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Mancano ormai poco più di due mesi alla scadenza, fissata per il prossimo 13 agosto, per l’emanazione del decreto del Presidente della Repubblica con le linee guida per la riforma degli Ordini professionali.

Secondo l’ennesimo annuncio delle Agenzie di Stampa, il ministero della Giustizia Severino intende portare all’attenzione del Consiglio dei Ministri della prossima settimana un decreto che demanderà l’attuazione della riforma agli stessi Ordini professionali. Questi ultimi dovranno predisporre, entro altri sei mesi, dei regolamenti con cui recepire le linee guida del Ministero ed adeguarsi ai principi riformatori definiti dalla recente normativa i cui cardini sono (come abbiamo già avuto occasione di raccontare):

  • la pattuizione scritta del compenso,
  • la facilitazione dell’accesso alla professione,
  • l’assicurazione obbligatoria,
  • la liberalizzazione della pubblicità,
  • l’obbligo di formazione continua;
  • la remunerazione del tirocinio (ma non nel caso delle professioni sanitarie come la nostra).

Un’ulteriore ed un grande ridimensionamento degli obiettivi di una riforma che dovrebbe modernizzare profondamente il Paese e dare più fiato ai liberi professionisti che concorrono alla ricchezza nazionale per il 15% del PIL.

Risulta paradossale che proprio agli enti ordinistici – che sono burocratici, protezionistici, brontosaurici – si chieda di autoriformarsi: come se davvero ci si aspettasse che gli ordini da soli possano corrispondere alla necessità di cambiamento, di innovazione che si reclama.

Diverse associazioni di professionisti hanno formulato le loro proposte ed ipotesi di riforma che, a quanto pare, il governo non intende recepire preferendo – bertoldescamente – chiedere agli ordini a quale albero vorrebbero farsi impiccare.

Eppure è evidente che alcune coraggiose innovazioni sono necessarie per consentire il rinnovamento e garantire, con la qualità delle prestazioni, la sopravvivenza economica dei quasi 100.000 Psicologi.

Ad esempio, AltraPsicologia, con le associazioni rappresentative di altre categorie di professionisti, ritiene che sia inutile parlare di equità e lotta alla disoccupazione giovanile finché si consente ad alcune tipologie di iscritti agli ordini di  esercitare in oggettive condizioni di straordinario vantaggio rispetto agli altri. Ciò accade per migliaia di psicologi che, ad esempio, essendo dipendenti pubblici hanno il vantaggio di esercitare in condizioni di maggiore tutela o, con il meccanismo dell’intramoenia, di avere un canale di accesso privilegiato all’utenza senza il rischio di dover sostenere una sede fisica; qualcosa di simile accade nel caso dei docenti universitari che esercitano contemporaneamente la professione, con la protezione e il vantaggio della sicura retribuzione e della visibilità dovuta all’incarico.

Altre categorie si stanno battendo perché l’iscrizione all’Ordine sia riservata ai soli liberi professionisti e che i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato siano iscritti in un elenco separato ed abilitati ad esercitare solo per i datori di lavoro.

Nella nostra professione questa innovazione porterebbe ad un sicuro beneficio per i colleghi più giovani e ad una concreta azione anti-casta, visto il monopolio della professione che i baroni, solitamente provenienti dal mondo della pubblica amministrazione, protetti e garantiti dalla loro appartenenza istituzionale, esercitano da sempre sulla categoria.

Il governo sembra, invece, voglia lasciare che siano gli ordini stessi ad autoriformarsi. Che sorta di autoriforma potrà mai mettere in campo l’Ordine degli Psicologi, da sempre controllato e governato dagli psicologi dipendenti pubblici indirizzati dal loro sindacato AUPI? La bassa percentuale di votanti favorisce questa gestione che non è più rappresentativa della comunità degli Psicologi: è necessario che i liberi professionisti siano maggiormente presenti, anche al momento del voto.