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Nei dibattiti sul DdL Cirinnà si citano ricerche atte a confermare o meno la validità dell’una o dell’altra posizione, ma quali sono i dati di tali ricerche?

Cosa dice il web? Colpisce innanzitutto come i siti si concentrino per lo più ad elargire considerazioni personali, piuttosto che rendere noti dati di fatto scientificamente corroborati. L’impressione è che qualunque studio, ma anche affermazioni di persone di spicco fra gli ”addetti ai lavori”, rischi di essere strumentalizzato per avallare l’una o l’altra ipotesi. Questo, ovviamente, confonde l’opinione pubblica. Da qui l’idea di prendere in analisi alcuni studi per capire quali dati riporta la rete rispetto alle critiche ad alcune delle ricerche più citate.

Diversi enti hanno affermato che l’orientamento sessuale dei genitori è ininfluente rispetto al benessere dei figli: lo dicono una ricerca del 2006 dell’American Academy of Pediatrics (Aap), un celebre studio dell’American Psychological Association del 2005 e, nel panorama nazionale,  l’Associazione Italiana di Psicologia. Molti studi condotti negli ultimi 40 anni portano nella stessa direzione, come conferma il documento prodotto dall’Ordine Psicologi Lazio, a cura della Dott.ssa Paola Biondi, che raccoglie una rassegna della letteratura internazionale di riferimento.

Minori gli studi che portano a conclusioni opposte, cioè che l’orientamento sessuale incide, e negativamente, sulle competenze di un genitore e quindi sul benessere dei figli.

Uno dei più  noti è quello del 2012 di Regnerus (sociologo dell’Università del Texas di Austin), riportato sullo stesso documento dell’ordine Psicologi Lazio. Lo studio, come cita il sito “27esima ora” del Corriere della Sera del 4/11/12, 

“…è stato criticato dall’ American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, l’American Psychoanalytic Association…” (fonti più che autorevoli).

Lo stesso articolo afferma che: il campione dello studio era composto prevalentemente da famiglie a rischio (fattore predisponente per il malessere dei figli, indipendentemente dall’orientamento sessuale dei genitori); rientravano nel campione di famiglie omosessuali quelle in cui uno dei due partner aveva avuto in passato una relazione omosessuale, di cui non si valutava né l’intensità né la durata. Insomma, un campione ben poco rappresentativo.

Lo studio dell’APA del 2005 aveva l’obiettivo di scongiurare le paure più comuni e sancire definitivamente che non sussistono differenze in merito alla salute mentale di figli di coppie omosessuali rispetto ai figli di coppie eterosessuali. È stato criticato da Loren Marks (come riporta il documento a cura di Paola Biondi), sociologa dell’Istituto di Ecologia Umana dell’Università statale della Louisiana. In particolare, i vizi metodologici dello studio sarebbero: tendenza a scegliere per il campione persone di etnia non precisata (oppure solo bianca o caucasica), prevalentemente istruite e di ceto medio; campione di famiglie eterosessuali di cui non è specificato se si tratta di coniugi, conviventi, prima unione o unioni successive alla prima;  poca attenzione al benessere psicologico dei figli nel tempo lungo (non considerando comportamenti come assunzione di sostanze, comportamenti delinquenziali, etc).

Questi fattori possono essere un limite dello studio dell’APA, ma non ne inficiano la validità. Il campione dello studio sarebbe potuto essere più rappresentativo, considerando altre etnie, ma ogni ricerca ha dei limiti fisiologici. Tra l’altro, per valutare come il solo orientamento sessuale incida sulle competenze genitoriali, è bene escludere che intervengano altre variabili caratteristiche dei genitori (profilo delinquenziale, psicopatologie, fattori di rischio in genere); ciò spiegherebbe l’omogeneità del campione (composto da persone istruite, di  ceto medio, non appartenenti a minoranze etniche o di etnia non precisata). L’obiettivo era un confronto tra genitori omosessuali ed eterosessuali, come inciderebbe a tal fine una distinzione tra genitori sposati e conviventi? Lo studio, infine, non era longitudinale, quindi non considerava i comportamenti a rischio dei figli adulti, ma fattori come l’identità sessuale (molto sentito nell’opinione pubblica) e la percezione di sé dei figli in fase di sviluppo.

Alcuni siti riportano testimonianze traumatiche di figli di omosessuali, oggi adulti (Dawn Stefanowicz e Robert Lopez hanno rilasciato interviste e scritto libri in merito, altre interviste sono riportate sulla rivista “Tempi” del 26-04-2014). Queste persone si dicono traumatizzate nella loro infanzia per avere avuto dei genitori omosessuali e raccontano di esperienze familiari in cui c’era una chiara promiscuità sessuale, carenza di confini rispetto alla sessualità, separazione dei genitori naturali. Paradossalmente, è proprio un’attenta lettura di queste storie che ben rappresenta come il disagio di un figlio nulla abbia a che fare con l’orientamento sessuale di chi li alleva.

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 Ma allora qual è il ruolo dello psicologo su questo tema? Empatizzare con qualunque utente porti una storia di figlio sofferente, certo; confrontarlo sulle reali motivazioni del suo dolore, sui suoi bisogni e timori… E poi? Poi c’è l’utenza più ampia, quella fuori dal nostro studio. Abbiamo il compito di fornire alla cittadinanza elementi per “fare pulizia”, per capire, conoscere, per avere elementi di valutazione sull’attendibilità delle fonti citate, per non essere strumentalizzati, o esserlo il meno possibile. Proprio adesso che la nostra professione è spesso poco remunerativa e poco riconosciuta, a maggior ragione, questo è non solo parte del nostro lavoro, ma anche occasione per dimostrare come possiamo essere utili ad un’utenza vasta, oltre a quella del “lettino” da psicanalisi.