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Note e digressioni su:

Homo Consumens.

Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi

di Zygmunt Bauman

(Edizioni Erickson 2007, 101 pagine, 10 €)

Luigi D’Elia

Pagine inquietanti queste ultime di Bauman, scritte, come solitamente, con la paradossale leggerezza e l’occhio disincantato dello studioso che sembra ormai parlare da un luogo altro, più elevato. Saranno forse i suoi ottantadue anni, sarà forse la facilità e semplicità con la quale questo autore scrive, uscito oramai da tempo dalla nicchia degli autori di settore e di culto per diventare autore di un pubblico ampio e alquanto avvisato, ma l’inventore della “modernità liquida” e dell’”amore liquido”, lo spietato osservatore degli stili di vita della post-modernità ci stupisce ancora una volta donandoci questa raccolta di 5 recenti conferenze “italiane”, delle quali le prime due (1. Mode volatili. L’irresistibile impulso a consumare e trasformarsi; e 2. Lo sciame inquieto. Dall’homo politicus all’homo consumens) conservano una diretta relazione con il titolo del libro, mentre le ultime tre conferenze (3. Mixofobia. Alla larga dai poveri; 4. Risentimento. Quando il pericolo è dentro le mura; e 5. Welfare assediato. Sono forse io il custode di mio fratello?) argomentano alcune delle ricadute sociali della società consumens.

Il campo sociale negli ultimi decenni

Già Deleuze e Guattari, nella loro irripetibile opera L’Anti-Edipo[1], datata 1972, avevano dichiarato che non v’è alcuna differenza tra investimento libidico ed investimento economico-politico, e che ogni investimento libidico esiste unicamente in un campo sociale. Ponevano in tal modo, senza equivoci e sconti, il campo sociale e le sue caleidoscopiche leggi (che essi individuavano nei meccanismi desideranti) al centro di ogni analisi sull’uomo.

Essi, però, nel descrivere l’uomo ed il mondo dell’epoca del capitalismo, ne attestavano probabilmente anche il tramonto, se consideriamo che negli ultimi 35-40 anni è passata molta acqua sotto i ponti e sono cambiati un bel po’ di scenari, indispensabili per la comprensione di alcune trasformazioni che questa ulteriore riflessione di Bauman ci illustra invece come testimonianza viva e attualissima.

Molti i mutamenti di scenario, dicevamo, il principale dei quali è probabilmente il modo di produzione e la natura stessa delle attuali logiche economiche che sorreggono i sistemi globalizzati. L’Anti-Edipo disegna ancora, seppure al tramonto, un mondo di “produzione” ed una “società di produttori” ed i processi di coagulazioni identitarie e sociali ad essa connessi; i testi di Bauman, e questo in particolare, raccontano un mondo in cui l’economia capitalistica della produzione ha lasciato il posto al mondo dell’economia del consumo, una società post-industriale, la <<società dei consumatori>>.

A cascata ed adiacentemente a questa macro-mutazione, molte altre (non che gli attuali sviluppi non fossero stati già ampiamente annunciati nel passato e non vi fossero le premesse tendenziali delle attuali società[2]) – descrivo qui sinteticamente solo alcune tracce – il mondo della tecnica e dell’economia, intimamente saldati, non avevano ancora dato 40 anni fa prova di tutta la loro potenza pervasiva negli ambiti della comunicazione mediatica, dell’informatizzazione, nella costellazione continuamente mobile dei linguaggi ad essa legati, ma anche nell’estensione dei mercati, nell’applicazione sistematica delle macchine belliche pubblicitarie e propagandistiche della politica e dell’economia. Accanto a ciò, ancora, negli ultimi decenni, i vistosi cambiamenti delle forme e rappresentazioni del lavoro, della giustizia sociale, delle istituzioni, della famiglia, delle relazioni tra i sessi e le generazioni, e così via. Fino a giungere, non in sequenza, ma sempre in adiacenza, a ciò che Foucault, nella sua ultima ricerca sulle tecniche del potere, definisce come tecnologie del sé, all’ermeneutica del soggetto contemporaneo, iscritta anch’essa all’interno di una ineludibile “governamentalità”, mi riferisco cioè all’effetto di penetrazione nella cura e rappresentazione di sé, degli apparati socio-culturali della nostra epoca.

Scrive a tal proposito Bauman: <<Il segreto di un sistema sociale duraturo, cioè in grado di riprodursi, è la sua capacità di proiettare i suoi “prerequisiti funzionali” nei comportamenti dei suoi membri. In altre parole, la socializzazione efficace è quella che obbliga/induce/persadue gli individui a desiderare di fare quel che il sistema, di fatto, ha bisogno che essi facciano per continuare ad esistere […]. Quando questi modelli (comportamentali, ndr) sono stati osservati e assorbiti fino a diventare automatici, gradualmente i modelli alternativi e le capacità necessarie per metterli in pratica spariscono. Questa è la fase della modernità liquida, cioè della società dei consumatori>> (p. 42-43).

Ecco allora che il cerchio sembra inesorabilmente stringersi in uno strangolamento che ha progressivamente piegato le potenziali “macchine desideranti” individuali e sociali in meri unità o collettività di consumo.

L’homo consumens e le sue peculiarità

Bauman non ha molti dubbi, l’identità consumista è di gran lunga quella dominante, quella che delinea il carattere dell’uomo contemporaneo (almeno occidentale), il paradigma che informa maggiormente di sé i suoi stili, pensieri, emozioni e comportamenti.

Ma quali sono le caratteristiche perlopiù inedite (in relazione ad altre epoche storiche) della società dei consumatori e dei suoi membri?

L’homo consumens che si muove sugli scenari tecno-sociali del capitalismo avanzato e della società consumens sembra orientarsi su un campo piuttosto saturo di domande e risposte, un campo di necessaria alta prevedibilità, ma anche di grande deresponsabilizzazione, egli sembra aver posto l’equivalenza tra il sentimento di libertà e quello di scelta: scelta tra le diverse offerte del mercato che coincidono con altrettanti orientamenti pseudo-esistenziali, ed in tali pseudo-opzioni egli ha disciolto e neutralizzato la propria idea di libertà. Questa equazione tuttavia si mostra presto ingannevole ed effimera in quanto costringe a seguire la medesima tendenza invocata dal mercato stesso, cioè la tendenza all’obsolescenza degli oggetti simbolicamente e socialmente carichi, obsolescenza imprescindibile per la continuità del sistema economico. Lo stile di vita che ne consegue e che trae forma è quello, continua Bauman, della continua rinascita, della riconfigurazione di sé, del disprezzo del passato, della perenne insoddisfazione, dell’illusione di un controllo onnipotente sulla propria vita.

Il bisogno di controllo assume forme, diremmo noi, ansiose, anticipatorie, occorre cioè “giocare d’anticipo” sulle tendenze del mercato in quanto solo così è possibile per l’homo consumens conservare una propria continuità autobiografica ed un senso di adeguatezza. Una certa urgenza ed emergenza prendono il sopravvento, accompagnate, osserva Bauman, dalla rapidità dei cambiamenti, ma soprattutto dalla necessità di obliare il prima possibile gli oggetti precedenti divenuti sorpassati (disinvestiti), ma anche, per estensione, le situazioni relazionali, le precedenti agglomerazioni identitarie. Tutto sembra funzionare per agglomerazioni temporanee che si succedono con una rapidità ed una quantità simile alla enorme mole d’informazioni e comunicazioni dei media, anch’essa tale da doversi necessariamente e drasticamente selezionare ed obliare.

In tal fluido in cui noi tutti nuotiamo chi si ferma è perduto, è vietato cioè sfuggire alla tirannia del presente fermandosi in un’identità stabile, in stili di vita sobri, disimpegnati dalla corsa, pena l’esclusione certa da ogni processo sociale, e dunque da ogni criterio di idoneità sociale e personale.

La forma assunta dalla temporalità, come cioè viene declinato e vissuto il tempo dell’homo consumens, ci racconta del crollo della dimensione dell’attesa, della sospensione, del differimento (il tempo del pre-conscio, come direbbero gli psicoanalisti), per far posto ad una bassa tolleranza delle frustrazioni, ma anche dei conflitti che, come ci avverte Bauman, richiedono tempo e pazienza per essere affrontati. Tempo e pazienza non ce n’è più per nessuno.

Il flusso veloce del tempo corrisponde quindi al passaggio rapido degli oggetti, ma anche alla costante mobilità dei legami sociali e delle identità intercambiabili, ci si ritrova dunque a re-inventarsi dentro nuovi contenitori sociali, dentro nuovi amori, dentro nuovi stati mentali, dentro nuove rappresentazioni di sé.

Il mondo appare allora come un enorme <<contenitore di parti di ricambio>> dove rifornirsi di continuo per modellare e aggiustare la propria immagine, ideale, rappresentazione di sé e degli altri, per integrare il proprio bagaglio di gadgets ed umori.

In tale affermazione Bauman ci indica, tra le righe, un modello di rapporto tra mente e società che si avvicina molto a ciò che Andy Clark, scienziato cognitivo inglese, suggerisce nel suo recente libro “Natural-born cyborgs. Mind, technologies and future of human intelligence” (Oxford University Press, 2003), nel quale sembra finalmente superarsi il dualismo mente-contesto, interno-esterno. La mente è nel sociale tanto quanto il sociale è nella mente. In tale concezione della mente “estesa”, o forse meglio immanente, occorre, secondo Clark, esplorare il rapporto confuso tra cervelli, corpi e supporti culturali e tecnologici.

Bauman, certamente meno ottimista della scienza cognitiva (seppure, come in questo caso, votata ad un radicalismo sociale), sostiene che, nel processo di aggiornamento continuo delle parti da integrare e ricambiare (mindware upgrades, secondo la suggestiva definizione di Clark), i sentimenti congiunti di onnipotenza e deresponsabilità dettati dalla società dei consumi determinino diverse alterazioni del tessuto sociale nella direzione della disaggregazione e distruzione delle trame psicosociali e, di conseguenza, degli stati mentali degli uomini. Ci si disfa dei legami sociali e li si “consuma” e sostituisce, esattamente come accadrebbe con qualunque altro oggetto di consumo.

Accade allora che la tecno-cultura consumens sia creata dagli uomini, ma allo stesso tempo crea e modella gli uomini e le loro menti, ed in questa interpenetrazione non è più possibile riconoscere chi crea chi.

Nuove declinazioni del malessere

<<In una realtà sociale, la condizione descritta come “malessere” deriva dalla struttura e dalle dinamiche della società in cui ha luogo. L’apparente autonomia del malessere (che è più che altro l’effetto della cornice interpretativa adottata), a prescindere dal fatto che sviluppi o no dei meccanismi di auto-riproduzione, non è una prova della sua indipendenza dagli altri aspetti dello scenario sociale. Ogni tentativo di sconfiggere il malessere agendo su tali fattori interni (cioè agendo su ciò che le persone coinvolte dovrebbero o potrebbero fare), senza considerare la globalità dei fattori sociali in cui il malessere si sviluppa, non può portare che a risultati transitori e scoraggianti. Il fenomeno verrà colpito nei suoi effetti, non nelle sue cause, e continuerà a riprodursi>> (p. 53).

Si ha talora la sensazione che gli psicologi, quelli italiani in particolare (ai quali questa recensione è prevalentemente dedicata), si arrocchino in una sorta di provincialismo culturale e di familismo istituzionale, sparpagliati in mille appartenenze, e che facciano a volte fatica a riconoscere in autori non disciplinari le necessarie intuizioni indispensabili alle loro pratiche. Sembra a volte che vadano alla guerra con le mazzafionde, che affrontino cioè la complessità delle loro pratiche con strumenti poco adatti e affilati, chiusi come sono nelle loro modellistiche concettualmente traballanti e riduzionistiche, nelle loro prassi irriflessive e automatiche, riducendosi infine in posizione di retroguardia come meri certificatori di adeguatezza, piuttosto di accogliere la sfida dell’emancipazione personale (propria e dei propri utenti), ma soprattutto la sfida dell’etica, come ci suggerirà Bauman nella parte finale del suo libro.

Le culture psicologiche non hanno ancora compiutamente imparato la lezione di Bauman integrandola con i loro saperi, modificando le loro teorie relative, ad esempio, a scopi, credenze, stati mentali, metarappresentazioni (per usare concetti cari al cognitivismo), le loro geografie degli investimenti libidici e dei meccanismi di difesa (per usare il linguaggio caro alla psicoanalisi), le loro rappresentazioni del corpo, delle famiglie e delle dinamiche familiari, dei gruppi e delle gruppalità (interne ed esterne), della vita politica e sociale, ma anche i processi attentivi, mnemonici, percettivi, emotivi, affettivi, così palesemente mutati e mutanti nelle nuove generazioni consumens, il tutto, appunto, va a configurare una vera e propria mutazione antropologica di cui ci informa, senza troppi pregiudizi e laccioli ideologici, il nostro autore.

Sarebbe interessante, dunque, revisionare i nostri impianti teorici, talora un po’ stantii, contaminandoli con riflessioni relative a questa ontologia del presente, e scoprire in tal modo le nostre “grammatiche del mentale” vanno velocemente (più velocemente di quanto si possa credere) cambiando nella direzione della “modalità consumens” così come indicato da questo libro.

Già questo movimento di esplorazione e contaminazione è visibile nella nostra cultura soprattutto in altri (cioè non-psicologi) studiosi sociali come testimoniato nel recente articolo di Massimo De Carolis “Ritagliare una nicchia. Dispositivi sociali e dissociazione psichica” (in Forme di Vita, 6/2007, Derive Approdi, 2007)[3], nel quale lo sforzo d’interpolazione/adiacenza tra vita mentale e sociale trova interessanti snodi concettuali attraverso un utile rimescolamento dei linguaggi disciplinari (della psichiatria/psicologia e delle altre scienze sociali) che in tal modo variano di forma, ma anche di sostanza, arricchendosi reciprocamente. Questa operazione di De Carolis è senz’altro solo un inizio, sicuramente promettente, e traccia una strada percorribile: la dissociazione psichica ed i disturbi dissociativi, sono una delle tante chiavi di accesso alla contemporaneità, non certo l’unica.

A voler “tradurre” il testo di Bauman con lo stesso proposito, troveremmo, da quanto qui emerso, innumerevoli analogie tra forme delle scena consumens post-moderna e fenomenologie psicopatologiche (sia in termini di sintomatologie che di tratti personologici), come se vi fosse un acutizzarsi di alcuni aspetti esistenziali in forma di “normale” adattamento alla mutazione in corso. Non dunque semplicemente un’osservazione epidemiologica legata a questa o quella psicopatologia, ma piuttosto troveremmo una forma di mimesi alla contemporaneità e alla pluralità delle sue forme di vita, che però continuano ad essere descritte con nosografie e modellistiche anteriori alla nostra epoca o viceversa forzosamente e pedissequamente sempre cangianti, che però non colgono fino in fondo né il movimento complessivo, né l’interazione dei fenomeni in oggetto.

Pensiamo ad esempio a come certe organizzazioni psicologiche dipendenti, tossicofiliche, borderline, narcisistiche, ansioso-compulsive, paniche e fobiche, bulimiche-anoressiche, paranoidee, schizoidi, antisociali, maniaco-depressive, siano oramai ordinari modi di nominare non più psicopatologie (a meno che non si voglia, con spirito reazionario, patologizzare e medicalizzare l’intera società), ma attribuzioni standard di chiunque di noi in forme più o meno attenuate, o più o meno sensibili e gravose.

Forse per psichiatri e psicologi risulterà più consolante (e probabilmente anche più conveniente) mantenere una rigida distinzione tra fenomeni sociali e forme psicopatologiche individuali, tale da giustificare a valle le loro osservazioni relative al disadattamento dei propri pazienti, e dunque i loro interventi. Non importa se poi la psichiatria e la psicoterapia non producono buone domande e conseguenti buone risposte al disagio, non importa se non hanno mai risolto le gravità psichiatriche (ma neanche scalfito), se gli psicoanalisti non hanno mai curato la nevrosi nel mondo (casomai l’hanno fissata), non importa. Ciò che importa è che essi continuino a certificare innanzitutto la loro funzione regolativa ed in secondo luogo le disarmonie dei propri clienti. Resta da stabilire rispetto a quale idea di “armonia” si possano oggi definire le “disarmonie”, rispetto cioè a quale rappresentazione/termine-di-confronto (nella nostra testa, nei nostri assetti interni) del tipo umano e di società ci stiamo muovendo[4].

Esclusione ed umiliazione

La società consumens è riuscita laddove altri tipi di società moderne (totalitarie o democratiche) hanno fallito: l’esercizio totale e non dispendioso del potere. Esse ci sono riuscite attraverso <<l’effetto dell’internalizzazione dell’ordine [corsivo mio], cioè della volontà di comportarsi nel modo richiesto da un determinato modello di ordine. Di conseguenza l’esclusione assume l’aspetto dell’autoemarginazione, vale a dire del fallimento personale degli individui e indirettamente dei loro educatori, supervisori e guide>> (p. 55).

Il “potere” di cui si parla non passa più da una coercizione esterna, ma da un’opera di sedimentazione dell’omologazione sociale; l’”ordine” in questione corrisponde alla <<adesione incondizionata ai precetti consumistici>> che definiscono i criteri identitari e d’inclusione e, di converso, di esclusione. Non è solo una questione di conformismo, la società consumens sembra prevedere (e neutralizzare) al suo interno ogni movimento antagonista, vengono meno dunque gli stessi concetti di conformismo e trasgressione, non essendo più così facilmente visualizzabile (essendo stata internalizzata) ogni linea di demarcazione.

Avere cittadinanza, titolarità e dignità, in una parola, identità, richiede automaticamente l’avere un potere consumistico, e non semplicemente potere d’acquisto, concetto economico-politico divenuto assolutamente poco euristico in relazione a quanto stiamo dicendo. Allo stesso modo, ci avverte Bauman, i criteri di esclusione sociale non sono più regolati dall’improduttività, dall’inoccupazione, dalla devianza, ma dall’essere cattivi consumatori. Non c’è nulla di più pericoloso per le società contemporanee, nella percezione collettiva, ma anche nei calcoli politici, della recessione economica, della deflazione, del ritiro dal consumo.

Così codificata la minaccia sociale, la povertà e/o la diversità etnica (parliamo dei migranti) diventano oggetti paranoicali, e la <<mixofobia>>, il timore della contaminazione, del mescolamento con i poveri, il carattere prevalente della vita e della difficile convivenza urbana. Ma “povertà” non è semplicemente la millenaria condizione oggettiva di carenza di risorse e disuguaglianza sociale, è diventata, nella società consumens, una condizione di degrado psichico e morale più che in ogni altra epoca. Questo perché la monocultura consumistica produce un unico modello di uomo e di vita ed è il prodotto a sua volta di un’unica classe sociale, mentre la sempre maggiore divaricazione (sia su scala globale che su scala locale) tra ricchi integrati (seppure nella loro perenne insoddisfazione ed infelicità) e poveri emarginati rende indegno ed immorale il cattivo consumatore che diventa così una sorta di eversore sociale naturale.

Due generi d’infelicità/alienazione si confrontano dunque, tra le quali è difficile stabilire quale sia peggiore: quella dei “consumens” devastati e desertificati interiormente dal tritacarne socio-culturale post-moderno; e quella degli “aspiranti-consumens” sempre più distanziati dal loro obiettivo (diventare consumens) e per questo sempre più alienati.

La questione morale

Inutile nasconderlo, Bauman è un autore la cui principale preoccupazione è l’etica, e questo emerge fortemente nelle ultime due conferenze del presente libro. Per questo suo distinto ed esplicito carattere moralista (non moralistico), Bauman rischia di attirarsi la diffidenza da ogni parte del mondo intellettuale: da chi lo vive come un “anti-sistema”, e da chi lo vede come un “restauratore” antimodernista. Le simpatie di alcuni ambienti cattolici verso di lui hanno poi confermato questa sensazione.

Se però riusciamo a leggere queste ultime due conferenze senza pregiudizi ideologici, ne cogliamo delle preoccupazioni che appaiono, alla luce di quanto stiamo dicendo, condivisibili e “doverose”.

Quando Bauman esplora le radici della paranoia propria della società consumens, giunge ad affermare che <<il mondo di oggi sembra congiurare contro la fiducia>> ed individua nel “risentimento” il carattere psicologico prevalente.

Le città sono diventate, più che in ogni altra epoca, un crogiuolo di conflitti sociali nelle quali il sentimento di assedio predomina alimentato da risentimento, umiliazione, rivalità e paura, divenuti forme relazionali condivise e collettive. Bauman è molto esplicito a proposito: <<questo genere di relazioni sono di natura sociale, non individuale (…) devono essere affrontate esclusivamente attraverso la modificazione degli ordini sociali che le producono>> (p. 82).

Questa sorta di “programma rivoluzionario” dell’autore sembra passare però attraverso un cambiamento della coscienza collettiva in senso morale, piuttosto che, attraverso un progetto movimentista.

Ecco allora, di fronte alle stridenti contraddizioni delle nostre società che sempre più decisamente stanno distruggendo ogni forma di welfare e di servizio sociale, si alza la domanda del filosofo E. Levinàs, la stessa di Caino verso il Dio dell’Antico Testamento allorché gli chiede di Abele: “sono forse io il custode di mio fratello?”. Da qui, secondo Levinàs, trae origine il comportamento immorale, che si traduce nella “normalità” del non prendersi cura del proprio prossimo. Questo, dice Bauman a causa del fatto che gli odierni poveri ed emarginati sono passati dall’essere oggetto di compassione ad oggetto di rabbia, paura e risentimento (il recente episodio italiano dei lavavetri, sembra essere stato previsto nei minimi particolari).

Riprendiamo allora la biforcazione, tra padella e brace, dei due generi d’infelicità precedentemente citata: homo consumens ed aspiranti-consumens-emarginati.

Qui Bauman è spietato, e coglie la profonda natura immorale e cinica delle nostre società: a fronte dell’incertezza del mondo sperimentata dall’homo consumens,  <<la nostra società del rischio ha davanti a sé un compito terribile, quando si tratta di riconciliare i suoi membri con le insidie e i timori delle vita di ogni giorno. È questo è il compito che i poveri, un tempo rappresentati come sottoclasse di esclusi, rendono un po’ più agevole. Se il loro genere di vita rappresenta l’unica alternativa al “rimanere dentro il gioco”, allora i rischi e gli orrori del mondo flessibile e dell’incertezza di tutta la vita “normale” sono un po’ meno repellenti e insostenibili: ossia sono meglio di ogni altra alternativa concepibile>> (p. 91).

Mors tua vita mea è dunque diventata, del tutto sdoganata dalla società consumens, la pietra angolare dell’ordine morale e sociale.

Non ci sono dunque sconti per chi opera nelle professioni sociali (come noi): è con questo mondo che dobbiamo fare i conti. <<Essere responsabile dei propri fratelli rappresenta una sorta di condanna permanente a un lavoro faticoso e carico di ansia morale>> (p. 96). Ne sappiamo qualcosa noi che lavoriamo in trincea con le fasce deboli, tossicodipendenti, gravità psichiche, handicap, anziani, bambini, famiglie, etc. Nessuna requie, nessuna consolazione, nessuna procedura o terapia miracolosa o migliore delle altre, <<dipende, invece dagli standard morali della società di cui siamo tutti abitanti>>, risponde Bauman.


[1] Utilizzo quest’opera come pre-testo di confronto, per tracciare una linea prospettica in una profondità storica rispetto all’attuale testo di Bauman.

[2] Un testo su tutti, a mo’ di esempio: Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, del 1976.

[3] In questo articolo De Carolis rilegge alcuni dispositivi sociali, quali la circolarità, la pluralità e l’informatizzazione nella chiave nosologica del disturbo dissociativo.

[4] Vedere a proposito: L. D’Elia, Psicologia e Biopolitica su AP-Magazine, Maggio 2007