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La posizione attuale dello Psicologo è una posizione incomoda. Come quando viene sete durante una gita in montagna, o si ha un lieve mal di testa, per capirci. Nulla di tragico, ma stare così significa, per i più, sopravvivere: non ci si diverte certo.

La questione è tutta nel “disagio della civiltà” di Freudiana memoria: per stare nel sociale l’essere umano deve rinunciare ad una porzione di godimento. E passi, d’accordo.

Gli Psicologi però, pur di essere nel mondo indossando un’uniforme istituzionale, hanno preso alla lettera questo precetto e hanno rinunciato, rinunciato, rinunciato. E ancora rinunciano.

Fino a diventare un corpo sociale reso fragile dall’offerta eccedente di professionalità psy, squassato da sempre più frequenti emorragie di colleghi che si cancellano dagli Ordini regionali e messo in pericolo dai virus delle professioni limitrofe.

Counsellor e filosofi pratici, pedagogisti e coach – complice un’immagine sociale più friendly e una legge istitutiva della nostra professione, la 56/89, per nulla tutelante – fanno esattamente ciò che vogliono fare, avendo come limite solo la loro coscienza (un fatto che, è noto, essere faccenda molto personale).

Un abbozzo di soluzione ci sarebbe. C’è, però, da mettere in discussione un sogno, il che non è mai una gran bella cosa: la clinica.

Già, la clinica, quella roba che a noi tanto piace ma che diventa un gran problema quando c’è da presentare i documenti in banca per un mutuo. Allora, ci ricordiamo di Racamier, che nel raccontare di uno “psicanalista senza divano” racconta di “una Clinica” diversa da quella da studio, da lettino.

Eh, già, perché come ci ricorda Valeria La Via (1999) “La medicina si accaparrò il termine clinica derivandolo da greco Kline, letto. L’arte di guarire era l’arte dell’uomo che stava in piedi che ne curava un altro sdraiato, menomato, coricato in un letto”. Un’etimologia che ritroviamo nelle parole declinare (si decina un verbo, ad esempio, ma anche un invito), inclinare, reclinare.

Eppure gli Psicologi hanno ampiamente scoperto la soddisfazione ineguagliabile che si sperimenta nel curarsi dei “sani” (o per lo meno quelli che sono meno “inclinati”, meno “piegati” dalla propria sofferenza), del loro benessere e del miglioramento della loro qualità di vita.

Questa relativa sanità, questo welfare “soft”, lo ritroviamo nei settori psicologici in via di sviluppo. Investire oggi in questo ambito offre le maggiori probabilità di recuperare almeno il tempo e la fatica investite.

Mi riferisco alla Psicologia dell’adolescenza in luogo istituzionale, ovvero alla c.d. Psicologia Scolastica, ancora in attesa di una futuribile legge che la renda obbligatoria; alla Clinica Aziendale, incentivata dalla legge sullo stress correlato al lavoro; e, infine, alla Psicologia Giuridica, e in particolare alla criminologia minorile, che ha dimostrato, se ben praticata, di produrre effetti straordinari in termini di sicurezza sociale.

C’è un pedaggio, si diceva però, nel perseguire questa via. Il sacrificio di un sogno, che però significa solo barattare una fantasia infantile con un progetto di vita percorribile. E poi, sempre clinica è; a noi, alla passione e capacità di ciascuno, la volontà di adattarci ad un setting nuovo e diverso dal già conosciuto.

C’è però di più.

Vi è l’assoluto bisogno che a livello nazionale si prendano decisioni ormai improcrastinabili, in termini qualitativi e quantitativi.

Dobbiamo chiedere che si chiarisca, di fronte all’opinione pubblica e alla legge, chi siamo professionalmente: la definizione degli Atti Tipici della professione di Psicologo.

È necessario (anche di fronte a tutte le “invasioni di campo che la nostra professione va quotidianamente subendo) definire quali “Atti” qualificano un intervento come caratterizzante la professione di Psicologo e quindi possono essere compiuti solo da coloro che sono iscritti agli ordini professionali degli Psicologi, pena la trasgressione della legge e la conseguente condanna penale.

Il Chirurgo taglia, l’Architetto disegna. E lo Psicologo? … Colloquia? Uhm… Mi pare estrema la posizione di chi voglia considerare l’uso della parola da parte dei cittadini italiani un abuso della professione di Psicologo, sanzionabile dall’art.348 del Codice Penale. Sugli atti tipici occorre prendere posizione, e in fretta.

Inoltre, quanti dobbiamo essere?

L’attuale aumento del 10% annuo del numero degli Psicologi non è più sostenibile. Oggi possiamo sostenere che esistono nuovi ambiti di operatività tutti da esplorare ma… Sette anni fa eravamo 40 mila. Oggi 80 mila. Tra sei anni… 160 mila? Non sarà sempre possibile inventarsi ambiti di lavoro per “digerire” la massa degli Psicologi.

L’ente che può dare queste risposte è uno solo: il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP), l’organo di massima rappresentanza della categoria, composto dai presidenti degli Ordini Territoriali, a cui spettano i compiti di coordinamento delle politiche riguardanti la professione e che è fermo da molti mesi. Adesso, con le avvenute elezioni in Emilia Romagna, il quadro è orami completo ed il CNOP deve tornare immediatamente ad operare: non possiamo permetterci altri ritardi.

Ci manca solo che – mentre il disagio della civiltà ci fa soffrire per realizzare l’ambizione di alcuni di indossare un camice candido, di sentirsi “personale sanitario” a tutti gli effetti – il collega, restato semmai disoccupato per l’invasione dei counselor, debba obbligatoriamente frequentare conferenze e corsi privi di ogni interesse per accumulare crediti ECM, magari a pagamento, che consentono di restare in un ruolo “sanitario”.

Rinunciare al godimento va bene, ma non esageriamo.