Il potere di certificare l’umano. Principi di natura e psicologi

Siamo reduci, noi psicologi, da un periodo di aspri dibattiti che hanno tenuto banco e che tuttora aleggiano nelle nostre discussioni, per nulla sopiti e per nulla ricomposti. Mi riferisco in particolare da un lato alla vexata quaestio con i medici sulla psicodiagnosi, intorno alla PdL sulla psicoterapia e dall’altro all’affaire “terapia riparativa” per gli omosessuali.

Per un motivo o per l’altro, noi di AltraPsicologia ci siamo trovati in prima fila e coinvolti su entrambi i fronti (non a caso), e dunque, mi è sembrato opportuno provare a tirare le fila dei “temi gruppali” di fondo ed accomunanti l’attuale clima culturale.

Lungi da me voler argomentare sui massimi sistemi, piuttosto qui, mi sembra, siano in gioco questioni basilari che definiscono spartiacque sostanziali tra l’essere o non essere psicologi. E magari essere altro e non saperlo… O, se vogliamo, essere meno, molto meno, che psicologi.

La mia idea è che, alla base di entrambe le questioni all’ordine del giorno – psicodiagnosi e riparazione dell’omosessualità (ma tante altre questioni sono in ballo nella società) – troviamo l’implicito, quasi mai esplicitato ed esplicitabile, del “principio di natura” (l’invarianza antropologica) con il quale delineiamo l’uomo e le sue attribuzioni, le sue dotazioni, e come queste stesse attribuzioni e dotazioni noi le determiniamo e le originiamo.

Non è questione da poco poter “certificare” circa la normalità o meno degli individui, circa la loro emendabilità, riparabilità, diagnosticabilità/prognosticabilità. Come si può facilmente immaginare, qui non è in gioco semplicemente (o non solo) il primato culturale di certe visioni del mondo su altre, ma stiamo parlando di flussi economici consistenti che possono essere direzionati da una parte o dall’altra a seconda di chi e di come li indirizza. Chi è nella posizione sociale di farlo, gestisce un potere enorme, non solo sulle coscienze, ma nella vita concreta di tutti noi. Mi riferisco ad esempio al potere di certificare una patologia ed una cura rimborsabile da un istituto assicurativo e dal sistema sanitario nazionale, una giustificazione per un’assenza da lavoro, una condizione di disturbo da dover curare farmacologicamente, una condizione di inappropriatezza da dover correggere con un intervento specialistico, ed infine il potere di orientare un bacino di utenza socialmente riconoscibile a richiedere certi interventi anziché altri, etc.

Gli ultimi decenni della nostra era hanno ampiamente dimostrato come i complessi sistemi di consenso sociale siano diventati campo di applicazione di procedimenti socio-economici di elevata raffinatezza ed efficacia e come anche la ricerca scientifica sia diventata in larga parte asservita alla logica del consenso di popolo e del mercato. Basta vedere, come esempio, a ciò che è accaduto nella seconda metà del secolo scorso tra le corporations del tabacco e i servizi sanitari dei grandi paesi occidentali: decine di anni di coperture e dubbi scientifici artatamente instillati circa l’effettiva dannosità del fumo. La ricerca sapeva da decine di anni ciò che il consenso popolare (fondato sulla dipendenza) e gli interessi economici trasversali impedivano di divulgare e rendere programma di salute pubblica, fino alla negazione della realtà. Ebbene, oggi sappiamo come questi fenomeni manipolativi si siano diffusi e raffinati nel tempo e come siano in dialettica con la nostra “normale” esistenza di uomini contemporanei.

Ma mentre nel caso di tabacco, nicotina e catrame, si parla di una “certezza” che viene occultata dai meccanismi economici e di consenso, nei casi qui citati della psicodiagnosi e della emendabilità dell’omosessualità ci troviamo di fronte al caso opposto e contrario, quello di “incertezze” scientifiche (o semplicemente delle falsità) che appaiono intollerabili dagli stessi meccanismi prima citati in quanto cozzano con interessi e poteri che vanno in una certa direzione di marcia.

Lo psicologo, quando è tale, è qualcuno che ama l’indagine e la verità (con la “v” minuscola e socratica della conoscenza) e non si ferma alle apparenze, e per questo passa come quello che cerca il classico pelo nell’uovo. Personaggio scomodo ed inattuale, lo psicologo, che non avalla che il criminale è cattivo, il tossico deviante, l’omosessuale pervertito, innaturale o infelice, lo psicotico folle, la famiglia patogena, la mamma cattiva, il papà abbandonico, i giovani bamboccioni, il bambino iperattivo. Tutte rappresentazioni sociali rassicuranti, seppure nel loro essere apparentemente inquietanti. Ma ciò che del manicheismo inquieta, allo stesso tempo acquieta e obnubila, come sanno bene gli psicologi (appunto!).

No, lo psicologo, quando è tale, non è affatto un personaggio rassicurante per nessuno, nemmeno per se stesso, egli per essere tale deve vedere tutte le facce ed i risvolti dei fenomeni e non compiacere nessuno. E questo nonostante egli viva in una realtà sociale nella quale è chiamato continuamente a “certificare” luoghi comuni.

Ma cosa distingue uno psicologo da altre figure sociali che come lui sono chiamati a fornire pareri ed intervenire nelle mille pieghe dei disagi sociali e personali?

Ad esempio:

  1. Un medico può sempre appellarsi alla presunzione bio-genetica che gli fonda un principio di natura che gli fa affermare il tautologico: <<tutto è a base organica>>
  2. Il DSM psichiatrico fonda un ambiguo pseudo-principio di natura sul criterio statistico
  3. Un prete fonda il proprio principio di natura su presupposti teologici
  4. Un economista o un imprenditore si richiama ad un neo-principio di natura chiamato consumo, sviluppo e progresso

Lo psicologo, quando è tale, ha invece sempre le scarpe infangate dai percorsi impervi ed incerti che batte: non da’ alcuna certezza su nessun principio di natura. Egli piuttosto ama l’indagine, abbiamo detto, lascia in sospeso, non fornisce risposte preconfezionate, non cade in semplificazioni tautologiche ed è addestrato ad avere una visione più sistemica dei fenomeni umani, è formato a domandarsi sempre quali criteri (concettuali ed operativi) utilizza e quali siano i suoi limiti, combatte ogni forma ideologica di pensiero, è sempre in posizione di apertura e di ascolto.

Come si può intuire, nessuno dei principi di natura prima citati ha a che vedere col pensiero scientifico e la conoscenza, in quanto nessuno di essi può ritenersi fondativo di un bel niente se non della propria autoreferenzialità culturale. Eppure è proprio a partire da queste idee fondative ed infondate che si determinano le politiche sociali, sanitarie, etc. e l’uso manipolatorio di tutte queste 4 carte assieme (talora sapientemente confuse e sovrapposte) sposta consenso e decisivi focus politico-sociali.

La scienza moderna ha il dovere di non scolpire nel bronzo alcunché circa la natura umana, bensì di usare una leggerissima punta di matita.

Sarebbe opportuno partire dalla lettura del testo “Della natura umana. Invariante biologico e potere politico”[1], che ci da un’idea di dove ci troviamo circa il dibattito sulle invarianti della nostra specie che possano fondare un discorso politico.

Si vedrà, leggendo questo libro, come sia delicato e pericoloso allo stesso tempo sbilanciarsi in assolutismi antropologici, e come sia necessario ponderare con la massima cautela ogni affermazione, in eterno bilico tra natura e cultura, tra naturalismo e storia, proponendo al massimo degli indicatori epistemologici piuttosto che sbrigativi colpi di spugna.

E tuttavia accade solitamente esattamente il contrario: la scienza (e la medicina è in prima linea proprio in quanto area epistemologicamente spuria e al contempo posizionata sul confine di vita e morte) è diventata impropriamente l’area del sapere socialmente delegata a definire la natura umana e le sue “linee-guida” e lo fa spesso in conflitto con il pensiero religioso; talora invece ci va a braccetto.

Le linee di saldatura o di frattura tra istituzioni scientifiche, politiche e religiose (tra bios e teo e polis) non sono però definite dai movimenti ideologici e culturali, piuttosto essi si modellano su emergenze/esigenze economico-politiche.

Ecco allora che denominarsi come psicologi credenti piuttosto che come psicologi che amano la cioccolata può diventare lungimirante operazione di marketing, invece che autentica professione di fede. Avviene dunque una sottile, ma profondissima, metacomunicazione di “branding” in cui si dice al potenziale cliente: <<ehi, in questo club la pensiamo così, qui trovi ascolto, la nostra visione del mondo è orientata dall’amore della cioccolata!>>.

Capite dunque come l’amore per la cioccolata nulla c’entri con il lavoro dello psicologo (se non come ambiguo e vaghissimo sfondo valoriale) e tuttavia diventi abile operazione di orientamento e selezione della clientela.

Prendiamo il caso della saldatura avvenuta tra principi statistici (DSM) e principi bio-genetici tale da estendere la semantica, tutta medica, dell’oggettivazione della malattia ai disturbi all’asse II dello stesso manuale diagnostico. A ben poco servono le specificazioni e i distinguo (l’asse II è sindromico e non sintomatico), ciò che passa a livello di rappresentazione sociale, ma anche nelle menti degli operatori del settore, è l’idea semplicistica che la personalità si ammala, esattamente come un organo del corpo e che se vai da un medico qualche tara ce l’hai di sicuro.

O prendiamo l’estensione del concetto di “riparazione” utilizzato in area psicoanalitica (posto che esso abbia mai avuto una qualche dignità scientifica) applicato all’orientamento sessuale: chi è in grado poi di fare il percorso a ritroso per ricostruire cornice, senso e significato di ciò che vuol dire “riparare” in psicoanalisi e come questo si è poi saldato e argomentato poi con l’orientamento omosessuale? Non molti, credo.

E quando tutto ciò avviene per psicologi e psichiatri che si dichiarano esplicitamente credenti e praticanti, quale significato assume tutto l’insieme se non quello di porre da un lato un apparentamento ambiguo tra domini del tutto differenti (scienza e fede), nonché il porre un’origine conoscitiva/ispirativa della pratica professionale al di fuori delle procedure scientifiche riconoscibili (nella teologia ad esempio, o nell’esoterismo) e comunque distanti dallo specifico di cui ci si occupa.

La sensazione del gioco delle 4 carte sui principi di natura applicati all’economia e alla politica, a cui facevo riferimento prima, è piuttosto forte.

  1. Prendi un tema caldo ed emotivamente rilevante (disagio, vita, malattia, felicità)
  2. accostagli ogni genere di incertezza epistemologica per negare e annacquare di fatto l’esistenza di ogni discorso epistemologico possibile,
  3. dichiara una posizione identitariamente forte e riconoscibile (viva la salute e la responsabilità medica, viva la famiglia, viva l’anarchia, viva l’ordine, viva l’amore di Dio) ovviamente fondata su altrettanto riconoscibili e supposte invarianti (l’esattezza della scienza o della tal procedura, la presenza di Dio nella nostra vita, la selezione naturale del progresso e del successo)
  4. rivitalizza improvvisamente il tuo morente e forse anche menagramo relativismo culturale
  5. datti un nome evocativo che funzioni anche come brand…

… e finalmente la tua credibilità sociale aumenterà ed al contempo il tuo potere di certificazione.

Nel recente caso della diagnosi per la psicoterapia abbiamo assistito ad un simile pastrocchio, ed anche in questo caso la conoscenza è stata ferita a morte da argomenti di roboante e confusionaria inconsistenza primo tra tutti quello della prevalenza di una tipologia diagnostica (quella svolta da un medico piuttosto che da uno psicologo) basata sull’appartenenza corporativa ed il ruolo nel servizio sanitario piuttosto che sulla competenza, sull’efficacia e la reale utilità.

Figuriamoci se un legislatore, un parlamentare della Repubblica, si preoccupa di andare a verificare l’esattezza scientifica di ciò che sottoscrive o che avalla… In genere si fida del tecnico di turno (in questo caso medico) che gli certifica (appunto) una presunta correttezza procedurale.

In realtà abbiamo assistito in questo caso al meraviglioso cortocircuito tra lobbismo controriformatore e protezionista della casta medica, demagogismo populista, rigurgiti manicomialisti, cultura medicalistica ed il suo linguaggio (infermità, malattia, etc.). Tutto ciò per un servizio, quale la psicoterapia, al quale accedono solitamente fasce di popolazione ampissime e dalle più svariate problematiche, che si sarebbero trovate d’emblée a subire diagnosi psichiatriche (del DSM-IV) esclusive ed obbligatorie, con i suoi principi di natura statistici e bio-genetici sottesi.

Un vero incubo orwelliano imbandito sottosilenzio e fatto passare come democrazia sanitaria!

Ecco allora tornare il gioco della 4 carte: il principio di natura rimane sullo sfondo (diremmo che rimane inconscio) a dare forma alle politiche più retrive e oscurantiste, saldandosi con interessi, cordate, alleanze delle più diverse e contingenti.

Ed allora, affermare “in positivo”, cioè in senso affermativo, circa la natura umana, a dispetto di ogni necessaria incertezza antropologica, scientifica e filosofica, è diventato allora lo sport preferito del bio-potere o del teo-potere. Per usare una metafora informatica, definire in un senso o nell’altro la natura umana e i suoi principi di natura è come lavorare sul “sistema operativo” che faccia poi girare i software adeguati agli interessi di turno. E come vediamo, non è tanto il prefisso bio o teo che conta, quanto piuttosto il suffisso “potere” e la sua mera gestione.

Tracciare, ad esempio, demarcazioni nette tra normalità e patologia, tra naturale e innaturale, è un modo classico di ridefinire la natura umana.

Come accaduto nel dibattito sulla diagnosi della legge sulla psicoterapia, lo psicologo non sembra avere potere affermativo, ma solo il potere di veto, cioè di mettersi sacrosantamente di traverso e dire: “no, questo[2] è riduttivo”.

Si, va bene, ma cosa non è riduttivo?

Non si creda, ingenuamente, che gli psicologi si possano sentire esonerati dall’occuparsi di biopolitica[3] e possano illudersi di mantenere la comoda posizione di veto all’infinito senza mai mettere le mani in pasta.

Occorre prendere posizione e parola, ed anche chiaramente!

Ha qualcosa da dire la psicologia in questi dibattiti? E come può arricchirli, ampliarli, sottrarli al semplicismo e alle furberie.

Può cioè la psicologia, sulla base dei propri presupposti scientifici e culturali, assumere una posizione non riduttiva, non opportunista, e allo stesso tempo autorevole nel ridefinire e riproblematizzare i confini angusti che corporations, assicuratori, sanitari, religiosi ed altri ancora, vogliono tracciare circa la natura umana ed i suoi principi di natura o presunte invarianti antropologiche?

Noi crediamo di si.


[1] Della Natura Umana. Invariante biologico e potere politico (DeriveApprodi, 2005) dove e riportata la sbobinatura del confronto televisivo tra Noam Chomsky e Michel Foucault tenutosi ad Eindhoven nel 1971, e dei testi in appendice di Paolo Virno, Stefano Catucci , Diego Marconi.

[2] Avere un servizio di psicoterapia dello Stato che, per conto dei suoi funzionari del SSN, decide perché, come e quanto il cittadino debba vedersi erogare il servizio dello psicoterapeuta, avendo l’obbligo di una diagnosi di esclusiva competenza psichiatrica.

[3] Psicologia e Biopolitica, Luigi D’Elia, pubblicato su AP-Magazine 2007, traccia alcune linee di riflessione sugli impliciti rappresentazionali riguardo gli attuali “tipi umani”.