di Federico Zanon e Luigi D’Elia |
Cliente è una parola che proviene dall’antica Roma. Clientes erano persone subordinate a un patrono che offriva loro protezione, assistenza giudiziaria e distribuzioni di cibo e denaro. In cambio gli procuravano voti alle elezioni e si arruolavano per lui. Il rapporto clientelare era ereditario, consacrato dalla pratica e dalla legge. Intere comunità divennero clientes dei generali romani che le avevano conquistate. Clientelismo si definisce ancora oggi la pratica per cui gruppi di cittadini elettori sostengono personaggi politici ottenendone favori, in una rete di reciproci interessi.
Queste note, tratte dal Dizionario di Storia della Mondadori, fanno luce su un fenomeno che forse riguarda anche la nostra professione.
Inutile girarci intorno: il clientelismo è l’ossatura dell’Italia, il modello organizzativo della nostra nazione. Impariamo il clientelismo come impariamo che il pomodoro è buono e le cavallette non si mangiano.
Osserviamo il modello del partito berlusconiano e la pantomima delle primarie: s’è sviluppata attorno alla commedia di un ‘giovane’ segretario e dei suoi vari portavoce e portaborse, apparentemente dotati di una propria decisionalità. Ma basta la parola del patrono, che gestisce realmente la rete di interessi e poteri, e vengono tutti scavalcati d’emblée. Al patrono è riconosciuta l’unica e autentica capacità di generare, creare, decidere. E’ il capofamiglia a cui sottostare in un costante mimo del rapporto padre-figlio. Il patrono è l’unico ad essere davvero genitale e l’unico autorizzato ad esserlo. L’unico fallo dotato di sacralità. Tutti gli altri sono una emanazione riflessa di quella fonte sacra. Quali nefandezze abbia compiuto, quale incapacità abbia mostrato, non ha rilievo nella logica clientelare. Il valore delle opere e delle idee è il fattore meno rilevante.
Sull’altro fronte politico, si recita in fondo una commedia analoga: nello stile arrivista e conflittuale del giovane candidato premier si replica e conferma comunque un modello paternalistico e clientelare, con la differenza che il patrono è il padre che l’adolescente deve abbattere per dimostrare di esistere in modo separato. Ancora una volta, nella nuova generazione non vi è alcuna generatività, intesa come capacità di assumere per se stesso il ruolo di adulto e per i cittadini il ruolo diligente del buon padre di famiglia. Anche qui la logica non è creativa, ma screditante: è una banale scalata al potere attraverso il discredito del patrono, gareggiando sui centimetri fallici. Un patrono che in questo caso è vecchio e debole, non un leader carismatico ma il possessore del totem familiare. Una famiglia interpretata da una classe dirigente piuttosto conservatrice. Nel tentativo di negare il modello clientelare e di candidarsi a portatori di un nuovo vento democratico, si è ricaduti implicitamente nel medesimo schema: la creatività e la leadership che si vuole non è la propria, ma quella del patrono a cui ci si vuole semplicemente sostituire. L’unica storia che si pretende di continuare è quella della propria ‘famiglia di origine’, fondata in un tempo e in un luogo così mitizzati da essere irripetibili.
Anche nella nostra categoria, come ovunque, esiste il clientelismo. Nei territori presidiati da interessi e privilegi storici, tramandati per via di successione ereditaria, troviamo clientelismo. Nelle posizioni consolidate e prestigiose, a volte conquistate attraverso lunghi anni di lavoro e a volte no, si disegna la tragedia clientelare. Ma il clientelismo che si basa sul potere acquisito dopo una lunga e faticosa carriera è forse più mefitico nelle esalazioni che produce.
Nella durezza delle carriere baronali, il baronato trova la giustificazione più potente per sottoporre i giovani psicologi alla dura gavetta del clientelismo. Le due leve che permettono questo robusto movimento sono il senso di colpa e il senso di inadeguatezza.
Il senso di colpa dei giovani psicologi poggia sull’implicito messaggio: ‘per quanto tu faccia, avrai fatto sempre meno di me’. Un messaggio che non può essere falsificato, se non altro per il dato inoppugnabile del tempo.
Il senso di inadeguatezza poggia invece sul messaggio: ‘per quanto tu impari, non arriverai mai a sapere, perché il vero sapere viene da maestri che tu non potrai conoscere. Quante volte sentiamo l’espressione “è stato allievo diretto di…”? Il qual maestro è stato a sua volta allievo diretto dei primi pensatori della nostra professione. Ma se del nonno si può ancora vantare la benefica influenza ricevuta, lo stesso non si può dire per il bisnonno.
La conseguenza del senso di inadeguatezza è la formazione continua scollegata da un reale aumento di produzione. Una formazione a cui spesso gli psicologi si sentono tenuti al di là del bene e del male. Un concetto di formazione che ha tutti i canoni dell’asimmetria dell’aula, e nessuno dei canoni della formazione dell’artigiano. L’artigiano impara lavorando e se ne va dalla bottega non appena avverte di saper produrre senza più bisogno di guardare come produce l’altro. Tutta la formazione continua successiva proviene dal rapporto con il mercato, e l’acquisto di prodotti formativi avviene in una logica decisionale che non poggia sull’inadeguatezza ma sulla produzione.
Università, Servizio Pubblico, Sindacato, Ordini, ENPAP, Scuole di Specializzazione, sono luoghi istituzionali dove il privilegio acquisito spesso affonda le radici in tempi lontani e ormai leggendari, nell’epoca della penuria di psicologi, dei concorsi che andavano deserti, degli imbucati con laurea in lettere. Parliamo di un tempo che sembra remoto, e invece si colloca fra gli anni ’80 e gli anni’90. Parliamo di una miriade di nicchie di piccoli o piccolissimi poteri, socialmente ininfluenti e del tutto improduttivi dal punto di vista del bilancio sociale e civile. Eppure, centri gravitazionali che anche oggi non mancano di sviluppare quella logica clientelare ed asimmetrica tipicamente italiana.
Ma c’è altro, nella nostra professione. In Italia, il modello di società clientelare e paramafiosa cattura e ingabbia le ultime generazioni di professionisti psicologi con la terza via, illusoria: la speranza. Asfissiati da una densità demografica assurda, da una concorrenza spietata e da una crisi economica stordente, stretti da bisogni primari, i giovani psicologi scivolano sempre più facilmente nella tentazione di adeguarsi a tale modello sociale. Molti colleghi anche promettenti, scelgono di accodarsi alla moltitudine che affolla il lungo sentiero del pentimento, dell’inadeguatezza e della colpa. Con la speranza che la lunga penitenza li porti ad essere parte di qualcosa, ad avere il proprio pacchetto di viveri e di protezione.
Ed ecco il proliferare di fedeli allievi più o meno affamati e pronti a tutto, a caccia di un patrono che non li tratterà mai come colleghi, al quale poter chiedere luce riflessa e bricioline. Privi di ogni speranza di poter incidere nel proprio destino, non riescono nemmeno più a concepire l’idea di essere portatori di una propria autonoma generatività, di poter creare dignitose posizioni professionali basate sulla costruzione di proprie reti professionali e di una propria personale utenza.
Invece di investire nella propria identità professionale e nella propria intraprendenza, creatività, iniziativa, si preferisce l’ingannevole scorciatoia del mettersi nella scia di qualche baronetto più o meno carismatico, più o meno rassicurante, più o meno influente. L’attesa, il più delle volte fiabesca, è di ottenere da lui un luminoso futuro nel ruolo di imbucato in una delle inutili istituzioni che presidia.
La tendenza a dare troppo credito ai rapporti affiliativi e familistici, basati su una confusione fra lavoro e bisogni affettivi, perpetua così all’infinito il mantenimento della posizione del figlio, che deve rispetto, riconoscenza, subordinazione. La ricaduta è quella di non consentire alcun ricambio fra generazioni.
Sul piano scientifico, il clientelismo si manifesta con la devozione alle idee altrui, opposta alla creativa ricerca di ipotesi nuove che portino alla falsificazione delle precedenti. Il modelli teorici si perpetuano nel contesto di una scienza noiosa, concepita come consenso, accordo, verifica di ipotesi esistenti, piuttosto che come fertile ricerca di nuove e diverse ipotesi.
Sul piano professionale, il clientelismo diviene tendenza a replicare piuttosto che a produrre qualcosa di nuovo. Si riutilizza il prodotto di altri per fabbricare sottoprodotti. Spesso, questi sottoprodotti sono così privi di un reale valore, da aver bisogno di una intensa materialità per giustificare la propria esistenza. Il fiorire di tecniche sempre più metodiche ed ossessive, di protocolli sempre più precisi e di ‘iniziative’ sempre più ‘utili’ e ‘concrete’ è il culmine dell’inadeguatezza nei confronti del patrono.
Un siffatto modello organizzativo è perdente. Prefigura una totale stagnazione e la mancanza di spirito fondativo e creativo. Si perde fiducia nelle proprie capacità, si smarrisce il senso dell’utilità sociale del proprio agire, e al posto della costruzione si preferisce l’adesione acritica e sterile ai poteri costituiti.
Complimenti, una disamina lucidissima. Sono descritte a pieno dinamiche universitarie da cui sono sfuggita con nausea e rammarico; lo spirito di una generazione della quale non riesco a sentirmi parte. Ma, a voler intraprendere questa via ci si ritrova un po’ soli, e un po’ grilli parlanti; creare nuove e virtuose reti che non risentino di queste tendenze così radicate è un’impresa complessa. Sicuramente non impossibile, conforta leggere queste parole e che ci sia ancora qualcuno a tentare di scuotere sonnolenti coscienze che sfilano, confondendosi,nel corteo delle “fiere delle vanità” e se non possono avere luce diretta per esistere si accontentano di quella riflessa. A volte penso che siamo figli senza padri, estensioni narcisistiche e nulla di più.
Cara Miriam, grazie per i complimenti. Questa via così difficile da intraprendere alla lunga paga, perché rende liberi nel proprio lavoro. Altrapsicologia è pronta a sostenere questa sfida.
Mi sembra davvero un’ottima analisi che condivido. In parte si tratta dell’antica questione del “crescere”, dell'”uccidere il padre”, ed è questione culturale in senso lato. Per altro verso si tratta di emergenza sociale, di emergenza rivoluzionaria per non affogare in un conformismo che, in questa fase socio-economico-politica, significa anche ineluttabile povertà. Povertà non solo etica e morale ma più banalmente materiale. Il tutto in un quadro di “vecchi” colpevoli e “giovani” pavidi. I “vecchi” ormai colpevoli lo sono, i danni sono stati fatti e, come ben sappimo, i “vecchi” sclerotizzano, non cambiano facilmente. Ma i giovani possono essere meno pavidi, possono osare…
Mamma mia! E’ tutto arci-noto, ma che impressione leggerlo così a chiare lettere!
Mi permetto di dissentire almeno in parte: se da un lato è sicuramente vero che esista una realtà come quella che viene descritta nell’articolo (che poi, purtroppo, è la malattia delle Istituzioni), trovo che si faccia di tutta l’erba un fascio. Parlo del panorama psicoanalitico, che è l’ambito all’interno del quale mi sto formando e quello che quindi conosco meglio. Sicuramente il clientelismo esiste, ma non trovo che sia un destino necessario: esiste il libero arbitrio. Inoltre la formazione permanente è, a mio modo di vedere, l’unica strada possibile per fare della buona clinica, in primo luogo perché lo studio della mente umana è quanto di più complesso esista; secondariamente perché in più di 100 anni di psicoanalisi, al contrario di quanto viene affermato nell’articolo, sono state portate avanti e sviluppate moltissime idee creative e innovative, con cui è necessario confrontarsi; da ultimo perché è importantissimo adattare la propria teoria e, di conseguenza, la propria prassi, ai cambiamenti continui e repentini della società odierna.
Ben venga dunque la formazione continua, che, se portata avanti con passione e serietà, e se viene affiancata dall’esperienza, traccia il confine per la nostra categoria, tra chi lavora seriamente e chi vende fumo.
Cara collega, niente fortunatamente è un “destino necessario” specie se si studia e si coltiva il pensiero critico e la capacità di lettura della realtà in mutamento, come ogni psicologo dovrebbe fare e come tu giustamente rilevi. Non c’era un intento a generalizzare, ma semplicemente a far emergere una dinamica istituzionale che va ben oltre la nostra professione, ma che la riguarda nella modalità peculiare qui descritta e di cui in genere non si parla molto, pur conoscendola tutti. La conoscenza rende più liberi in genere.
Cara collega,
non voleva essere un articolo contro la formazione permanente tout-court, ma contro quella formazione permanente agitata da insicurezza e colpa e non collegata alle necessità della produzione. Nel nostro caso, come giustamente fai notare, della clinica.
Ma la clinica è tutti i giorni, è il mestiere che forma di una formazione inevitabile. Altra cosa è la formazione inutile perché obbligatoria e scollegata dal mestiere, compiuta nella speranza vana di qualcosa. Una formazione a cui l’artigiano dell’esempio mai si sottoporrebbe.
Caro Federico,hai veramente ragione. Non ti stupire se mi inserisco in questa discussione, visto che ho quasi settant’anni. Ma ricordo benissimo quando, appena laureata con lode, convocata dal mio relatore che aveva apprezzato molto la mia tesi (fatta peraltro in totale autonomia), mi fece aspettare 3 ore nel corridoio. Poi mi propose di pubblicare degli articoli e lavorare con (per?)lui, ma io me ne andai per sempre: non mi andava di iniziare una carriera di lunghe anticamere, che altri hanno fatto. I baroni di vario tipo infatti sono una grave malattia cronica di questo paese da molti decenni. Oggi la difficoltà di costruire qualcosa per conto proprio è molto maggiore,anche se, non credere, nella mia vita ci sono stati 15 anni di precariato,in un periodo in cui l’inflazione era del 25 % annuo e i compensi erano pagati anche con 2 anni di ritardo, dimezzando così gli introiti. La tua idea di creare reti mi sembra ottima, la strada principale da battere, uno dei problemi dell’oggi è che le persone spesso hanno perso gli atteggiamenti che favoriscono l’aggregazione. Quindi poni una questione che mi sembra cruciale (le altre che sollevi però mi paiono altrettanto rilevanti). Questo lavoro di riflessione è importante, uno dei limiti gravi della categoria degli psicologi è sempre stato anche uno scarso sentimento di sé che l’ha resa molto debole, anche nella sua capacità di rappresentanza e quindi di costruzione attiva delle proprie prerogative. Invece il nostro è potenzialmente un mestiere meraviglioso. Lo è potenzialmente tanto più oggi per le ragioni dette in questi scambi: l’impetuoso mutamento del mondo sociale è una sfida interessantissima a innovare sia le nostre idee che le pratiche. Come affrontare per esempio la grande crescita di bisogni delle persone, disorientate nel cambiamento e nella crisi, in una fase di mezzi così scarsi? Sarebbe interessante per es. raccogliere esperienze che gruppi di psicologi stiano facendo per rispondere a questa complessità/difficoltà. Buona continuazione di questo lavoro, ti seguirò con interesse!Serenad.
Cara Serena,
sono felice della tua testimonianza, è il segno che abbiamo individuato un punto nevralgico e che certe cose non hanno epoca, ma sono radicate nella cultura del paese. Credo che una delle vie che indichi, la consapevolezza che la nostra è una professione diversa e peculiare da qualsiasi altra, contiene il germe della rinascita per gli psicologi.
La nostra professione può avere un ruolo essenziale nel dialogo libero con la società. Questa è la sfida che abbiamo cercato di interpretare con questo nuovo modo di essere Altrapsicologia: apertura alla società, a blogger esterni, che scrivono di temi assolutamente diversi dalla psicologia.
‘La tendenza a dare troppo credito ai rapporti affiliativi e familistici, basati su una confusione fra lavoro e bisogni affettivi, perpetua così all’infinito il mantenimento della posizione del figlio’ questa è l’affermazione che più mi ha colpito dell’intero post.
Concordo appieno. Non c’è solo una questione di potere, e di dipendenza di varia matrice, nello sviluppo dei nuovi professionisti.. c’è anche la mescolanza tra stima professionale e desiderio di risconoscimento, di attribuzione di valore. Il datore di lavoro un pò padre un pò imprenditore, il professore di riferimento che diventa un ‘nonn’ con tutte le conseguenze del caso. Sono solo esempi, ma quotidiani e veri. E rappresentano un problema.
Innanzitutto per l’autonomia e la creatività delle nuove leve: diverso è pensare di sbagliare (quindi assumersene il rischio) se la posta in gioco è la valutazione su quello specifico intervento, o se la posta in gioco è un rapporto affettivo che coinvolge l’intera rappresentazione di sè.
Io sono una consulente e credo che lo sforzo, da parte dei ‘giovani’, di tenere salda la differenza tra ‘Lo faccio al meglio perchè serve al progetto, perchè è il mio lavoro, perchè sono un/a professinista serio/a’ e ‘Lo faccio al meglio per te’ sia assolutamente necessario.
Questo punto che evidenzi è cardinale: la tendenza a misurare il proprio valore personale sull’identità come psicologi è una trappola che alimenta il sistema clientelare, perché alimenta una delle sue radici: il senso di inadeguatezza.
Che i vecchi siano colpevoli e i giovani siano pavidi è un dato, ma bisogna anche analizzare le dinamiche di questi meccanismi e ciò che li mantiene solidi e, a parer mio, la crisi in cui versiamo, li sta esasperando. Appartengo alla categoria giovani, sebbene non sia giovanissima (ho superato i 30 anni) e la mia formazione è recente. Dovrei testimoniare i vantaggi della riforma universitaria eppure la considero uno scempio per quel che riguarda il corso di laurea in Psicologia, per svariati motivi su cui non mi soffermo qui, per non uscire troppo dal tema. Su una cosa però voglio riflettere: il prezzo dell’essere impavidi qual è? Lo porto addosso e posso testimoniarlo con le mie esperienze di vita. Anche a me, come alla signora @Serenad, è capitato di essere apprezzata dal mio relatore per il lavoro di tesi portato avanti (in totale autonomia), ma sono stata anche ingannata, in maniera subdola. La tesi nacque come compilativa e divenne sperimentale sulla scia di un’idea che mi venne analizzando la letteratura. La mia proposta di ricerca fu accolta e incoraggiata con grande entusiasmo di modo che io lavorassi alla stesura dello strumento, all’impostazione della ricerca ecc., promettendomi quanto meno la pubblicazione di un articolo di ricerca, dal momento che, secondo il relatore, dall’argomento che avevo deciso di trattare, ne sarebbe potuto venir fuori, tranquillamente, anche un testo. Morale della favola, il relatore dopo aver ottenuto da me il lavoro impostato e lo strumento fece saltare la parte sperimentale e mi propose di passare i miei dati ai suoi dottorandi per l’analisi e la pubblicazione della ricerca (non inserita nella tesi per insufficienza di dati). Mi disse che, “eventualmente”, qualora i dati fossero andati bene, ci sarebbe stato anche il mio nome sull’articolo. Con fare assertivo, spiegai che avrei potuto fare l’analisi da sola, che non era necessario coinvolgere più persone, e che sarebbe bastata la sua supervisione sul mio lavoro “come sempre” (di fatto non mi ha mai corretto neppure una virgola). Ma subii nonostante tutto, svariate pressioni per consegnare i dati e fui costretta a cedere per non subire ulteriori ritorsioni in sede di laurea, perché reagì da subito iniziando a trattarmi con sufficienza. L’epilogo è ancora più meschino include le dinamiche descritte bene nell’articolo (senso di inadeguatezza ecc…).
Il mio caso è solo uno tra tanti, conosco altrettanti colleghi e/o tesisti che sono stati e sono tassativamente sfruttati da docenti che col minimo sforzo si prendono poi meriti che non hanno, umiliando e trattando per giunta con sufficienza chi non si prostra e si lascia sfruttare. Ma chi si ribella? E quanto costa farlo? Nulla si smuove se si è da soli e non ci si aggrega e i tranquilli e sistemati “vecchi”, data la crisi, si sentono sempre più potenti, i giovani invece sono sempre più disgregati e competitivi; per farsi adulare dai “vecchi” recitano un copione come marionette (si iscrivono alle loro scuole per chi ha la fortuna di avere genitori che finanziano), li adulano senza spirito critico, né tanto meno, in verità, vi è lo spazio per produrre qualcosa di più di un indottrinamento meramente nozionistico e conformante, per giunta con netta predominanza sulla formazione tecnica per l’esercizio di una professione in cui la formazione del sé (della cosiddetta “personalità terapeutica”) e il trattamento del proprio ineludibile disagio esistenziale, dovrebbe essere la chiave di volta per maturare una competenza professionale adeguata. Crescono a loro immagine e somiglianza, altri onnipotenti, incapaci di mettersi in discussione, che producono altri circoli viziosi.
Agganciandomi all’ultimo commento, è vero il “desiderio di riconoscimento” è sempre presente ma non è tanto questo, a mio parere, l’aspetto problematico, dal momento che un formatore deve pur sempre avere una funzione generativa (e se è un “padre autorevole”, capace di far realizzare i propri figli, senza renderli estensioni narcisistiche, questo desiderio innesca solo circoli virtuosi), quanto la mancanza di “identità personale e professionale”. E se un imprenditore e un professionista sa fare il padre, all’occorrenza – non compiacendo semplicemente – ma stimolando il desiderio di esplorazione e di conoscenza, della scoperta di sé e dell’altro, che ben venga! Forse l’intera società funzionerebbe meglio. Possiamo vivere fuori da relazioni nutrienti, noi esseri umani? E, non è forse un paradosso che noi che dovremmo essere “gli esperti della relazione” non riusciamo a trovare la chiave giusta per uscire dallo stato in cui versa lo stesso nostro settore disciplinare, a più livelli? Ho visto e vedo docenti (per giunta psicoterapeuti) che sono i primi ad avere personalità istrioniche, onnipotenti e disturbate, e talvolta mi chiedo: ma la nostra formazione è concepita quale mezzo di controllo, quale potente “strumento di difesa circostanziato”?
Questo è il mondo che io vedo. Possibilmente le mie lenti oggi sono appannate dall’amarezza e dalla consapevolezza che si fa strada con l’età adulta. Lo spazio per cambiare esiste, ma non in queste dinamiche che ostracizzano chi cerca di sfuggire da un sistema aberrante; esistono in quello spirito di aggregazione che l’esasperato individualismo postmoderno, la crisi e il terrore che incute, minano ulteriormente.
Cara Gradiva, per quel poco che può contare, ti sono vicino in queste spiacevolissime disavventure che ci racconti.
Grazie. Mi piace riflettere e analizzare la realtà e, a tal proposito, mi scuso per essermi presa troppo spazio. La rappresentazione della vita comprende ogni sorta di dinamiche e personaggi e ciò non mi stupisce. Mi rallegra constatare che ci siano anche persone come voi di altrapsicologia. Trovo anch’io i vostri contributi molto interessanti e vi faccio i miei auguri affinché possiate elicitare un po’ di sano cambiamento. Purtroppo, non sono ancora abilitata per sostenervi concretamente.
Cara Gradiva,
è una storia difficile che impressiona leggere. Non è una consolazione che accanto a te ci siano storie per molti versi analoghe. Aggiungi un ulteriore riflessione alle nostre: la mancanza di identità personale e professionale”. Certamente un fenomeno sempre più diffuso, ed anche molto più grave e difficile rispetto ad una semplice inadeguatezza.
Grazie per averci regalato la tua esperienza.
Caro Federico Zanon, grazie a voi per aver toccato con il vostro articolo un problema focale che ho tradotto in un’esperienza di vita. E’ vero, non è consolante venire a conoscenza di storie simili ma vi è un vantaggio: conoscere e imparare a fronteggiare certe situazioni, unendosi e agendo. Buon lavoro e grazie per i vostri spunti di riflessione. Ci si sente compresi nel tentare di sciogliere certi nodi e propensi a fare.
ho trovato questo articolo, come molti altri, concreti e che analizza una realtà che c’è, spesso il clientelismo rischia di rimanere uno dei tanti discorsi da bar di cui si parla ma tutto rimane così, invece qui viene preso come dato di realtà, analizzato e da qui si parte per muovere azioni in direzione di un primo cambiamento. Trovo che il lavoro che state portando avanti, da Altrapsicologia a Psicologialavoro, sia eccellente, mi chiedo dove vi siate formati per arrivare a queste azioni che avete messo in piedi o come vi siate trovati !!! State facendo un lavoro di analisi della realtà, di sensibilizzazione della categoria tutta, mai visto prima, trovo che ci state dando una bella svegliata. Nel mio difficile cammino per costruirmi la professione (ancora in corso) ho spesso sperimentato le sensazioni di cui si parla nell’articolo, ma grazie al vostro sostegno e modo di lavorare al passo con i tempi mi state dando mano a superare le resistenze. Ho sempre pensato che lo psicologo dovesse impegnarsi nella società, influire nelle sue dinamiche invece che concentrarsi solo sull’individuo e al max sulla famiglia, ma non avevo ben chiaro come saremmo potuti arrivare a questo, invece ora, attraverso la sensibilizzazione che state portando avanti, comincio a comprendere che è possibile e che è possibile far emergere il nostro potenziale inespresso per dare un contributo allo sviluppo della società. Vi esprimo la mia gratitudine oltre che sostenervi in pieno
Cara Denise, questi sono i più bei complimenti che ho mai ricevuto (in condominio con Federico Zanon). Ti ringrazio moltissimo e le tue (intelligenti) domande su come ci siamo trovati merita una risposta molto più articolata di quanto questo spazio consenta. E’ una lunga storia che spero di poterti raccontare al più presto.
cara Denise, ti ringraziamo moltissimo per le tue parole di gradimento. Sono una risposta straordinaria al lavoro che stiamo svolgendo da anni, sia come iniziative che come riflessione, sullo stato della nostra professione. Sapere che le nostre parole hanno un effetto così benefico ci riempie di gioia.
Chiedi dove ci siamo formati… ci siamo formati tutti in luoghi molto numerosi e diversi, ma credo soprattutto alla dura scuola della professione di ogni giorno. Nel libro “Aisha II, lo psicologo che non ti aspetti” (edito da qualche anno) puoi trovare la storia singolare delle difficili carriere professionali che molti di noi hanno affrontato. Mi pare si trovi ancora qualche copia su internet.
Un caro saluto. Federico Zanon
Cari tutti,
La riflessione che vorrei condividere con voi è questa: la realtà descritta nell’articolo è, ahimè, tristemente nota e, risuona in molti di noi, specialmente, ma non solo, tra i più giovani.
Il mio intento non vuole certamente negare tutto ciò, anche se mi sembra importante fare un passo oltre l’analisi di tali dinamiche, per non rimanere intrappolati in una recriminazione che rischia di divenire sterile e veicolare impotenza e vittimismo.
I baroni (più o meno disfunzionali, narcisisti e chi più ne ha più ne metta) esistono ed è difficile non cadere nelle logiche clientelari, se si pensa di non avere alternative. Per continuare con la metafora del rapporto padre-figlio, mi viene però da dire che ad un certo punto il figlio deve divenire adulto, a prescindere dal padre che ha avuto. Non ci si può aspettare che il padre lasci la propria casa al figlio, è il figlio che esce per andare ad esplorare il mondo.
Questo processo può essere più facile per il figlio se il padre fa la sua parte, ma comunque è responsabilità del figlio, divenuto adulto, prendere in mano il proprio destino.
Il tutto è reso maledettamente più difficile dalla crisi, dalla concorrenza e da tutti gli infiniti ostacoli della nostra professione, ma sta a noi fare questo passo, sta a noi cambiare le cose.
Abbiamo parlato di formazione permanente più o meno valida, benissimo! Tra le miriadi di proposte da cui veniamo subissati, ce ne sono alcune di grandissima qualità e altre di infimo livello. Parliamone, comunichiamo tra di noi, condividiamo le esperienze, facciamo delle recensioni, diamo dei feed-back specificando le motivazioni alla base dei nostri giudizi.
Stessa cosa per i tirocini: se tutti sono ugualmente deprimenti dal punto di vista della (non) retribuzione, è pur sempre vero che non tutti sono ugualmente significativi dal punto di vista dell’esperienza formativa che offrono. Che si dica, dunque!
Come hanno fatto i medici a farsi pagare la specializzazione? (A parte che non è la stessa cosa, poiché agli specializzandi medici è richiesto un monte ore equivalente ad un lavoro a tempo pieno, mentre per il tirocinio di specialità in psicoterapia sono richieste in media dalle 150 alle 200 ore all’anno (circa 4 a settimana), il che fa la differenza).
Che cosa succederebbe se nessun tirocinante andasse a lavorare nei servizi per una settimana o più?
Che cosa vogliamo dalla formazione? È meglio poter accedere più o meno liberamente agli studi universitari e alle specializzazioni e poi avere difficoltà nell’accesso al mondo del lavoro, oppure preferiremmo avere una dura selezione prima e poi un entrata lavorativa più dolce?
Non si tratta di questioni banali e le risposte non sono affatto scontate; ma noi, invece di interrogarci e chiederci concretamente che cosa vogliamo, lasciamo che queste decisione vengano prese in vece nostra, da persone che per tutta la loro vita, hanno fatto il nostro lavoro, in un mondo e in situazioni talmente diverse dalle nostre, da risultare incommensurabili.
Condividiamo. Il passaggio è esattamente questo: dal figlio che subisce e lamenta, al padre che decide per se e per la propria famiglia.
Non sono d’accordo con l’analisi: è vero, il fenomeno del clientelismo c’è, ma si tratta di una condizione sociale, non specifica della professione di psicologo. Qui no siamo nella dialettica padre-figlio, questa semmai è esistita in passato quando i primi figli (gli psicologi senza riconoscimento professionale) lottavano con i padri (i medici). Oggi il mondo della psicologia è riconosciuto, il problema è più complesso e riguarda in particolare la situazione dei “giovani psicologi” che rischiano di rimanere nel'”eterna giovinezza” per alcuni motivi strutturali: innanzitutto che i “padri da uccidere” sono già stati uccisi, oggi si è “figlioli prodighi” e si tratta di ritrovare il padre, non di farlo fuori. I padri ideali hanno perso da tempo il loro valore, (baroni universitari, grandi nomi ecc.). Il rischio è piuttosto quello di considerarsi narcisisticamente “figli unici” (senza fratelli-colleghi) ovvero “senza padri” (cioè buttando alle ortiche l’eredità di chi è stato prima di noi). Questo è il problema psicologico che si nasconde nel clientelismo, ossia il narcisismo di una psicologia eterna adolescenza.
Caro Davide,
grazie per la tua riflessione controinduttiva. Mi aiuta a far luce su un contenuto che forse non abbiamo bene espresso: per noi il problema è che molti giovani psicologi non si autorizzano mai ad essere padri. Passando al piano politico, molte nuove leve della politica nazionale non si autorizzano mai ad interpretare appieno il ruolo del ‘buon padre di famiglia’, che è colui che assume su di se l’onere e l’onore della decisione (padre) che investe la vita degli altri (famiglia), facendolo con spirito onesto e privo di interessi privati, quindi anche nella rinuncia ai facili guadagni (buono).
Caro Davide,
grazie per la tua riflessione controinduttiva. Mi aiuta a far luce su un contenuto che forse non abbiamo bene espresso: per noi il problema è che molti giovani psicologi non si autorizzano mai ad essere padri. Passando al piano politico, molte nuove leve della politica nazionale non si autorizzano mai ad interpretare appieno il ruolo del ‘buon padre di famiglia’, che è colui che assume su di se l’onere e l’onore della decisione (padre) che investe la vita degli altri (famiglia), facendolo con spirito onesto e privo di interessi privati, quindi anche nella rinuncia ai facili guadagni (buono).
Sì caro Federico, è proprio così. Per riprendere l’immagine, padri e madri devono essere innanzitutto giovani se vogliono generare qualcosa di forte e di sano che possa crescere con vigore. La proliferazione di psicologi in Italia dipende certamente anche dall’incoscienza di chi ci ha preceduto, per cui oggi ci sono “tante bocche da sfamare”. Un buon padre di famiglia (leggi: l’università italiana, l’ordine ecc.) forse avrebbe messo al mondo meno figli, ma è vero anche che per sopravvivere in un ambiente difficile di solito si prolifera, sperando che qualcuno riesca davvero a sopravvivere. Fuor di metafora: in Italia viviamo in un ambiente che è stato tradizionalmente un po’ ostile alla psicologia,per motivi culturali e sociali ben noti, e forse per questo il numero di psicologi è continuato a crescere. Ma non bisogna lasciare che questa crescita rimanga sterile, altrimenti tutto finisce dopo nel giro di una generazione. Quindi, coraggio.
Cari tutti, mi fa piacere constatare che lo spirito di riflessione aleggi. Ho riportato la mia esperienza per evidenziare quanto sia davvero radicata una forma mentis che non permette di coltivare l’entusiasmo della ricerca in chi nasce con questo tipo di tensione e non ha determinati “requisiti” di carattere clientelare. Nella mia esperienza ho visto docenti annoiati che fanno ricerca più per dovere che per passione e con poco merito e creatività. Penso che la gente arrivata senza sforzo, che eredita semplicemente dai padri, si adagi facilmente e non abbia dentro quella passione, e a volte neppure le capacità necessarie per fare certe professioni. Questa gente si ritrova poi a sfruttare chi ha quelle caratteristiche o semplicemente quel tipo di passione per colmare le proprie lacune perchè, consciamente o no, la frustrazione di non essere all’altezza di un ruolo, si fa strada prima o poi. Chiaramente ci sono anche persone valide e appassionate che magari hanno anche avuto un padre facoltoso che li ha fatti inserire senza problemi, ma perlomeno sono competenti. Così come ci sono persone che con grandi sacrifici ce l’hanno fatta. In Italia checché se ne dica è ipocrita negare che la società funzioni su base clientelare; probabilmente per me che vivo al sud è ancora più facile riscontrarlo. Ho conosciuto anche autori brillanti che hanno fatto la loro carriera (fuori dall’Università, dopo averci provato!) e che con molta franchezza mi hanno confermato determinate dinamiche. Sono stata anche sconsigliata dal portare avanti in ambito universitario un lavoro che qualcuno in maniera disonesta avrebbe potuto fregarmi. Ed è quello che è avvenuto alla fine.
La mia frustrazione è ancora recente ma ciò non mi porta a gettare la spugna o a ripiegare nel vittimismo. Ho esplorato quella che poteva essere un’opportunità desiderata, ma adesso punto e a capo. Credo che si debba fare ancora molto, paradossalmente, in potenza, il lavoro nel nostro campo non è neppure iniziato, per certi aspetti. In fin dei conti la nostra è forse ancora una disciplina giovane e, come avete riportato nelle vostre riflessioni, motivi sociali e culturali le hanno impedito di decollare, non senza la responsabilità di chi fa parte della categoria. Bisogna sicuramente sensibilizzare alla richiesta di aiuto, vissuta spesso come un tabù e a tutti i vantaggi derivanti dal nostro operato sul territorio ecc.
In quanto alla questione dei padri, chiaramente non hanno tutta la responsabilità, anche il figlio deve maturare la sua funzione generativa e diventare a sua volta padre ma non vedo la necessità di ucciderli, neppure io, quanto di un rapporto più armonioso ed equilibrato che non si esaurisca nella vittoria dell’uno contro l’altro. Le origini non si negano e ci arricchiscono; per quanto il passaggio generazionale sia arduo è possibile con un vantaggio reciproco e nessun stallo sociale, come quello che vive oggi il nostro governo. A tale proposito mi ha colpito un’affermazione che voglio condividere con voi: «Non ho un maestro. Posso considerare vari maestri, che però essendo al plurale hanno il vantaggio di non essere nessuno “il” maestro. Per cui non ho avuto bisogno di “uccidere” nessun maestro per diventare a mia volta maestra» (P. Adami-Rook). Queste parole rappresentano il mio sentire e il modo in cui mi piace affrontare la vita e credo sia l’atteggiamento giusto da adottare. Si impara sempre, anche un padre impara da un figlio come uomo e come padre, e ancora come figlio. Ed è per questo che credo che bisogni stimolare il pensiero critico (non il mero indottrinamento nozionistico) e sviscerare i talenti di ogni essere umano per realizzarci e ancora arricchirci nello scambio.
In quanto alle questioni della selezione pre, di criteri più restrittivi e di standard qualitativi più elevati sono ampiamente d’accordo. Ci sarebbero tante cose da sistemare in questo settore che pullula di ambiguità e contraddizioni dall’interno fino all’esterno. La formazione stessa andrebbe rivista sotto certi aspetti, altrimenti ci ritroveremo incapaci di rispondere alla domanda sociale sia in termini lavorativi che politici e culturali. Ma ogni singolo punto che potremmo prendere in analisi meriterebbe sicuramente un’ampia trattazione, difficile da fare in questa sede. E’ bello che la rete ci offra un modo per dialogare insieme sul da farsi e iniziare a riflettere. Spero di potermi abilitare presto e poter dare un contributo più attivo.
Mi congedo con un augurio per tutti noi, che i tempi a venire ci consentano di mettere a frutto le nostre energie e che la vocazione per questo mestiere meraviglioso e complesso ci permetta di creare circoli virtuosi.