La mission sociale della psicoterapia – Parte I

Introduzione

Scopo di questo contributo è immaginare una psicoterapia che, per assolvere in pieno alle proprie prerogative, si assuma una responsabilità etico-politica riguardo i legami sociali.

Certo, è difficile introdurre il tema della funzione e della posizione sociale della psicoterapia senza le necessarie premesse concettuali, soprattutto se si pensa che la psicoterapia si è da sempre collocata in un ambito scientifico-operativo contiguo alle scienze mediche (“terapia”), in un’area di azione inerente all’interesse individuale, nello spazio di esplorazione del “benessere” soggettivo, come metodo di indagine dell’intrapsichico e delle strategie personali.

Esistono molte forme di psicoterapia (in verità la maggioranza di esse) che si avventurano nel “relazionale”, nell’”interpersonale”, così come nel “gruppale” ed “istituzionale”, ma i loro dispositivi sembrano comunque inerzialmente ricadere in uno psicologismo di fondo e conseguentemente nella sfera gravitazionale dell’in-dividuo e della sua inalienabile responsabilità. Del resto, la nascita e lo sviluppo della psicoterapia sembrano, storicamente, corrispondere all’ascesa dell’individuo sulla scena sociale (specie nell’ultimo secolo): discipline, metodi e preoccupazioni sono tutti rivolti alla cura di tale nuovo soggetto sociale.

Non esiste infatti una “psicoterapia sociale” (laddove esistono la psicologia, la medicina, la psichiatria, sociale), definizione di per sé chimerica, ma ancor più insostenibile se si pensa al pericolo dell’estensione dei comuni paradigmi psicoterapeutici ai domini sociali (incomprimibili alle leggi dell’individuale e del relazionale), e l’insana idea di mettere la società sul lettino dell’analista o dello psicoterapeuta corrisponderebbe ad una buia e apocalittica visione orwelliana dell’ordine sociale, per la quale si tratterebbe il corpo sociale come un malato da sottoporre a cure psichiche e per la quale si opererebbe la pratica della psicoterapia come forma di controllo sociale (cosa che, implicitamente, ed in qualche misura, già avviene).

Per quanto moltissimi colleghi psicoterapeuti dichiarino, nel desiderio di distinguersi dai modelli medici, di non voler “curare” o “guarire” nessuno, bensì solo “prendersi cura”, “sostenere”, “facilitare”, aumentare la comprensione e le capacità di pensiero e di azione dei propri pazienti, non mi risulta che a queste variazioni lessicali sia mai corrisposto, nell’immaginario collettivo, un cambiamento dei “significanti” di fondo in gioco: lo psicoterapeuta continua, nelle rappresentazioni sociali del proprio lavoro, a “curare” gente, anche se in cuor suo sa di non farlo come un medico e “concretamente” è assai lontano da tale approccio (ma cambia poco).

Da quanto va emergendo da questo mio argomentare, il mondo “psi” nei suoi principali filoni, quando non si accoda alle imperanti narrazioni consolatorie dello scientismo, non sembra ancora possedere la necessaria autorevolezza per poter proporre oggi narrazioni/suggestioni/mitologie autonome e soprattutto fruibili per il sociale.

Ma allora perché porre la questione di una presunta mission sociale per la psicoterapia date queste premesse? Data cioè l’intrinseca e storicamente fondata miopia e riduttività dello sguardo psicoterapeutico sulle faccende sociali.

La risposta più spontanea potrebbe essere che lo “psichista”, chiunque egli sia e da qualunque parte egli provenga, si occupa in senso generale di benessere e qualità di vita molto prima che di malessere ed ha questo mandato sociale esplicito (sebbene alla polarità semantica benessere/malessere sia davvero difficile attribuire un attendibile spessore ed autonomia concettuale, risultando di fatto come una scatola vuota che ogni epoca riempie dei propri vezzi e le proprie contingenze).

Una risposta più ponderata è quella che invece rintraccia il senso dell’agire “terapeutico” nell’etica della liberazione, della dignità e dell’autodeterminazione di individui e gruppi sociali: assume senso voler incrementare il benessere se questo proposito si colloca su un orizzonte più ampio, che riguarda cioè la politica dei legami sociali e la responsabilità ad essa connessa.

Lo scatto in avanti della psicoterapia e il riconoscimento di una prevalente mission sociale può allora finalmente corrispondere a questa augurabile metamorfosi profonda, a questa responsabilità etica verso la collettività, ed indicare una più verace collocazione di tali saperi in ambiti scientifici più adeguati a tali scopi e alle proprie prerogative: quelli umanistici, antropologici, sociali.

Per di più, solo riconoscendo questa prevalente mission sociale, è possibile per la psicoterapia distinguersi e riscattarsi dalla pervasiva commercializzazione della salute che caratterizza ogni atto ed ogni pensiero terapeutico nella postmodernità, proprio in virtù del fatto che il deliberato ancoramento della psicoterapia agli interessi prima descritti (liberazione, dignità, autodeterminazione) implica una sua non neutralità e una posizione necessariamente critica verso i pre-giudizi economicistici e consumistici propri della nostra epoca.

*gruppalità interne*, ed è in considerazione di queste che va radicalmente rivisto il concetto di mondo soggettivo quando esso viene trasportato dalla biologia animale allo studio dell’uomo: il mondo soggettivo umano è per la maggior parte rappresentato da un insieme relazionale (significati, affetti, intenzioni) che riproduce dall’interno la medesima forza coercitiva che originariamente venne esercitata sull’individuo dall’esterno, ed anziché esprimere quindi, come comunemente si ritiene, un’originalità individuale, narra, riattivandola, la propria tradizione culturale e specificamente famigliare.
Il costruirsi del mondo soggettivo e dunque l’esito di un *processo di ambientazione*, inteso non come un processo di adattamento di un soggetto al proprio ambiente, ma come quel processo per cui l’ambiente viene internalizzato, e fattosi cosciente, viene affermato dall’individuo come se fosse nativamente proprio.
(…) Ma il mondo soggettivo, in quanto esito di ambientalizzazione, è esposto alla stessa necessità di riconcepimenti originali che l’uomo alle cose percepite dal mondo ‘naturale’. Quell’ “animale embrionico” che l’uomo è rimobilita anche nei confronti del proprio mondo soggettivo la stessa necessità di rifondazione del reale, per la quale sin dalle origini egli ha umanizzato l’ambiente ‘naturale’, Si apre cioè un processo inverso, un *processo di deambientalizzazione* del mondo soggettivo, ovvero di una sua risoggettualizzazione, che consiste in quella *poiesis*, in quel fare trasformativo di senso, a cui mi sono già riferito. In termini pragmatici, ciò significa che la parte tendenzialmente *identica* alla propria tradizione, cioè i gruppi interni, vengono incessantemente
rivisitati dalla parte *autentica* dello stesso individuo, e questa rivisitazione implica una destituzione, per parti più o meno estese, della legalità propria del gruppo interno a favore dell’emergenza di una propria originale legalità, delle propria *auto-nomia*.
*Idem* e *autòs* sono i due termini con cui indico, per brevità questa doppia polarità dell’esperienza individuale, ed è tra questi due poli che si gioca la condizione dell’uomo come condizione conflittiva perché necessariamente creativa e quindi distruttiva o destinata a legami tradizionale di significazioni affettive”

In estrema sintesi, Napolitani qui individua le premesse per uno studio antropologico della psiche alternativo ad un approccio metapsicologico. Getta le basi per un superamento del rapporto mondo interno/mondo esterno, individuo/gruppo, non riducibile alla presunta prevalenza di un’ottica molare su un’ottica molecolare, o viceversa, ma ad una loro originaria co-presenza dialettica.

La recente riflessione di René Kaes (“Il disagio del mondo moderno e la sofferenza del nostro tempo. Saggio sui garanti metapsichici”. Intervento al Convegno “I disagi della civiltà”, Roma, 2005) sembra muovere invece da preoccupazioni cliniche ancor prima che teoriche e parte dalla constatazione, oramai diffusa, che la cultura del nostro tempo produce nuove configurazione psicopatologiche, e che per comprendere tali fenomeni occorra prendere in esame altri modelli di funzionamento psichico.

Ad esempio “la trasmissione intergenerazionale del disturbi psichici ha messo in discussione la concezione di una psiche esposta soltanto ai conflitti intrapsichici”. Collocando quindi su un livello meta l’analisi del disagio, emerge una nuova complessità e, a tal proposito Kaes prosegue: “Le trasformazioni riguardano le grandi strutture di inquadramento e di regolazione delle formazioni e del processo sociale: miti e ideologie, credenze e religione, autorità e gerarchia. Le incrinature, le disorganizzazioni e le ricomposizioni di questi garanti metasociali della vita sociale colpiscono i garanti metapsichici della vita psichica, ossia le formazioni ed i processi dell’ambiente psichico su cui si basa e si struttura la psiche di ogni soggetto. Questi garanti consistono essenzialmente nelle interdizioni fondamentali e nei contratti intersoggettivi che contengono i principi organizzatori dello psichismo”.

Questi due concetti, garanti metasociali e garanti metapsichici, sono molto promettenti perché indicano modalità di funzionamento socio-psichico ed una interazione tra domini differenti.

Contestualmente all’indebolimento dei garanti metasociali della vita sociale, (concetto introdotto da A. Touraine nel 1965, e che indica le strutture di inquadramento e regolazione della vita sociale e culturale), avvenuto dalla rivoluzione francese in poi, e alla progressiva incertezza verso ogni riferimento a valori condivisi e rappresentazioni, si è assistito, parallelamente, all’indebolimento dei garanti metapsichici della strutturazione dello psichismo.

sociopsichico) e non più come processi differenti e diacronici, dall’altro cominciano ad esplorare con maggiore precisione le leggi che presiedono ai processi antropologico-culturali che governano a loro volta numerosi (e profondi) processi di narrazione e rappresentazione, di strutturazione delle trame psichiche e, di converso, di istituzione immaginaria del sociale (Castoriadis).

Sulla base di queste riflessioni diventa conseguente ripensare la mission della psicoterapia, ed in una buona misura anche le sue procedure e strategie, perlomeno a partire dagli assetti interni dello psicoterapeuta.