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In questi mesi (inizio 2022) il CNOP sta discutendo, nelle proprie commissioni, della riforma del Codice Deontologico e del procedimento disciplinare.

La deontologia e le procedure disciplinari riguardano tutti noi.

Per cui credo fermamente che ogni decisione debba fondarsi sul massimo confronto possibile, aperto e pubblico.

Questo è avvenuto quando il Codice Deontologico è stato scritto e quando è stato modificato.

Per cui non lasceremo soli i colleghi e le colleghe impegnati in questo importante lavoro, ma li accompagneremo per tutto il percorso anche con contributi pubblici.

LA COMPOSIZIONE DELLA COMMISSIONE DEONTOLOGICA

Premesso questo, qui mi vorrei occupare di una delle tante questioni sul tavolo: la composizione delle commissioni disciplinari, quelle che negli Ordini regionali svolgono la valutazione delle violazioni commesse da colleghi/e.

Il tema è se debbano essere interamente composte da persone diverse dai consiglieri, per analogia con la separazione dell’accusa dalla funzione giudicante che è tipica del procedimento penale.

Più in generale, non mancherò di evidenziare anche qui che una procedura disciplinare di qualità è una garanzia per tutti, professionisti e cittadini.

LA CASSAZIONE

La questione era già emersa in un ricorso giunto fino in Cassazione.

In quella occasione, la Cassazione scrisse che “essendo il procedimento disciplinare di natura amministrativa (Cass. 4188/2004) sono inapplicabili le norme sulla composizione dei collegi giudicanti dettate per i procedimenti giurisdizionali (Sezioni Unite 15404/2003)”.

Come a dire: il fatto che nel procedimento penale ci sia una separazione, non significa che debba esserci anche nei procedimenti deontologici.

LA LEGGE 3/2018

La legge 3/2018 che ha riformato le professioni sanitarie ha però riproposto la questione.

Dice l’articolo 4 che gli Ordini “separano, nell’esercizio della funzione disciplinare, a garanzia del diritto di difesa, dell’autonomia e della terzietà del giudizio disciplinare, la funzione istruttoria da quella giudicante”.

Ma questa parte della legge 3/2018 non si applica agli Ordini degli psicologi.

Se si applicasse, allora andrebbe applicata in toto: dovremmo ad esempio eleggere un ‘consiglio direttivo’, o una ‘commissione di albo’, poter votare la sfiducia al presidente, avere un collegio dei revisori.

Insomma, non possiamo ispirarci solo a ciò che più ci piace, smontando le leggi a pezzetti come si fa con i Lego.

LA LEGGE 56/89

A monte di tutto, esiste però un impedimento tombale: la legge 56/89 che ha regolamentato la professione di psicologo è esplicita, sulla funzione disciplinare.

Essa sta in capo al Consiglio dell’Ordine, che “inizia il procedimento disciplinare” (art. 21 comma 1 legge 56/89) e “adotta i provvedimenti disciplinari” (art. 12 lettera i) legge 56/89).

Per gli psicologi, per la legge 56/89, il Consiglio dell’Ordine è inizio e fine del procedimento disciplinare.

In mezzo, nella raccolta delle informazioni, finanche nella formulazione di un’ipotesi, ci può lavorare chiunque, anche il figlio del lattaio.

Ma le due azioni fondamentali – avvio e giudizio – devono essere svolte dal Consiglio dell’Ordine.

La terzietà e il diritto di difesa possono peraltro coesistere tranquillamente anche con un procedimento svolto interamente dallo stesso collegio, se il procedimento è ben strutturato.

La terzietà può essere garantita, ad esempio, da una fase istruttoria in cui siano presenti anche tecnici esperti (giuristi, avvocati) come avviene in molte regioni.

Così che la decisione finale, pur presa dallo stesso collegio che ha avviato il procedimento, sia fondata su una collezione di elementi tecnici con un proprio grado di indipendenza.

E il diritto di difesa potrebbe essere garantito, molto più di ora, dalla massima libertà per l’iscritto/a di farsi assistere da chi vuole, prevedendo la figura dell’esperto in luogo del solo legale o iscritto all’albo degli psicologi.

UN REGOLAMENTO DISCIPLINARE UNITARIO

Sarebbe forse utile, piuttosto che arrovellarsi per ore su questioni non risolvibili senza modifiche normative, cercare soluzioni pratiche e che possano essere accettate da tutti gli Ordini regionali.

Perché mi pare questo, alla fine, l’obiettivo politico di tutto questo lavoro: una procedura disciplinare uniforme dalla Sicilia alla Val D’Aosta che sia l’esito di un sereno e approfondito processo di costruzione.

Un regolamento disciplinare unitario darebbe la massima garanzia di qualità dei procedimenti disciplinari e di solidità di fronte ai ricorsi.

Un tale risultato può essere raggiunto solo elaborando insieme un regolamento disciplinare che tutti gli Ordini possano volontariamente adottare come strumento di lavoro.

Va da sé che un tale risultato si raggiunge solo producendo in modo ampiamente condiviso un regolamento disciplinare di ferrea qualità.

Un regolamento accettabile dovrebbe almeno occuparsi di:

– Stabilire in modo chiaro e semplice fasi e attori.
– Definire i tempi del procedimento e la prescrizione, così che l’iscritto non resti appeso in eterno, e i fatti meritevoli siano sanzionati in temi congrui.
– La tutela del diritto di difesa con l’introduzione della figura dell’esperto.

Ma soprattutto, un regolamento disciplinare dovrebbe essere chiaro e comprensibile ai destinatari: i cittadini, gli psicologi, le commissioni disciplinari, i consigli degli Ordini.

Si tratta del principio di accountability, e se vogliamo di responsabilità sociale.

È questo, forse, l’obiettivo più importante da raggiungere. Dal suo raggiungimento avremo una misura diretta della qualità delle nostre istituzioni.