image_pdfimage_print

Il decreto Bersani fa discutere tutti in questi giorni e ciò che si sta cucinando per i professionisti vecchi e nuovi è per il momento non ancora dispiegato e dunque non ancora prevedibile in tutte le sue conseguenze. Gli altri interventi informativi paralleli a questo e qui pubblicati sottolineano pro e contro, ma è difficile capire bene cosa accadrà veramente.

Le conseguenze sono controverse, a quanto pare, visto che per quanto ci riguarda come Psicologi, non v’è già da sempre professione più “liberalizzata” della nostra considerando che, in assenza di un tariffario approvato e di una tutela reale da parte dei nostri Ordini, in assenza cioè da sempre di solide basi di contrattazione sociale, tutte le nuove generazioni si muovono già in una sorta di triste anarchia, aggiungendo a ciò anche la tristezza di sentirsi totalmente inadeguati poiché, come si dice spesso e ovunque, “non sappiamo stare sul mercato”!

Gli ottimisti impenitenti godono dell’ulteriore flessibilizzazione del mercato ed intravedono in essa spazi di manovra e di movimento nuovi e promettenti; gli scettici (e tra questi mi annovero d’ufficio) svolgono altre riflessioni, provando a leggere certi andamenti culturali senza trionfalismi modernisti, ma con i piedi per terra.

C’è infatti un presupposto implicito (ideologico? Psicologico?) a tutta l’operazione liberistica da cui partirei, prima ancora di addentrarmi nei meandri del decreto, ed è il seguente: quanto l’idea di una liberalizzazione del mercato poggia in realtà sull’idea neo-liberista della totale deregolamentazione ed autoselezione? Quanto cioè la delega all’intelligenza autogovernate del mercato è assunta come posizione ideologica implicita? E quanto infine l’idea stessa di “mercato” possa attribuirsi, senza alcuna distinzione, a prestazioni rivolte a persone (e per di più così delicate e particolari) come le nostre? Mi domando: prestare pensiero, benessere e sostegno a persone è proprio la stessa cosa che affettare e vendere prosciutti?

Comincerei innanzitutto a sfatare una volta per tutte l’idea insita, implicita, ormai connaturata in tutti noi dell’intelligenza del libero mercato? Il mercato NON è affatto intelligente. Diciamolo con nettezza e in forma definitiva. Il mercato è di chi ci sa stare. Chi non ci sa stare fa da zavorra, carne da mecello (come vengono chiamati i piccoli risparmiatori dalle banche). Il mercato è dei furbi ed è fondamentalmente an-etico.

Il mercato inoltre crea una neo-standardizzazione dei linguaggi: basta guardare cos’è diventato il linguaggio televisivo nella democratica pluralità di scelte, o basta osservare le continue derive che il concetto di aziendalizzazione ha portato nella qualità dei servizi e a produrre di fatto l’annullamento del welfare. Senza contare il fatto che a volte il “mercato” che abbiamo in mente è quello di 20-30 anni fa, portatore ancora di qualche “scrupolo etico” e non certo quello attuale, del tutto deregolamentato e per certi versi degenerato.

Questo del mercato intelligente, lungimirante e selettivo è il mito con il quale siamo cresciuti, forse nati, che delega ad un’entità del tutto astratta e volubile il nostro destino in quanto responsabili di professioni, come in particolare la nostra, etiche, e dunque non commerciali. Professione etica vuol dire che il nostro scopo non è il profitto e che le nostre “prestazioni” non sono omologabili, culturalmente e concretamente, a quelle commerciali.

Non so che fine farà il nostro Ordine e cosa gli rimarrà da fare (qualcuno se ne accorgerà della sua scomparsa o del suo dimagramento? Dubito); non ho idea di quale giungla associazionistica verrà fuori a coprire (anche commercialmente) lo spazio lasciato vacante. Certo, noi non siamo l’Inghilterra e tutto lascia prevedere che di quella tradizione (di fondazioni scientifiche e di ricerca) e di quel rigore non ci appartiene nulla. Le attuali Associazioni di categoria sono ben lontane, per vari motivi, dall’essere pronte ad assumere funzioni istituzionali complesse. Allora che accadrà?

Temo solo che, se l’andazzo è questo, la tendenza attuale ad aprire le dighe alle nuove pseudo-professioni, all’accreditamento stile bollini del supermarket, alla formazione “tanto al kilo“, all’omologazione tra una psicoterapia efficace e il dentifricio al fluoro approvato dall’associazione dei dentisti delle Langhe, sarà sempre maggiore e si stabilirà sempre più profondamente nell’immaginario di tutti l’idea che lo psicologo (il medico, l’avvocato, il giudice, etc.) “ti vende qualcosa“. Ma forse è già così…

Dovremo allora tutti ridurci a tirar fuori i nostri banchetti da venditori all’ingrosso e al dettaglio di formazione, di salute, di benessere ed affiancarci nel “mercato” agli altri competitors (counselors, etc..). È questo che vogliamo?

Ed allora cosa ci auspichiamo? Sicuramente una maggiore unità di tutte le anime della professione verso una maggiore chiarezza sulle regole:

  • regole sulla tutela, che avvenga con puntualità e rigore;
  • regole sull’accreditamento professionale che segua e certifichi i diversi livelli di competenza e l’articolazione delle esperienze, e che non sia la squallida raccolta punti ECM (che prima o poi saremo costretti a fare tutti) che nulla dicono della formazione reale e del saper fare della Psicologo;
  • regole sull’etica professionale, ben distinta dalle logiche mercantili.

Chi ha dettato fino ad oggi queste regole, chi le detterà per il futuro per la nostra professione? Noi Psicologi? Non credo.