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Intervista a Tonino Cantelmi

(Psichiatra; Presidente della Associazione degli Psicologi e Psichiatri Cattolici)

Orientamento sessuale e patologia

L’orientamento sessuale ha una componente più genetica che culturale?

Sfortunatamente su questo abbiamo pochi dati; abbiamo un certo numero di studi, un paio molto interessanti che riguardano coppie di gemelli omozigoti adottati e che sono vissuti in situazioni familiari diverse, e il tasso di concordanza in questi studi è interessante perché sembrerebbe attribuire un certo rilievo genetico al tema della omosessualità. Però sono davvero pochi questi studi. Immaginiamo che sulla schizofrenia non sappiamo quanto pesi realmente il dato genetico costituzionale e abbiamo migliaia e migliaia di studi, e non siamo in grado di definirlo. Per quanto riguarda l’omosessualità il peso della genetica con 4 o 5 studi – per quanto un paio ben fatti – è improvvisato. E su questo ci sarebbe da discutere. Per quanto riguarda l’omosessualità mi sembra che il contributo degli studi che evidenziano un aspetto psicogenetico nello sviluppo dell’orientamento omosessuale siano un po’ più consistenti in questo momento. Tuttavia, come tutti possiamo sapere, direi che su questo non abbiamo idee chiare. Nessuno oggi può dire “l’orientamento omosessuale è legato a questo o a quest’altro”.

Quale posizione assumeresti verso genitori che, venendo a sapere dell’omosessualità della propria figlia o del proprio figlio, ne sono spaventati e angosciati e le chiedono una terapia? Come sarebbe più corretto rispondere loro?

Credo che i genitori possano interrogarsi su questo, o debbano interrogarsi su questo. Anche qui non può esistere una risposta preconfezionata e ideologica che dia una definizione. Ancora spetta ai genitori la competenza della educazione, dello sviluppo, dell’accoglienza del figlio, della capacità di farlo crescere. Probabilmente ai genitori va demandata una analisi più attenta delle dinamiche familiari per cercare di capire bene da un lato le loro difficoltà, ma dall’altro anche se c’è una qualche possibilità di aiutare le persone a crescere nel modo migliore possibile. Voglio dire che non può esistere una risposta preconfezionata. Mi lascia molto perplesso che ci siano risposte preconfezionate. Credo che la psicoterapia non possa non fare una decodifica della domanda.

L’omosessualità è un comportamento sessuale patologico? Per quali ragioni si diventa omosessuali?

Credo che la comunità scientifica in qualche modo abbia definito l’orientamento omosessuale, non tanto i comportamenti (anche i comportamenti eterosessuali potrebbero essere patologici – non ha nessun senso questo discorso), non espressivo di psicopatologia di per sé. L’ICD-10 (International Classification of Diseases, 10th Revision[1], ndr) specifica che l’orientamento sessuale in genere di per sé non costituisce una condizione che richiede una attenzione di tipo terapeutico. Su questo c’è un sostanziale accordo.

E perché si diventa omosessuali?

Ci sono studi genetici interessanti, ma che al momento non sono in grado di definire il peso della genetica. Ci sono studi sulla psicogenetica, sullo sviluppo e sulla influenza dell’ambiente, di alcune dinamiche, ma sostanzialmente credo che nessuno sia in grado oggi di dire perché si sviluppa un orientamento omosessuale.

Terapia riparativa

Ha senso impostare una terapia specifica per persone omosessuali e in cosa consisterebbe la sua specificità?

Credo che non abbia nessun senso. Non esistono terapie specifiche per gli omosessuali, per eterosessuali o bisessuali.

Esistono dei pazienti, esistono delle domande di terapia, esistono delle attività del terapeuta che deve decodificare questa domanda, esiste una sofferenza, ed esiste la possibilità di aiutare questa sofferenza tenendo conto, ovviamente, e per me è il dato più importante, del codice valoriale dei pazienti. È su questo che secondo me occorre aprire il dibattito.

Cosa pensi delle teorie di Joseph Nicolosi (del Narth[2], o di organizzazioni che a queste si ispirano come Obiettivo Chaire[3]) e della sua proposta di terapia riparativa?

Il termine “riparativa” ha una lunghissima tradizione in ambito psicoanalitico, (c’è una grossa letteratura sul termine “riparativo”), però sento il termine “riparativo” come il termine “affermativo” di per sé ideologici.

Esistono dei modelli di psicoterapia che sono convalidati, che sono molto pochi, come per esempio le terapie cognitive o quelle interpersonali. Sarebbe interessante che l’Ordine degli Psicologi affrontasse in maniera forte e scientifica il concetto di validazione della psicoterapia. Credo che pochissimi approcci psicoterapeutici abbiano una sufficiente validazione. Non esiste una psicoterapia né affermativa né riparativa, esiste la psicoterapia, la domanda di psicoterapia, il lavoro del terapeuta, la sofferenza del paziente. Le sento così ideologiche così lontane, così antiche. Anche così noiose.

Al di là del giudizio sul termine “riparativa”, come ti poni rispetto a Nicolosi?

Nicolosi è uno psicoanalista, e sviluppa il suo lavoro all’interno della psicoanalisi. Pubblica con molta onestà quello che lui fa; lo dice con chiarezza. Negli Stati Uniti ci sono stati lunghi dibattiti. Oggi è un interlocutore molto riconosciuto; io sento due differenze rispetto alla sua posizione.

Intanto l’approccio psicoanalitico, essendo io cognitivista. E poi credo che lui soffra di alcuni aspetti della americanizzazione della psicopatologia, quindi di una sorta di semplificazione, di una causalità molto semplificata. Probabilmente in Italia sono arrivati i lavori più divulgativi, quindi forse abbiamo avuto un accesso ridotto; sostanzialmente lo sento molto debole come contributo. Di cui tener conto, ma debole, sia come impostazione psicopatologica, che come trattamento psicoterapeutico. Però ne capisco alcuni aspetti: la tradizione psicoanalitica ha molto lavorato sul concetto di “riparativo” e lui probabilmente risponde a questa tradizione.

Psicoterapia e scienza

La psicoterapia è più vicina alla scienza o ad una disciplina umanistica?

La psicoterapia dovrebbe essere una tecnica validata di intervento terapeutico. E quindi dovrebbe rispondere a criteri di validazione. Io sfido tutti coloro che in Italia si occupano di psicoterapia a dimostrare come lavorano, se hanno pubblicato studi sul loro lavoro, se ci sono studi di validazione, se hanno seguito studi secondo le Good Clinical Practice (linee guida etiche e scientifiche accettate a livello internazionale, ndr), se il loro modello di riferimento, in qualche modo, ha delle prove di efficacia. Scommetto che gran parte dei quasi 500 modelli di psicoterapia che attualmente vengono proposti non supererebbero oggi quello che si richiede per la medicina basata sulle evidenze (e che trasportato in psicoterapia dovrebbe essere una psicoterapia basata sulle evidenze).

Quindi la psicoterapia è una scienza o dovrebbe aspirare alla metodologia scientifica?

Credo che affondi ancora le radici in un aspetto umanistico, un po’ filosofico. Che però dietro alla prassi terapeutica ci sia una visione antropologica è inevitabile, e sarebbe sciocco non pensarlo. Ci vogliono due tipi di riflessione. Una sulla metodologia che deve rispondere alle esigenze di una scienza moderna. Cosa che la maggior parte della psicoterapia non fa, né in Italia né all’estero. E come diceva Hillman[4], “cento anni di psicoterapia e l’uomo è sempre più infelice”. La psicoterapia dovrebbe fare uno sforzo di riflessione su se stessa. Uno sforzo di riflessione metodologica imponente.

In questo senso credo che tutta l’area del cognitivismo sia un’area molto evoluta da questo punto di vista. Ma credo che tutta la psicoterapia debba fare questo passaggio. E andare verso il concetto di psicoterapia, piuttosto che di psicoterapia X, Y o Z.

Un’altra riflessione riguarda l’esplicitazione dei modelli antropologici di riferimento.

Psichiatria e cattolicesimo

Sei presidente della Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici (AIPPC[5]). Che senso ha definire la psichiatria “cattolica”? Che differenza ci sarebbe tra uno psichiatra cattolico e uno psichiatra ateo (o appartenente ad altre religioni: indù o buddista)? C’è incompatibilità di cura? Se la psichiatria è scienza (è una o tende ad essere una – la fisica cattolica sarebbe una disciplina ben strana…) come si concilia con una connotazione religiosa (che è più di una, oppure esiste una sola Religione)?

Nessuna differenza. Non esiste né una psichiatria cattolica, né una psicologia cattolica, né una psicoterapia cattolica. Lo abbiamo affermato scritto e pubblicato. Come al solito le persone che non hanno voglia di leggere e approfondire banalizzano in questo modo. Esistono gli psichiatri cattolici, ma non esiste una psichiatria cattolica. La psichiatria è quella che è. È una scienza con i propri statuti, con una propria epistemologia, un proprio dibattito interno.

Non è allora superfluo definire cattolico uno psichiatra? Usando le parole di Leonardo Ancona (Cattolici e psiche. Polemiche. Parla lo Psichiatra Leonardo Ancona, “la Repubblica R2”, 14 gennaio 2008): “Perché qualificare degli operatori psicologici o psichiatrici come cattolici?”. E, a proposito di valori religiosi (non solo cattolici): “Se si rispetta l’inconscio, la verità viene sempre fuori”. Ancona afferma di essere stato sempre laico come terapeuta.

L’Associazione è nata con un obiettivo ben preciso che è quello di contribuire al dibattito tra scienze, in questo caso tra due scienze: la teologia (che è una scienza, non è la fede), la teologia è una scienza con un proprio statuto epistemologico molto preciso, e la psicologia. Dopo il Concilio Vaticano II nella Chiesa cattolica si è sviluppato un dibattito tra scienze, e l’Associazione è nata con l’obiettivo di favorire questo dibattito, un dibattito che vanta qualcosa come circa 70-80mila pubblicazioni, quindi un dibattito serio. Che non ci azzecca con tutto il discorso banalizzante di una psichiatria cattolica. Io sono contro ogni sincretismo. Uno degli obiettivi dell’Associazione è anche di fermare i sincretismi nascenti, persone che mettono insieme in modo sbagliato dimensioni che sono assolutamente distinte. Allora noi abbiamo criticato duramente quella che è stata chiamata la Cristoterapia, che è una psicoterapia che invece autodefinisce cristiana. Noi sentiamo che non è corretto. Sosteniamo che ogni scienza abbia il proprio statuto epistemologico, ma immaginiamo un dibattito tra scienze diverse. Per esempio, tra psicologia, antropologia, antropologia filosofica, e teologia. La teologia è la scienza più antica, una delle scienze più antiche, con aspetti epistemologici molto interessanti. Questo è l’obiettivo dell’Associazione, non fornire una psicoterapia cattolica. Rimango stupito che questo non si capisca al volo!

Ancona è uno psichiatra di grande intelligenza e di grandi capacità, ma anche lui cade nel tranello della giornalista (Luciana Sica, ndr) che gli fa delle domande piuttosto inappropriate. Ci ho parlato e mi ha detto: “io ho fatto una intervista telefonica, quindi non potendo specificare bene, non si è capito tutto benissimo”.

In caso di conflitto tra il Magistero e il codice deontologico, quale dei due seguire? A proposito di omosessualità, il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “La sua genesi psichica [della omosessualità] rimane in gran parte inspiegabile. Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati». Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati.” Se una persona è educata a questo Magistero, quando si accorge del proprio orientamento sessuale omosessuale è comprensibile che lo viva male. Quanto può pesare questa condanna del Magistero?

Se dovessimo entrare nel Magistero della Chiesa cattolica scopriremmo delle cose interessanti, anche qui ci sono grandi banalizzazioni. Forse non è l’ambito adatto. Però esiste un documento del Magistero che si chiama “Persona humana” che credo possa superare tutte queste contrapposizioni e questi dibattiti. Il Magistero della Chiesa cattolica regola il comportamento e l’aspetto morale di persone che si riconoscono come credenti. Lasciamo la liberà ai credenti di potersi confrontare con il Magistero della Chiesa cattolica; di poterlo accettare oppure no.

La teologia, che non è un tema di fede ma è una scienza, sulla omosessualità ha 30-35 posizioni diverse, da quelle più “restrittive” a quelle più ampie. Ci sono contributi enormi proprio perché è una scienza. La scienza ha un compito. Il Magistero, la fede, ha un altro compito. Allora io credo che i credenti debbano essere liberi di scegliere i propri codici valoriali e di improntare i propri comportamenti a questi codici e che nessun terapeuta, e neanche l’Ordine degli Psicologi, debba permettersi di criticare questo.

Conflitto tra omosessualità e credenze religiose

Rispetto al conflitto tra essere credente e omosessuale (come causa di un senso di colpa e un profondo disagio implicato dalla condanna verso l’omosessualità): quanto l’essere cattolico può essere responsabile del conflitto?

L’essere credente non è un dato scontato. La fede può essere uno strumento che viene usato in modo improprio. Qui sta l’abilità dello psicoterapeuta. Noi chiediamo che gli psicoterapeuti italiani (in altri Paesi è molto più chiaro, in Italia paradossalmente molto meno, e lo si vede da quanto dichiarato dall’Ordine degli Psicologi in più riprese) rispettino fino in fondo i valori dei nostri pazienti credenti. E questo non avviene. Riceviamo decine di denunce di pazienti che aderiscono a dei movimenti ecclesiali e vivono una dinamica di fede molto profonda che si intreccia profondamente con la loro vita, che questa dinamica di fede ha un senso e un significato, e che non può essere semplicemente liquidata come psicopatologica o irrisa o trascurata. Questi pazienti non vengono rispettati. Questo è doloroso e ingiusto. Diceva Risè[6], in un articolo molto bello secondo me, che l’ideologia determina quali sono le sofferenze da ascoltare e quali no. Allora la sofferenza di un credente che ha delle difficoltà non deve essere ascoltata, la sofferenza di un altro tipo invece deve essere ascoltata? Questo è veramente ingiusto. Io credo che gli psicologi siano chiamati a fare un passo avanti: non si può più trascurare la dimensione valoriale dei nostri pazienti.

Questo vale per tutte le religioni, non solo per il Cattolicesimo? Si può creare un conflitto tra terapeuta cattolico e paziente induista o protestante (appartenente a una religione diversa)?

Credo di no. Al contrario: un terapeuta che abbia anche una dimensione di fede, che sia in qualche modo capace di comprendere questo (a me è capitato di avere pazienti di altre religioni, un musulmano, persino un paziente cinese con tutta la sua religiosità; molti pazienti ebrei).

Allora l’importante è il valore religioso, non la religione?

Tutti i codici valoriali devono essere rispettati. Anche un paziente ateo ha la sua struttura valoriale di riferimento.

Ma allora un terapeuta laico (nell’esercizio della professione, poi nella sua vita privata sono affari suoi), quindi rispettoso di tutte le religioni, che accogliesse tutti senza discriminazione, funzionerebbe bene o addirittura meglio?

Quello che noi chiediamo infatti (come Associazione) è che tutti gli psicoterapeutici siano laici. Il problema è che ci sono terapeuti che sono sacerdoti di ideologie, che è molto diverso. Ci sono degli studi molto interessanti che dimostrano come (negli Stati Uniti, per esempio, Browning[7] ha condotto degli studi sul rapporto tra codici valoriali e pazienti e terapeuti) si sviluppino le psicosette. Perché pazienti anche intelligenti, capaci e che hanno risorse e potrebbero accedere a trattamenti adeguati, invece ricorrono a psicosantoni? Uno studio interessante dimostra che la maggior parte dei pazienti ha una credenza religiosa (negli Stati Uniti parliamo di varie credenze religiose, non solo il cattolicesimo) e la maggior parte dei terapeuti, nella propria prassi, irride la credenza religiosa nei pazienti. Tant’è che negli Stati Uniti un lavoro evidenzia come questo determini un senso di incomprensione e scoraggiamento dei pazienti, e la conseguente ricerca di psicosantoni. Come Associazione contestiamo proprio questo: non vogliamo psicosantoni, vogliamo che un paziente possa andare da un qualunque terapeuta e che nessun terapeuta sia sacerdote di nessuna ideologia, tantomeno di quella cattolica. Noi chiediamo una laicità assoluta, che credo invece non ci sia.

“Modello gay”

In una delle tue risposte alla inchiesta di Davide Varì, Gli ho detto: sono gay. Mi hanno risposto: la sua è una malattia leggera, possiamo curarla, “Liberazione”, 23 dicembre 2007 (Dichiarazioni di Tonino Cantelmi, “DIRE”, 29 dicembre 2007; o anche in Se gli psicoterapeuti non rispettano i valori religiosi, “Avvenire”, 6 gennaio 2008) hai parlato di “modello gay”. In cosa consiste? Non è riduttivo parlare di “modello gay” (il dominio è troppo ampio, complesso ed eterogeneo)? Quale sarebbe possibile definire, d’altra parte, il “modello eterosessuale”? Che differenza c’è tra orientamento e comportamenti sessuali?

Un conto è l’orientamento sessuale omosessuale, che per noi è l’attrazione verso persone dello stesso sesso (questa è la definizione di orientamento omosessuale). Un conto è che questo modello possa essere vissuto ed esplicato all’interno di un altro contenitore che è più socioideologico, che possiamo dire che oggi corrisponde a quello che chiamiamo “modello gay”. Non è detto che tutti i pazienti omosessuali (con un orientamento omosessuale) si riconoscano in un modello di espressione sociale della omosessualità che corrisponde all’attuale modello gay.

La distinzione tra orientamento e comportamenti sessuali è questa: la coincidenza tra orientamento omosessuale e modalità gay di viversi l’orientamento omosessuale non è così scontata come sembra. Benché l’aspetto gay sia quello che oggi prevale, di fatto la maggior parte delle persone omosessuali non si riconosce in quel modello. È chiaro che tra l’orientamento sessuale e la modalità di esplicazione dell’orientamento ci sono dei passaggi e che non tutti si riconoscono esattamente in quel solo modo di essere omosessuali. Così come per gli eterosessuali. Quando uno dice “orientamento eterosessuale” non ha detto nulla.

Per questo ho domandato il significato di “modello gay”, non riuscendo a capire cosa denotasse.

Sulla “neutralità” del terapeuta hai dichiarato (Il presidente dell’Arcigay ascolti i miei pazienti, “Avvenire”, 10 gennaio 2008): “Non è forse più etico (ma direi semplicemente onesto) dichiarare le premesse antropologiche ed i presupposti epistemologici che sono dietro ogni modello terapeutico?”. Una volta esplicitate le premesse, quanto e come incidono sulla terapia e sul rapporto terapeutico?

Forse è un ragionamento più complesso di come è stato posto adesso. Tutto l’apporto costruttivista dimostra che parlare di neutralità del terapeuta (come asettico e neutro) è veramente ingenuo. Inutile, perché il terapeuta porta inevitabilmente se stesso nella terapia. Un terapeuta che abbia vissuto esperienze drammatiche da un punto di vista affettivo, tenderà necessariamente a selezionare le informazioni che vengono dal paziente alla luce di una griglia, di una modalità di osservazione che è la sua. D’altro canto quando noi osserviamo qualcuno mettiamo a fuoco un punto. Gerarchicamente si costruiscono nuove ipotesi. Se il terapeuta è comunque un costruttore di conoscenza, è evidente che parlare di neutralità tout court è ridicolo. È chiaro che esiste una neutralità del terapeuta; ma la neutralità di cui parla Ancona nell’intervista a “la Repubblica” è tutta un’altra cosa, stiamo parlando di ben altro qui. Il terapeuta è dentro la terapia, non è fuori, non è un osservatore ininfluente. Il silenzio o la parola creano nuovi ordini. Questo significa che non è tanto che io debba esplicitare le mie premesse antropologiche o epistemologiche al paziente, che deve essere trattato e curato, ma a me stesso. Devo essere in grado io di maneggiare bene me stesso; debbo essere in grado di maneggiare me stesso per poter in qualche modo aiutare un’altra persona. Allora il problema non è tanto mettere dei cartelli e avvisare il paziente che sta entrando in uno studio marxista-leninista o in uno studio antropofisico o uno studio cattolico. Non è questo il punto. È una responsabilità mia, a me stesso, in cui più maneggio bene ciò che sono i presupposti antropologici, filosofici, epistemologici che orientano il mio agire, più io sono in grado di agire nel rispetto del paziente. Quelli che agitano la neutralità sono quelli più inconsapevoli in assoluto, sono quelli più pericolosi, quelli che fanno più danno ai nostri pazienti.

Esiste un orientamento sessuale “naturale”? E qual è? E in che senso “naturale”?

Quando si usa il termine “naturale” si usa già una dimensione antropologica. Allora se vogliamo parlare di antropologia…

Un orientamento sessuale “sano”?

Quando diciamo che l’orientamento sessuale è naturale abbiamo dato una connotazione su un piano antropologico (sulla quale possiamo poi discutere). Non credo che questo sia l’obiettivo della scienza. Per quanto riguarda ciò che è normale, sano (e ciò che è patologico) c’è tanto da discutere. Per esempio l’infedeltà di un eterosessuale, è patologica o non lo è? Probabilmente non lo è, ma questo non implica il fatto che il paziente non possa viversi male l’infedeltà. E che abbia il diritto di decodificare il tema dell’infedeltà. Sulla normalità e sulla patologia lo lasciamo a chi discute di massimi sistemi. Oggi il problema che noi ci poniamo è un altro, ed è la sofferenza delle persone. Come rispondiamo a questa sofferenza? Speriamo di avere terapeuti intelligenti, consapevoli, preparati che in qualche modo riescano a rispondere alla sofferenza del loro paziente, nella misura in cui hanno gestito bene la propria sofferenza. Tutto questo tema dovrebbe rimandare ad un altro discorso, che è quello della formazione degli psicologi e del psicoterapeuti quando abbiamo a che fare con una incredibile percentuale (questo è abbastanza scontato) di persone che si avvicinano alla psicologia e alla psicoterapia in maniera inconsapevole, piene di problemi e per risolvere eventuali loro problemi. Anche gli psichiatri soffrono di questo: il tasso suicidario nella categoria degli psichiatri, insieme a quello degli anestesisti, è quello più alto di tutte le categorie dei medici. Questo esprime varie cose: difficoltà, comunque tutti ci portiamo dietro una serie di problematicità. Io credo che sia importante che gli psicoterapeuti sappiano gestire le loro problematicità, prima di mettere mano alla problematicità dei pazienti.

A proposito del “rispettare il desiderio del paziente”: fino a che punto è corretto rispettarlo e quando è giusto contrastarlo? Esempio: una ragazza normopeso è afflitta perché si sente grassa, magari soffre al punto da non uscire di casa; chiede di essere aiutata a dimagrire, il suo desiderio è dimagrire ancora (questo è il suo più grande desiderio). Questa domanda merita un’analisi (e magari un rifiuto sul contenuto)?

Se entriamo nella logica della discussione razionalista, probabilmente ha bisogno di un filosofo. Non di uno psicologo. Lo psicologo cosa fa? Aiuta la persona a recuperare un senso di significato alla percezione di se stessa. Cosa significa sentirsi grassa? A cosa rimanda il sentirsi grassa? Questo è il punto, altrimenti non ha bisogno di uno psicologo. Va da una amica che le dirà: “sei una imbecille perché ti vedi grassa e non lo sei”, ma non le cambia la vita. Di cosa ha bisogno? Non di una persona che si metta lì a discutere cosa è giusto e cosa non è giusto, ma di una persona che sappia decodificare questo in termini di significato e senso per la persona. In fondo tutta la psicologia si sposta verso una psicopatologia del significato oggi, se pensiamo,per esempi, al costruttivismo ermeneutico. Altrimenti sarebbe come pensare che lo psicologo possa avere dei criteri di normalità e di giustizia e di saggezza che poi applica al paziente. Lasciamolo fare ai filosofi, che stanno facendo tutti i colloqui (consulenza filosofica, ndr), non certo agli psicologi. La filosofia si propone alla sofferenza dell’uomo d’oggi. Gli psicologi devono usare gli strumenti tecnici, perlopiù validati, devono maneggiare bene se stessi e aiutare il paziente a cogliere che cosa significa (nel caso specifico) sentirsi grassa e questo che cosa determina in lei, ma secondo percorsi di sviluppo e di viabilità che sono propri e che appartengono alla struttura organizzativa della persona. Lasciamo che la persona si sviluppi secondo le modalità proprie.

Omofobia e matrimonio omosessuale

Quanto pesa l’omofobia e in che misura contribuisce al malessere delle persone omosessuali?

Il termine “omofobia” è un termine che sento improprio. La non accettazione e il non riconoscimento dell’omosessualità: quanto questo aspetto possa essere problematico oppure fonte di problemi? Ovviamente può essere fonte di grandissimi problemi, il terapeuta deve saperlo e deve saperlo gestire. Però non tutto ciò che è distonico può essere spiegabile in termini di omofobia.

Qui abbiamo un sacco di studi che lo dimostrano (soprattutto danesi e del nord Europa, società del tutto decattolicizzate, quindi studi non influenzati da un aspetto di questo tipo). Potrebbe essere improprio trascurare la problematicità derivante dall’omofobia, ma potrebbe essere del tutto ideologico e altrettanto improprio trascurare il fatto che esiste una egodistonia che non necessariamente attinge la propria costruzione sulla omofobia. Anche qui abbiamo bisogno di terapeuti preparati, che non sposino necessariamente come pregiudizio una delle due ipotesi, ma sia in grado di muoversi all’interno delle due ipotesi. Che in qualche modo si sovrappongono.

Che ne pensi del matrimonio omosessuale? Una richiesta giusta, un capriccio oppure una manifestazione di malessere? Un non riconoscimento giuridico potrebbe avere una ricaduta dal punto di vista psichico (e il riconoscimento, viceversa, avrebbe un effetto psichico positivo)?

Il tema del matrimonio omosessuale appartiene ai diritti, all’aspetto giuridico. Se vengo sentito come psichiatra non ne penso nulla. Quanto all’effetto di un riconoscimento giuridico vedremo. Vedremo che ricadute in quelle società che ammettono le varie forme di unioni omosessuali. Attiene al dibattito politico e giuridico delle società. Non attiene a noi. Noi come psicologi e psichiatri osserveremo, vedremo. Ci vorranno molti anni per vedere questo. Vedremo se è fonte di problemi.


[1] http://www.who.int/classifications/apps/icd/icd10online

[2] www.narth.com

[3] www.obiettivo-chaire.it

[4] James Hillman (http://en.wikipedia.org/wiki/James_Hillman).

[5] www.aippc.net

[6] Claudio Risè (http://claudiorise.blogsome.com).

[7] Don S. Browning (http://divinity.uchicago.edu/faculty/browning.shtml).