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La cronaca spesso fa orrore. A peggiorare la situazione c’è il susseguirsi di commenti da tuttologi che fanno rimbalzare attraverso i social una tragedia fino a perdere spesso i confini del fatto.

Sulla morte di un neonato in ospedale si è scatenata polemiche, molte insensate, sulla retorica della maternità, cui neppure il CNOP si è sottratto.
Speculando sulla tragedia, ha pensato bene di capitalizzare il dramma per chiedere maggiore assistenza psicologica alle madri negli ospedali perché, si legge nella nota “diventare madre non è una questione solo fisica ma psicologica”.

Sembrerebbe, a detta del CNOP, che una madre, dopo 17 ore di travaglio e due notti insonni, se si addormenta abbia bisogno di aiuto psicologico.
Insomma la colpa è di quella donna che non è diventata psicologicamente madre? Che modello di madre? Un modello sacrale e totemico di perfezione dell’azione e del ruolo.

Se la psicologia deve servire a questo, negli intendimenti del CNOP, piegare la professione per far “diventare madre” aderendo ad un modello di perfezione così inarrivabile da non poter far altro che generare senso di frustrazione, di colpa e di insufficienza, allora propongo che l’abito professionale sia ispirato d’ora in poi alla toga di Torquemada.
Perché questa distorsione della psicologia mi pare lontana dalla promozione del benessere e della salute psicologica e relazionale delle persone e della società.

Nella mia esperienza professionale di psicologo e mediatore familiare ho avuto la fortuna di ricoprire per svariati anni il ruolo di Pubblico tutore dei minori della Regione Friuli Venezia Giulia e di essere per sei anni membro della sezione minori della corte d’appello.
Esperienze che mi hanno messo a contatto che una notevole quantità di situazioni ed esperienze diverse di maltrattamenti, abusi e di storie familiari estremamente complesse e drammatiche.

Ne ho tratto anche io il convincimento che nel sistema dei servizi manchi un vero sostegno psicologico, ma non semplificato e banale come lo sta spacciando il CNOP, che sembra solo orientato a dilatare il numero delle persone impiegate senza per nulla ragionare sul ruolo e significato che il tanto declamato supporto psicologico dovrebbe avere, su quali competenze tecniche siano necessarie e a quali livelli si dovrebbe collocare, magari agendo su più sistemi e non solo sull’utente del servizio.

Ho dovuto incontrare più volte situazioni cliniche e sociali pesanti di donne devastate dall’impatto con le strutture ospedaliere, preposte a seguire gravidanza e parto. Ogni caso dovrebbe far storia a sé, ma certe situazioni si ripetono e le rilevo io da clinico, ma restano per lo più inconsapevoli ai loro stessi protagonisti, prime vittime del totem della madre perfetta.

La retorica del “dolore necessario nel parto”, (quasi che oggi fossero le strutture ospedaliere e i loro apparati clinici a dover dare esecuzione al comando divino: partorirai nel dolore) quanti traumi produce?

Nascere non è solo un fatto biofisico; è soprattutto un fatto culturale, e intendo culturale in termini complessivi, cioè di un insieme di valori, significati, scelte, organizzazioni, che sono al contempo private e pubbliche, individuali e collettive. Se c’è bisogno della cameretta per il bambino che arriva in famiglia, c’è bisogno anche di una precisa organizzazione sanitaria e ospedaliera. Se c’è bisogno che i novelli genitori sappiano ascoltare i bisogni dei loro figli, c’è altrettanto bisogno di una struttura di servizi che sappia ascoltare i bisogni di una famiglia.

Il contributo dello psicologo non può limitarsi ad un sostegno psicologico alla madre, come fosse l’unica responsabile di un processo così complesso come il metter al mondo i figli. Il professionista della salute e del benessere psicologico deve poter dire la sua anche e soprattutto nella costruzione della struttura: cioè organizzazione, spazi, dotazioni e procedure, valori e messaggi che permettano il benessere.
Se lo psicologo è solo al sostegno della medicalizzazione, o se è utile solo di fronte alla patologia, allora non ha un vero senso di tutela del benessere, anzi collabora alla generazione di fattori strutturali di stress.

Essere dalla parte della salute psicologica avrebbe imposto una riflessione più seria sulle ragioni che possono indurre una struttura medica a non ascoltare una richiesta, non data da difficoltà psicologiche, ma da semplice fatica, da sfinimento.

Ma il deficit di pensiero su questa vicenda è anche nell’uso delle parole.
Mi fa specie il CNOP usi la locuzione “diventare madre”, che tutta rappresenta il dovere di aderire ad un modello a cui si addiviene se sani o non si addiviene se si è malati. Chi governa la politica della professione avrebbe dovuto usare il verbo “essere”, perché ognuna è madre in un modo suo ed è madre per quel suo figlio o figlia.

Allora il sostegno psicologico di cui c’è bisogno per essere madre non sta prioritariamente in un colloquio da fare al consultorio per vedere se ci sono disfunzioni, ma nella discussione delle migliori prassi organizzative dei percorsi nascita che consentano uno sviluppo sano della relazione madre-bambino fin dai primi giorni, che rispetti le fatiche e le angosce e non proietti sulla donna il senso di colpa per il suo limite.
Insomma, quelle condizioni di contesto entro cui una relazione madre bambino possa fiorire come è giusto che sia.