni di noi con l’emisfero Dx molto sviluppato cosa fanno??
Fanno FORMAZIONE!!!
E a chi la fai la formazione?
Ai colleghi!
Ma non bastano! Si, perché spesso alcuni fanno le scuole di specializzazione oppure (più spesso) hanno le “pezze al culo”.
E allora???
Allora illudi dei poveretti (per es. come una mia conoscente che ha fatto un prestito)che possono fare il “counselor”!!!
Più di una persona mi ha raccontato storie del tipo e, sono certa, anche a voi. Poi basta fare un giro sul web, oppure andare su youtube per vedere e sentire “esimi” colleghi sputtanarci e decantare le belle prospettive future del counseling.
Uno dei tipi di counseling che mi ha tranciato di netto quattro anni della mia vita è stato quello “ipnotico”. Mi sono detta: “ma di quale razza cazzona sei???? Come una imbecille, ti sei fucilata 4 anni di scuola di psicoterapia e ipnosi clinica, quando in un anno potevi fare le stesse cose con un paio di migliaia di Euro, evitare di sgobbare e di rinunciare anche all’indispensabile!!!
Per farla breve, per quanto mi riguarda possiamo cominciare dall’articolo 21…o da dove volete. Basta iniziare a fare qualcosa, poi si vedrà…..altrimenti noi restanti psicologi (etici?) potremmo aprire una scuola di psicologia Low Cost per tutti…ma veramente tutti! Che ne dite?
Ogni psicologo che insegna ad un medico, dentro ad una scuola di psicoterapia, a fare dei colloqui psicoterapeutici, infrangerebbe l’art. 21. Ogni medico psichiatra che insegni a psicologi o a counsellor gli stessi srumenti, lo può tranquillamente fare. Che si fa?
Leggo e rileggo, forse un pò di parte, ma l’unica cosa che capisco è “noi abbiamo studiato e già è difficile trovare lavoro così, anche questi counselor no!”
Ho studiato psicologia (triennale) per rendermi conto che, lavorativamente, posso fare NIENTE… ho fatto un master in UK in ipnosi per scoprire che in Italia nessuno la insegna in modo universitario ed è assolutamente incerto praticarla… ma tutti (medici, psicologi,…) vorrebbero blindarla… mentre in UK puoi praticarla liberamente, addirittura in convenzione con la Sanità pubblica (NHS) per alcune patologie come la sindrome dell’intestino irritabile… insomma, tutti vogliono arroccarsi!
In Italia per fare agopuntura bisogna essere medici, nella “selvaggia” Gran Bretagna la puoi esercitare dopo aver fatto il corso… e ci sarebbero altri mille esempi di come in Italia ci tuteliamo con il corporativismo, e dove non ci arriviamo ci buttiamo il cappello!
Insomma, i medici vorrebbero blindare tutto, gli psicologi si sono riusciti a ricavare uno spazio e lo difendono con i denti, tutto il resto viene considerato PIRATERIA!
e.. per finire…
L’insegnamento di una scienza – in senso astratto – è libero e non sottoponibile a vincoli. L’articolo 33, 1º comma, della Costituzione sancisce che L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. I Padri Costituenti intesero proprio questo articolo a garanzia della libertà di manifestazione concettuale e, al tempo stesso, della effettiva libertà della manifestazione organizzativa e strumentale dell’insegnamento, come peraltro ribadito dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 16/1980) che è più volte intervenuta in materia.
http://www.gliaffidabili.it/a/altri-professionisti/differenze-tra-counseling-e-consulenza-psicologica
Riccardo, hai detto bene “l’insegnamento” ma non la pratica. Sembra una sottigliezza, ma non lo è! Ti faccio un esempio: nella mia scuola di specializzazione in psicoterapia (scuola medica, aperta anche agli psicologi) ci insegnano la neurologia, la psichiatria, la farmacologia e tante altre belle cose mediche come la medicina legale (ma anche la psicologia giuridica). Questo non vuol dire che io possa praticare cose “mediche” o dare farmaci, ma che la conoscenza di queste cose mi serve per fare al meglio il mio mestiere che è quello di psicoterapeuta, dove tratto patologie che hanno a che fare non solo con la Psiche ma anche con il Soma. Tanto per informazione ci sono leggi, sentenze e quant’altro che spiegano benissimo perché e percome le cose che si possono fare o meno. Per quanto riguarda l’ipnosi, a me risulta che in Italia come tecnica non sia regolamentata, per cui chiunque la può praticare, anche tu che hai fatto un master all’estero. Quello che non puoi fare è praticarla come “terapia”. Cioè, la puoi utilizzare solo a scopo di “benessere e rilassamento”.
Stesso discorso vale per lo psicologo e il counselor, che legalmente non esiste come professione: loro se la cantano e loro se la suonano! Si stampano i diplomi e gli attestati più improbabili! Possibile che i counselor si ostinino a dire che non trattano le patologie e quindi possono fare cose psico sui sani! E’ proprio questo il mestiere dello psicologo: trattare persone che hanno un disagio, fare prevenzione, usare strumenti testistici. Lo psicologo non può fare psicoterapia, né curare alcuno! Può fare solo sostegno (counseling), proprio ciò che i counselor vorrebbero fare, un po’ più furbescamente.
Il problema è che alcuni amministratori, politici, insegnanti e altri non sanno queste cose e la parola “counselor” gli sa di esotico (nel senso di straniero). Qualche tempo fa ho mandato una segnalazione all’Ordine Nazionale di un bando per uno sportello di counseling psicologico in un liceo, aperto in primis a persone con un master in counseling e (in ALTERNATIVA!!!) agli psicologi.
Il punto, secondo me, non è l’arroccamento degli psicologi ma la rivendicazione e l’esercizio di un diritto che discende da un “dovere” e cioè un determinato percorso di studi. Non si tratta di odio o “puzza sotto al naso” come dicono alcuni, ma semplicemente di mettere le persone nelle stesse condizioni e dare le stesse opportunità a tutti i cittadini, cose che rimandano al diritto costituzionale.
Quindi, la mia domanda è semplicissima: “E’ legalmente giusto che due persone debbano esercitare la stessa professione (ben definita) avendo fatto percorsi che non sono neanche lontanamente comparabili?”
Mi dispiace ma rimango della mia idea anche sul peccato originale perpetrato dal nostro Ordine quando sono stati inseriti “cani e porci”, come suol dirsi, nell’Albo (mi dice qualcuno, anche ragionieri!)
Sinceramente da profano l’idea che esistano insegnamenti conosciuti dai soli psicologi e tramandabili solamente ad altri psicologi mi sembra un inizio di mentalità corporativa.
Facciamo un esperimento mentale: pensiamo non ad un medico ma ad un filosofo o ad uno storico che oscurasse in un modo simile, con l’accordo della maggioranza dei colleghi, una dottrina di pensiero o un insieme di conoscenze sul passato. Sarebbe facilmente criticabile. Invece si accosta la psicologia alla medicina per ribadire un’oggettività che probabilmente non c’è (non almeno al livello della medicina organica). La prova è la semplice esistenza di più scuole con paradigmi differenti e, immagino, anche una diversa concezione della psiche umana, che, per quanto riguarda il corpo, in medicina non trova corrispondenze (l’anatomia è una e resta una, al massimo ci sono più tecniche di intervento ma tutte nate su conoscenze di base uniche).
Chi considera le tecniche o le nozioni psicologiche delle armi pericolose dimentica che resta (e probabilmente basta) il divieto di esercizio della professione per i non iscritti all’ordine.
Che, oltre a questo, esista una fetta consistente di scienza (ma siamo sicuri che la Psicologia non sia piuttosto una disciplina umana?) segreta lo considero, per principio, aberrante: non c’è un divieto simile nemmeno per i medici, che io sappia, e quando ci fosse renderebbe il tutto simile alle religioni antiche e alla magia. Il divieto agirebbe infatti come uno scudo contro la revisione degli insegnamenti da parte della società tutta e non solo da parte di “iniziati”
stanno arrivando le schede-referendum per l’approvazione e votazione del nuovo codice deontologico per psicologi.
io suggerireri, almeno per l’articolo 5 di lasciare le cose come stanno e NON dare adito ad inasprimenti ed interpretazioni rigide sulla formazione obbligatoria dello psicologo. Tutti noi sappiamo che è importante, tutti ci siamo battuti sull’ambiguità delle regole sugli ECM obbligatori, tutti ci formiamo sulla base dei NOSTRI INTERESSI
lasciamo, quindi, che sia il professionista a gestire la sua formazione sulla base delle sue esigenze.
pertanto suggerirei di NON approvare i cambiamenti dell’articolo 5
poichè questa aggiunzione “la violazione dell’obbligo di formazione continua determina un illecito disciplinare che è sanzionato sulla base di quanto stabilito dall’ordine professionale”
è pericolosissima, torna a rendere ambigue le cose e potrebbe legittimare sanzioni e obblighi, per poi sentirci dire SIETE VOI CHE L’AVETE APPROVATA.
sarebbe una vera spada di Damocle pendente sulle nostre teste e cosa peggiore ce la metteremmo proprio noi.
diffondete tra i colleghi!!!
Questo articolo è molto interessante, come tutto il il sito generalmente. Son un assiduo fan, complimenti.