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Prendo spunto dal libro appena uscito dell’amico e collega Fabrizio Rizzi; “Dottore in carne ed ossa. Libretto d’istruzioni emotive per aspiranti psicoterapeuti” Clinamen Editore, per argomentare su un tema messo sotto silenzio.

Il libro è davvero utile e assai godibile, ma le sue principali qualità, oltre queste, sono la sua onestà intellettuale (mostra dubbi, limiti, contraddizioni della persona reale dello psicoterapeuta e non di quello ri-costruito nei casi clinici) e la sua capacità di prendersi cura della professione e delle giovani generazioni di colleghi, fatto raro nel nostro panorama.

M’ispiro in particolare ad un capitolo il cui titolo non lascia spazio ad equivoci: Curare non significa lisciare per il verso del pelo, che significa che non è utile né opportuno mostrare compiacenza e ruffianeria nei confronti dei propri pazienti nella prospettiva di ingraziarsi la loro approvazione o come se si volesse raccogliere la loro “soddisfazione” in quanto “consumatori di servizi”. Nella psicoterapia dunque non è detto che il cliente abbia sempre ragione, così come non è vero che la psicoterapia si debba fondare sul principio della esperienza emozionale correttiva e riparativa rispetto alle esperienze della vita e delle relazioni passate del paziente.

Queste sintetiche note qui riportate mi inducono, sulla scia della lucida veracità del libro di Fabrizio Rizzi, ad alcune riflessioni sulla realtà di innumerevoli giovani colleghi che intraprendono questa professione. Fabrizio non me ne voglia se lo utilizzo un po’ come pre-testo (con lui tra l’altro ne abbiamo anche parlato), ma ho pensato che i suoi giusti e puntuali ammonimenti se applicati al proliferante ed incontrollato campo del settore privato (Fabrizio lavora nel servizio pubblico) assumono ben altra rilevanza ed obbligano ad amare riflessioni sul presente e sul futuro della nostra professione.

Mi sono allora domandato: quanti sono i giovani colleghi appena specializzati o quasi specializzati che cominciano ad “incontrarsi” con i loro primi pazienti e a sperimentarsi in questo bellissimo e difficilissimo lavoro? Beh, il conto è presto fatto: molte migliaia. Tra di loro la grande maggioranza prosegue, in una sorta di galleggiamento, nel conservare i propri 2-3 o 5 pazienti per molti anni, e molto spesso, lo sappiamo tutti, moltissimi colleghi non vanno oltre. Magari, se sono fortunati, cominciano a lavorare mentre conservano in parallelo un altro lavoro (cameriera, informatico sono tra i più gettonati), oppure, se non lo sono, sperano d’incrementare il loro bacino di utenti, e sperano di coronare il loro sogno di poter diventare un giorno dottori in carne ed ossa. Si, perché per diventare uno di quei dottori in carne ed ossa di cui parla Fabrizio Rizzi ci vuole molto di più di una semplice frequentazione quadriennale di una delle 300 scuole del nostro territorio nazionale. Si cominci a dirla questa semplice e onesta verità, seppure risulti molto impopolare.

Mi sono inoltre domandato come mai non si parli nel nostro ambiente della ricattabilità di questa lunga condizione di precariato di tutti questi nostri giovani colleghi e non si parli, al contempo, delle conseguenze teorico-tecniche e poi cliniche di questo pesante scenario metacontestuale nel quale quasi tutte le nuove leve si muovono oramai da oltre dieci anni (e forse più).

Non c’è dubbio che uno psicoterapeuta instabile, precario, ricattabile, oltre che inesperto ed incerto (e mantenuto tale per innumerevoli anni), non è nelle condizioni di svolgere appieno il proprio lavoro. Il primo semplice motivo, e non certo l’unico, è che questo scenario stravolge e capovolge innaturalmente le condizioni per le quali dovrebbero essere i pazienti ad aver bisogno del lavoro dello psicoterapeuta e non viceversa. Chi sorvola o glissa su questo elementare principio contrattuale sociale non esercita, nonostante il nominalismo contemporaneo, alcuna psicoterapia.

Non c’è dubbio quindi che uno psicoterapeuta disperatamente dipendente da quei pochissimi pazienti che ha (non solo economicamente, ma anche per quanto riguarda la sua identità professionale) può facilmente attuare meccanismi, più o meno consapevoli, miranti a realizzare una loro artificiosa fidelizzazione (termine che non a caso importo da ambienti del marketing), una sorta di compiacenza che è intrinsecamente contraria al lavoro trasformativo che comporta ogni psicoterapia.

L’effetto domino che questa condizione, in tutti i suoi risvolti, ha sulle pratiche della psicoterapia è imprevedibile e visibilmente pericoloso per l’utenza, soprattutto se pensiamo alla dimensione macro che assume il fenomeno in questione.

Se esaminiamo questo scenario dal punto di vista delle possibili retroazioni e conseguenze che esso produce, ci rendiamo conto, forse con maggiore drammaticità, dello scempio a cui assistiamo.

Mi riferisco alla retroazione che la domanda formativa dello psicoterapeuta precario in formazione potrebbe produrre sull’industria formativa che, recependo tali bisogni, ne potrebbe assumere le logiche sussistenziali. Ne consegue che la sopravvivenza del sistema formativo e delle istituzioni psicoterapeutiche diventa immediatamente sovraordinato rispetto all’orizzonte etico-deontologico della professione.

Provo a riassumere e sintetizzare i passaggi interconnessi da me immaginati, ma che tutti noi intuitivamente possiamo facilmente visualizzare:

  1. scarsità di pazienti e condizione di precarietà e bisognosità dello psicoterapeuta in formazione e all’inizio della sua carriera e prolungamento di questa precarietà.
  2. necessità di fidelizzazione dei pochi pazienti disponibili: effetti di connivenza e collusione.
  3. forzatura su numerosi aspetti della tecnica e dell’analisi della domanda psicoterapeutica
  4. retroazione di questi bisogni esistenziali e sussistenziali sulle domande formative
  5. effetti conservativi delle istituzioni formative psicoterapeutiche i cui bisogni diventano sovraordinati e indipendenti rispetto alle finalità etiche della pratica psicoterapeutica
  6. abbassamento del livello qualitativo dell’offerta formativa psicoterapeutica e livellamento sulle logiche commerciali domanda/offerta e conseguenti effetti di retroazione e di promozione di domande e bisogni artificiosi
  7. effetti di modificazione delle tecniche e delle teorie delle tecniche psicoterapeutiche non a partire dalla ricerca empirica, né dall’esperienza clinica, ma finalizzate a corrispondere al mantenimento del sistema psicoterapeutico.
  8. distanziamento dalle problematiche dei pazienti e adulterazione delle finalità professionali

La circolarità nefasta qui esposta ha una sua chiara causa a monte nell’ingiustificabile gonfiamento della domanda formativa in psicoterapia, lo sappiamo, ma ancora non riusciamo a riflettere con la necessaria lucidità sulla catastrofe culturale annunciata ed in corso che riguarda la fatale squalificazione delle pratiche. E proprio pensando alla dimensione ubiquitaria e trasversale del fenomeno che certi nessi assumono valenza preoccupante. Penso alla forte competitività che esiste nella nostra categoria, penso alla patologizzazione/medicalizzazione dell’esistenza a cui si assiste in molti nostri ambienti, penso alla proposizione di modalità tecnicistiche o di modalità manipolatorie (indipendentemente dai paradigmi teorici di riferimento), penso infine alla squalificazione prossima alla cialtroneria che rischia di attraversare tutta la categoria.

Domandiamoci allora chi o cosa alimenta, direttamente o indirettamente, questa circolarità? Chi ne diventa più o meno implicitamente complice? E soprattutto: quanti sono i formatori di psicoterapeuti che illustrano agli allievi le reali possibilità di lavoro e le reali difficoltà connesse e quanti, tra di essi, monitorano e seguono da vicino i percorsi d’inserimento e d’inizio attività dei loro ex allievi?