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Alcuni spunti, in occasione della pubblicazione delle indicazioni della Regione Lombardia

Introduzione

In questi ultimi due anni, in occasione della prima pubblicazione del Testo Unico in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro (D.lgs 09.04.2008 n° 81), noi psicologi abbiamo riposto in questa legge la speranza di poter allargare il nostro lavoro e, narcisisticamente, di poter finalmente essere attori principali, se non esclusivi, di questo processo di valutazione.

L’obbligatorietà per le aziende ha fatto proliferare le proposte, i questionari, i software e i corsi a riguardo della valutazione stress lavoro-correlato.

Criticità

A mio parere, la situazione che si è venuta a creare rischia di diventare controproducente per noi psicologi: parecchi tentativi di fornire indicazioni o strumenti per la misurazione dello stress lavorativo sono inadeguati e fuorvianti. Alcuni non assolvono del tutto la legge e altri dimostrano chiaramente incompetenza nella valutazione e nel saper relazionarsi con le aziende, piccole, medie o grandi che siano.

Le cause posso identificarle in due motivi principali: da una parte la mancanza di capacità del nostro Ordine di mettere in campo in modo propositivo e competente tutte quelle azioni necessarie per dare visibilità agli psicologi e alla loro professionalità; dall’altra ho assistito a proposte avanzate da società o addirittura da alcuni singoli colleghi, di “pseudo-metodi” di valutazione errati o svilenti della nostra professionalità.

Le conseguenze di questi modi di operare non possono essere fruttuosi per la nostra professione, ma possono solo confermare il pregiudizio dei datori di lavoro che lo psicologo si occupa solo dei “fuori di testa” e non fornisce risposte certe e utili.

Ma entriamo nel dettaglio.

Sono state pubblicate recentemente dalla Regione Lombardia gli indirizzi generali per la valutazione e gestione del rischio stress lavorativo (http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Sanita%2FDetail&cid=1213290740219&pagename=DG_SANWrapper). Sono delle buone linee di indirizzo, sicuramente migliorabili, ma sono le migliori indicazioni tra quelle disponibili sull’argomento.

Il dubbio che suscitano è il seguente: ma l’Ordine della Lombardia non poteva attivare un tavolo tecnico per portare il punto di vista degli psicologi su questo argomento? A quanto pare non è stato fatto. Quello che è stato fatto è un Convegno-Laboratorio di Psicologia del Lavoro (Nuove proposte per il lavoro per gli psicologi nelle organizzazioni) all’interno del quale una parte era dedicata alla valutazione del rischio ma che, a detta di tutti i partecipanti, non ha dato risposte né indicazioni concrete, nonostante la buona volontà e il lavoro dei proponenti.

Ma la cosa che mi ha lasciato indignato e che in un certo senso mi ha convinto a schierarmi e a diventare un membro attivo di AltraPsicologia, è stato quando durante le elezioni ENPAP ho ricevuto la comunicazione di un incontro concomitante alle votazioni, tenuto da Mario Sellini Segretario Generale dell’Associazione Unitaria Psicologi Italiani(AUPI), associazione che attualmente ha la maggioranza nell’Ordine degli Psicologi della Lombardia e si ripresenta alle elezioni con la lista “Costruire Professione”. In questo incontro erano state fornite delle risposte precise e uno strumento da utilizzare, ma con una modalità totalmente controproducente e svilente per la nostra professionalità. Inoltre, questa modalità non risponde né alle esigenze aziendali né all’Accordo Europeo a cui fa riferimento la legge; chi lavora per le aziende se ne era accorto subito (ricordo una persona davanti a me che mi ha detto testualmente “dilettanti allo sbaraglio!”)

Il primo dubbio che mi è sorto riguarda il motivo per il quale ad organizzare delle piccole conferenze su un tema con queste potenzialità per gli psicologi è stato un gruppo e non l’Ordine, nonostante le persone siano le stesse. E poi perché durante le elezioni ENPAP? A me, psicologo del lavoro, a cosa serve l’Ordine se non mi propone questi contenuti?

Il secondo dubbio riguarda un aspetto più tecnico ed è relativo alla modalità di valutazione del rischio connesso allo stress lavoro-correlato.

La proposta sommariamente era questa: “tu, psicologo, consegni un nostro questionario al datore di lavoro che lo distribuirà ai lavoratori, poi li recuperi e ci ridai i dati che hai ottenuto, così noi li analizziamo e ti diamo i risultati, magari poi creiamo anche dei valori normativi: et voilà, la valutazione del rischio è fatta!”

Successivamente ho visto e sentito di altri metodi proposti da altri psicologi o società di psicologi che si riducevano all’uso indiscriminato di questionari, magari il famoso questionario di Karasek.

Molti indicazioni sono basate sul dare un questionario “a pioggia” in azienda. Questa modalità è massimamente controproducente perché a fare queste valutazioni (consegna e ricevi il questionario) può essere benissimo capace un ingegnere o avvocato o sociologo o medico del lavoro o un diplomato con un minimo di esperienza.

Infine le persone che hanno proposto questi approcci sono le stesse che mettono in guardia noi psicologi a non farci “rubare” il lavoro da altre professioni come medici, sociologi o ingegneri. Ma molte di queste professionalità sono le figure preposte per legge alla Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro: come si fa a contrapporti a coloro che dovrebbero essere i nostri migliori alleati per poter effettuare un’adeguata valutazione del rischio stress?! E se si propongo delle modalità così banali e inutili, perché mai dovrebbe occuparsene lo psicologo? Io preferirei che questi modi di operare siano utilizzati da chi non è uno psicologo, in modo da poter mostrare quanto valore aggiunto può portare la nostra competenza.

Come fregarci da soli

Promuovendo ed operando con le modalità appena descritte il risultato sarà controproducente per la nostra professionalità per molti motivi che provo ad elencare qui sotto:

  1. Una valutazione che si limita alla raccolta dati tramite questionario, distribuito dal datore di lavoro o dallo stesso psicologo senza alcun criterio, Noi psicologi sappiamo quante distorsioni possono esserci nel rispondere ad un questionario in azienda, per di più se a distribuirlo è lo stesso datore di lavoro! Se il vostro superiore vi consegna da compilare un questionario sul vostro lavoro, rispondereste ciò che realmente sentite o avrete la sensazione di essere identificati e valutati in base alle vostre risposte? E immaginate se il vostro superiore è altamente direttivo e collerico: guai a indicare nelle risposte che si ha un superiore direttivo e collerico!
  2. A distribuire un questionario a pioggia ed analizzare le percentuali di risposta sono capaci tutti: il medico competente o l’ingegnere, il diplomato o lo stagista. Non ci sarà bisogno dello psicologo. Dove risiede la nostra professionalità? Perché l’azienda dovrebbe prendere un consulente esterno per fare un questionario, che ne fa già altri da sola?
  3. Se si rimane su valutazioni generali (uguali per tute le aziende) sarà difficile dare delle risposte adeguate e la valutazione rimarrà fine a se stessa: un atto burocratico. Finita la valutazione= lavoro finito.
  4. Non fornire risposte precise e dettagliate rafforzerà il pregiudizio sullo psicologo come inconcludente, allora è meglio che si continui a lavorare con i “fuori di testa”.
  5. Parlare solo di metodi di valutazione senza portare a conoscenza in modo serio e approfondito il razionale sottostante allo stress lavorativo, alle sue cause e conseguenze, alle modalità di gestione, confermerà l’idea ingenua che lo psicologo si improvvisa e dice banalità che chiunque con un minimo di buon senso potrebbe dire.
  6. Con questo tipo di approcci non sarà possibile instaurare un processo rivolto al benessere organizzativo e di conseguenza risulterà impossibile proporre nuovi progetti per proporre azioni preventive o compensative dello stress perché il tutto di esaurisce nell’adempimento legislativo.

Elementi per la valutazione stress lavoro-correlato: lo psicologo in azione

Per fortuna sono state pubblicate le linee di indirizzo generale dalla Regione Lombardia che mettono un freno ad approcci qualunquistici e forniscono delle indicazioni precise su come effettuare una valutazione.

Primo: Flessibilità del metodo. La valutazione dello stress non può essere sempre uguale per tutte le realtà lavorative, ma bisogna calarla all’interno della realtà aziendale a cui si fa riferimento. Infatti la valutazione, così come è lo stress, è contesto-specifica. Le fonti di stress possono variare sia a seconda del tipo di lavoro sia a seconda del contesto psicosociale. Inoltre, le occasioni di valutazione possono essere differenti a seconda del tipo di organizzazione lavorativa.

Secondo: Utilizzo dei questionari in modo professionale. I questionari devono essere distribuiti e compilati secondo i criteri della ricerca psicosociale, evitando bias di compilazione soprattutto in un ambiente gerarchico e suscettibile a facili condizionamenti. Dobbiamo avere il completo controllo o almeno la conoscenza delle modalità di distribuzione, compilazione e delle comunicazioni sull’argomento.

Terzo: Non solo questionari/calare la rilevazione nella realtà organizzativa. I questionari non possono essere l’unico modo di valutare il rischio stress, è necessario integrare i risultati con una conoscenza approfondita del lavoro. Si possono usare interviste, sopralluoghi, focus group ecc.. Questo per poter interpretare correttamente i dati ottenuti e avere delle idee per proporre miglioramenti.

Quarto: Condivisione. È molto importante la condivisione del processo valutativo da parte del management. Se il management non è adeguatamente informato/formato su cosa è realmente lo stress e sul tipo di valutazione che si andrà ad operare, allora è probabile che si incontreranno molte difficoltà durante il processo valutativo. Ricordate che l’importanza percepita di un progetto da parte dei lavoratori è influenzata dall’atteggiamento dei superiori verso il progetto stesso.

Quinto: Coinvolgimento. Questo aspetto è fondamentale per poter adempiere adeguatamente alla legge e per poter ottenere dei dati adeguati e realistici della situazione aziendale. I lavoratori devono essere coinvolte in tutte le fasi di valutazione.

Sesto: Multidisciplinarietà. Scordiamoci come Psicologi di essere gli unici gestori del processo valutativo. È necessario creare un gruppo di lavoro che comprenda tutte le figure aziendali interessate. Non facciamo dei facili distinguo tra le diverse professionalità, e neppure non dobbiamo aver paura che altri ci “rubino” il lavoro. Ognuno porta il proprio contributo alla valutazione: medici, ingegneri, sociologi, economisti lavoreranno con noi limitatamente alle loro competenze.

Settimo. Cut-off (o soglia). Lo stress non ha un cut-off predefinito al di sopra o al di sotto del quale una persona sta male o sta bene. Le valutazioni si dovrebbero basare principalmente su confronti interni e avere un approccio di miglioramento continuo. Diffidate dai valori soglia (ad es. quelli dell’OSI di Cooper), ma sappiate valutare i dati al di fuori dei piccoli campioni di riferimento presi per creare la soglia.

Ultimo: Competenza. Bisogna aver ben presente cos’è lo stress e cos’è una valutazione dei rischi. Non bisogna limitarsi a parlare di stress in modo generico, da volumetto divulgativo, altrimenti non sarà mai chiaro la differenza tra le nostre competenze e le altre professionalità. Bisogna parlare di filtro cognitivo, percezione, bias di compilazione, interpretazione dei dati, coping, response rate ecc…

Infine ricordate che di stress si muore, non è qualcosa di inesistente.

Termino il mio articolo con un quesito ai lettori: quando lo stress diventa patogeno? La risposta scontata appare essere: (ed è scritto anche sull’Accordo Europeo): “quando l’esposizione è prolungata o troppo intensa”.

Ma lo psicologo sa rispondere anche a “Ma quando è prolungata ed intensa?”

La risposta a questa domanda la conosciamo solo noi… siamo Psicologi!