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Ci troviamo, come psicologi, su un piano inclinato rispetto all’attività detta “psicoterapia” qui in Italia.

La casta medica è oramai prossima all’annessione, senza ritorno, della gestione istituzionale della psicoterapia, futura quarantaquattresima specialità della Facoltà di Medicina a Chirurgia.

La legge italiana prevede l’accesso alla specialità in psicoterapia da parte di medici e psicologi e gli specializzati in psichiatria lo sono per diritto. In futuro non cambierà niente; il tutto sarà gestito, buon per loro, dall’Accademia Medica che almeno però s’assumerà insieme ai meriti anche le responsabilità. Gli Psicologi che non diverranno psico-terapeuti si occuperanno allora anche di questo aspetto.

In quanto campo di saperi al confine, la psicoterapia, è in realtà territorio di sovrapposizione tra differenti approcci: quello psicologico, in primis, quello medico-tecno-cognitivo, quello antropologico e filosofico, e finanche quello socio-politico.

Ogni psicoterapeuta a tutto tondo maneggia significative porzioni di saperi di confine e sa districarsi in questa selva, e non potrebbe essere diversamente (questo però è lasciato al buon senso di ciascun professionista, indipendentemente dalle sue origini formative).

Ognuno però, prima o poi, rivendica un suo peculiare ambito d’intervento, ma soprattutto una sua identità professionale di origine: lo psichiatra-psicoterapeuta, quando non è già schiacciato sulla stessa logica che anima il DSM IV o su approcci estremamente tecnologici o biologistici, rimane comunque medico a tutti gli effetti, anche se alcuni di loro hanno positivamente ri-confuso, nei successivi percorsi formativi, la loro matrice medica. Egli non ha la formazione psicologica di base, ma la potrebbe acquisire strada facendo, a sua discrezione.

Lo psicologo-psicoterapeuta è spesso anch’egli figlio di approcci medici, tecnici, strategici, ed in quanto tale ricalca (scimmiotta) le orme dei suoi cugini ricchi, solo con molto minore autorevolezza e competenza, altre volte è figlio di approcci psicodinamici più orientati psicologicamente, e più contaminati dalle scienze umane, ed in questo caso il distacco da paradigmi, stili e metodi medici è piuttosto abissale.

Entrambi i percorsi convergono sul concetto di “cura”, “benessere”, “salute”, ma è evidente a tutti che si sta pensando a due categorie concettuali alquanto distanti, a due visioni dell’uomo divenute lontane (e ben vengano i medici che sposano il secondo approccio!).

Ah già…, c’è poi la questione della cosiddetta validazione scientifica della psicoterapia, su cui mi sono già espresso. L’approccio tecno-medico alla psicoterapia mutua gli stessi criteri socio-culturali della medicina e li applica, senza troppe variazioni, al soggetto curato con la psicoterapia, l’evidence based medicine tratta l’attacco di panico grosso modo come un virus influenzale; l’approccio psicologico-umanistico punta più sulla ricerca qualitativa, sullo studio meticoloso dei singoli casi, sul materiale clinico relazionalmente e fenomenologicamente rilevante. Non c’è ancora, che noi si sappia, una sintesi attendibile e riconosciuta tra metodi quantitativi e qualitativi.

Ma su questo terreno sdrucciolevole, ci troviamo in realtà, anche qui, su due visoni alternative riguardanti le scienze dell’uomo, l’una neopositivista, l’altra più costruttivista, ognuna delle quali rivendica il proprio potere (spesso economico e politico, essendoci di mezzo cattedre, assicurazioni, accreditamenti, clientele), prima ancora del proprio poter-fare.

Ci si domanda a questo punto: ma di cosa stiamo parlando? Perché continuare ad usare la stessa parola – “psicoterapia” – per definire pratiche così differenziate ed approcci così tradizionalmente diversi? Possiamo provare ad usare tutti i prefissi o appellativi distintivi che vogliamo, ma la confusione rimane. Bisognerebbe forse a questo punto rompere gli ultimi indugi e trovare due nomi diversi per due forme di psico-terapia (per alcuni, una sorta di ossimoro concettuale) che partono da assunti differenti. In tal caso, potrei condividere con molti miei colleghi (psicologi e medici) l’idea di distinguere istituzionalmente e come percorsi formativi la “psicoterapia di orientamento tecno-medico” dalla psicoterapia che si occupa prevalentemente della condizione umana e della sua cura secondo metodi psicologici, antropologici, umanistici. Due tradizioni e due percorsi formativi, che possono incontrarsi su mille punti, ma che a nostro parere possono rimanere istituzionalmente differenziati.

Inutile, infatti, condividere gli stessi spazi di sovrapposizione (che ovviamente continuano ad esistere nonostante queste diatribe) se da una parte (medici) troviamo un corporativismo ancestrale e dall’altra parte (psicologi) troviamo ignoranza, elusione e collusione. Meglio una sincera separazione piuttosto che una falsa convivenza.

Ma, ci rimane il dubbio: agli psicologi sta bene ogni cosa venga stabilito dagli amici medici oppure no?

Nel nostro caso, sicuramente no! E non ci sentiamo, ancora una volta, degnamente rappresentati dai nostri vertici politico-professionali; se solo pensiamo ai 15-20 anni e passa di studi, lavoro su di sé, supervisioni, scuole, etc… per finire svenduti dai nostri stessi colleghi e, semplicemente “organizzati”, dai medici…, se ce lo dicevano prima, c’iscrivevamo direttamente a Medicina e non se ne parlava più! Ci saremmo tappato il naso fin dall’inizio e, non intendendo occuparci del futile determinismo corporeo seguendo Galeno, avremmo fatto certo meglio di qualcuno di quegli psichiatri che hanno scelto di avvelenare il corpo per far tacere la Psiche. Farmacon, nella lingua di Galeno (e di Ippocrate), significa veleno.

Ma qual è il problema che impedisce agli psicologi di esprimere la loro versione dei fatti? Gli psicologi non hanno le idee chiare? Non vogliono fare troppo rumore e vogliono passare inosservati? Sono troppo collusi con gli andazzi generali? Sembrano loro, questi, problemi secondari o accessori?

Può qualcuno darci una risposta attendibile?

L’ultima occasione per discutere di psicoterapia è stata documentata dal report di Maurizio Mottola, della Commissione per la Psicoterapia, il testo è basato sull’ampia e competente lezione magistrale tenuta nella circostanza da Leonardo Ancona – presidente della medesima Commissione – ed è per me un’ottima occasione di riflessione su cosa e come si sta muovendo questa complessa questione. Devo dire che il riferimento di Ancona ad Ippocrate e Galeno, come metafore dei differenti approcci in psicoterapia, è stato per me illuminante. Ne estraggo i passaggi-chiave:

La psicoterapia si può esercitare secondo il modello psico-fisiologico, o cognitivista, dove la psiche è un “medium” suscettibile ai messaggi, agli interventi, agli influenzamenti esterni o alla ristrutturazione del pensiero: una prospettiva che può dirsi galenica.
L’aspetto galenico è quello della tecnica, in cui vi è una causa che produce delle conseguenze, che possono essere individuate , trovando quindi lo strumento atto a gestirle ed a curarle.
La tecnica è strettamente legata ad una logica, che è logica aristotelica, per la quale data una causa vi è un effetto. […] L’attuale medicina è prevalentemente impostata secondo questo tipo ed è basata sulla ricerca sperimentale.

D’altra parte la psicoterapia può essere svolta secondo il modello psicologico-clinico, dove la psiche è concepita come un “sistema”, con il quale si può entrare in inter-azione: una prospettiva che può dirsi ippocratica.
L’aspetto ippocratico è quello sostenente il principio che l’organismo umano, l’uomo è sano in se stesso e che ogni malattia esprime una processualità, cioè una concatenazione di avvenimenti esterni che prendono il corpo e la psiche e ciò implica una commistione di fattori.
Sia quelli della biologia (gli “umori” di Ippocrate), sia quelli della famiglia, del gruppo, della società, della fantasia.
Tutte queste variabili concorrono alla costituzione del processo morboso che coinvolge il soggetto. […] Questi due modelli diversi della psicoterapia coesistono e nella formazione è importante tenerne conto, in quanto il medico e lo psicologo hanno da integrare e contemperare questi due aspetti e cioè quello di una evidenziazione delle probabili cause del malessere e quello di stare vicino al soggetto che soffre, di cum-patire (compassione) ed attraverso questa compartecipazione di sofferenza sostenere il processo di guarigione.

Se posso essere d’accordo sull’analisi di Maurizio Mottola, dubito della legittimità delle sue conclusioni: i due approcci non sono istituzionalmente e culturalmente così compatibili così come egli farebbe pensare. Trattasi, come cerco di esprimere qui, di due cose diverse, non certo perché nell’esperienza clinica il bio-psichico-sociale non sia una realtà di fatto sempre immanente e non-scomponibile, ma per il semplice motivo che lo strapotere dell’approccio qui definito come galenico è oggi la preoccupante e pervasiva realtà istituzionale e culturale, la cifra di ogni discorso sulla terapeuticità, la premessa di ogni validabilità sociale. Fin tanto che l’approccio qui definito ippocratico non sia rappresentato a pari dignità del primo, dagli psicologi, è operazione di falsa democraticità supporre una convivenza pacifica tra i due approcci (magari accusando di faziosità gli psicologi che non ci stanno ad essere galenicamente ingoiati).

Perché allora far credere che i due approcci possano andare a braccetto sotto un unico ombrello quando l’uno sta fagocitando l’altro? Forse c’è qualche problema di digestione…?

Qualcuno, o meglio, ognuno di noi, si sforzi a questo punto di trovare un rimedio a questa deriva culturale, di sapore (tarallucci) tutto italiano, provando magari a discutere seriamente su soluzioni “istituzionali” che non mortifichino nessuno e soprattutto non mortifichino la nostra utenza alla ricerca, primariamente, di senso riguardo i propri affanni.