Il Codice Deontologico degli Psicologi italiani proprio non gli piaceva.
Sarà che gli stava stretto il concetto di Deontologia, che mette un limite al lucro che si può ottenere dalla formazione degli impiegati del catasto alla ricerca di un lavoro diverso e più intrigante e dei panettieri sensibili e stanchi di svegliarsi così presto la mattina.
Sarà che sembrava tanto un’idea luminosa quella di usare un nome inglese per “proteggersi” dal legislatore cattivo che ha voluto – con la legge istitutiva della professione di Psicologo, la 56/89 – riservare a chi avesse una laurea specialistica la cura della psiche umana.
Insomma, sarà come sarà, quelli di Zerbetto & Co (ossia una parte del gruppo docente della scuola CSTG), che proprio ai corsi di counseling aperti a tutti non ci volevano rinunciare, “Ci hanno provato”.
Così, si sono dapprima scagliati contro la Carta Etica, iniziativa dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL) che partiva proprio dalla fucina AltraPsicologia e dal recepimento di centinaia di anomalie segnalate da studenti delle Scuole di Psicoterapia.
Nulla di straordinario, in fondo, solo che la Carta Etica riprende il Codice Deontologico degli Psicologi, ricordando che esiste un articolo – il 21 – che vieta di insegnare tecniche psicologiche a chi Psicologo non è. Banale, tranne per chi della trasgressione alla deontologia ha fatto un mestiere.
E dopo, hanno provato a confutare una determinazione apparentemente altrettanto banale: l’articolo 21 del Codice Deontologico va rispettato, ha ribadito l’OPL.
Apriti cielo! Eh,no, secondo Zerbetto & Co non poteva andare bene. E hanno chiamato l’OPL a difendere in tribunale la sua “banale” determinazione.
Salvo che il giudice di primo grado, invece di salvare gli interessi personali dei ricorrenti è entrato nel merito della questione e ha ragionato di diritto alla salute, della fede pubblica, della funzione di garanzia dell’interesse collettivo che ha la legge istitutiva della professione di Psicologo, concludendo, con una precisione e una chiarezza senza precedenti: “… poiché l’art. 1.1 della legge 56/89 stabilisce che ‘la professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento…’ l’insegnamento dell’uso degli strumenti a persone estranee equivale in tutto e per tutto a facilitare l’esercizio abusivo della professione, ciò che la legge e il codice deontologico tutelano direttamente, prescrivendo comportamenti attivi per impedirlo.” (qui l’articolo sulla prima sentenza).
Quindi, secondo il giudice, si ha addirittura l’obbligo di agire contro questo scempio della fiducia pubblica costituito dai corsi di counseling aperti a tutti, corsi che aggirano gli obblighi di legge per la formazione di chi vorrebbe effettuare un intervento che è Psicologico eccome, comunque lo si chiami.
A quel punto, Zerbetto e Co, anziché ritirarsi di buon grado hanno deciso di fare ricorso, con l’arroganza di chi pretende di avere ragione anche di fronte a tanta chiarezza.
Pochi, anche tra i ricorrenti di primo grado, hanno osato seguirli: l’impresa era disperata.
Il giudice di secondo grado, in Corte d’Appello, non è neppure entrato nel merito, accogliendo l’eccezione riguardante la “legittimazione attiva”, che è un pò come dire: ma che vuoi? Nessun diritto è stato violato, il Codice Deontologico è sempre lì ed è sempre valido. Se non lo vuoi seguire, padronissimo, come lo sei di passare al semaforo rosso: lo fai, ma se ti pizzicano ti becchi la sacrosanta sanzione che ti meriti e te ne stai muto.
I temerari ricorrenti, infatti, sono stati condannati a spese legali che superano i 17.000 euro (e sono solo quelle della difesa).
E, come non bastasse, quasi in contemporanea ecco il secondo colpo di mazza: qualche giorno fa è comparsa in Parlamento una interrogazione parlamentare che pone (finalmente) la questione di cosa sia il Counseling se non Psicologia …
Il limite scritto nell’art. 21 del Codice Deontologico – oggi è ancora più chiaro – è a salvaguardia non tanto degli Psicologi ma soprattutto di quel valore superiore che è la salute pubblica ed è ora di finirla di svendere questo valore in cambio di qualche iscritto ad un corso in cui si banalizza e si contrabbanda la Consulenza Psicologica chiamandola con un nomignolo inglese.
Qualcuno mi dovrebbe spiegare una cosa.
La questione counselor pone urgenti riflessioni.
Il nostro ordine professionale è posto a tutela anche dei nostri interessi. Opera in esso la commissione deontologica ad esempio ed ha anche facoltà di sospendere chi non si attiene al codice deontologico.
Ora, visto che la questione counselor si colloca quantomeno in un caso delicato da analizzare ed eventualmente sanzionare, come è possibile che le scuole di formazione in psicot. abbiano continuato e continuino a formare counselor indisturbate?
E l’ordine nazionale cosa fa? Possibile che non si professi e non si esponga come quello della lombardia?
Cioè: se l’ordine deve richiamare il neo iscritto per una pubblicità ingannevole lo fa immediatamente.
Per questione molto più serie, dove, parliamoci chiaro si toccherebbero e richiamerebbero all’ordine persone ricche e potenti, tutto tace.
Vergognatevi! Sapete che vi dico? Anatevene tutti a fanculo. In primis il nazionale che prende solo soldi e fa qualcosa giusto quando è ora di ritirare lo stipendio.
Siete tutti dei venduti.
Il tuo commento mi ricorda Pasquale Amitrano in Bianco Rosso e Verdone, non è che siete parenti?
Dartagnan, ma tu mi cadi dal pero! E che non ce lo sapevi che er monno gira in questa direzione? Tu non sai allora che a seguito di questa sacrosanta posizione dell’OPLombardia si sta creando un mal di pancia in una considerevole fetta di colleghi, specie quelli più attempati (che si tirano appresso i loro stuoli di tirapiedi) che cominciano ad accusare quell’Ordine di talebansimo, di esagerazione, di eccessiva rigidità, illiberalismo. Quelli che stanno negli ordini sono gli stessi che pensano che gli ordini non contano un cazzo. Ti stupisci? Non c’è da stupirsi invece, perché gestire un ordine significa in sostanza fare il 90% di bassa burocrazia e un 10% di lobbing con le proprie clientele e consorterie. Questa è stata la gestione degli ordini fino ad oggi.
Un ordine che fa il suo mestiere dimostra almeno due cose: esiste un modo di gestire un ordine che non è inutile; gli altri ordini su questo argomento hanno giocato fino ad oggi molto volentieri a nascondino.
Non mi stupisco affatto.
Racconterò una storia. Inizia circa 15 anni fa a propormi ai medici come psicologo. Incontrai un medico autorevole che mi disse: “di voi psicologi non mi fido chiunque può iscriversi all’ordine”.
Non avendo argomentazioni per controbattere incassai per poi informarmi. Era vero. Bastava essere un laureato in lettere per iscriversi all’ordine e divenire psicologo. Era inoltre possibile essere anche accreditati come psicoterapeuti. Non ci credete? Informatevi! Ho conosciuto di persona anche psicologi psicoterapeuti che non avevano mai visto un’ora di lezione nè di psicologia nè tantomeno di psicoterapia! L’obbiettivo di questa manovra? Ovviamente riempirsi le casse e le tasche.
Oggi noi ci troviamo ancora a pagare questo scotto.
Chi é stato ad attuare questa manovra ? Non ne ho idea.
Oggi la commissione dentologica punisce ad esempio le pubblicità non corrette… eh certo va a discapito dell’ intera professione.
Peccato che fino a ieri loro su quella professione ci abbiano cagato con il solo scopo di fare cassa e guadagnare sulle spalle di chi quella professione se l’è pagata e sudata!
Non ci credete? Informatevi.
Almeno pretenderei le scuse da chi ha prodotto un danno per tutti gli psicologi e psicoterapeuti veri.
Chi è costui ? Dovrebbe fare Harakiri!!
trovo questa sentenza drammatica per la libertà di insegnamento nel nostro paese. L’unica cosa che posso concedere è che dovrebbe essere previsto l’accesso ai corsi di counseling solo a chi è almeno laureato triennale, giusto per vaer letto qualche libro e scritto due righe….il diploma, magari conseguito decenni prima, mi pare poco. Non che la triennale metta al riparo da chissà cosa, ma comunque è qualcosa. Anche i tirocini in psicologia e gli esami di stato sono fuffa, però abilitano di fatto alla professione….c’è chi fa fotocopie un anno, scrive quattro boiate, ed eccolo insignito di numero di iscrizione all’ordine e lasciato libero….quasi peggio dei counselor. Ma vabbè. Ritengo cmq che la sentenza lasci il tempo che trova, Zerbetto & co. soldi ne hanno a palate, apriranno un altro corso di counseling per pagare le spese processuali
Ma io mi chiedo: come mai questi problemi sono così sentiti in Italia, mentre negli Stati Uniti, dove nasce il counseling, questi problemi non ci sono?
Si rischia di iperegolamentarsi, quando basta cambiare paese.
Il risultato di tutto questo, se da una parte è la tutela della salute pubblica (anche se è ancora tutto da dimostrare la prevedibilità dello sviluppo psicologico, esclusi fattori estremi, tant’è che nessuno psicologo si azzarda a fare prognosi sui *normali*, dato che esiste un *sistema immunitario mentale* chiamato resilienza che solo adesso è oggetto di studio da parte della psicologia), dall’altra ci sarà un impoverimento della categoria con conseguente riversamento sulla psicoterapia di una marea di gente, che verà formata indiscriminatamente, per il solo fatto che finanziano le varie scuole di formazione. E anche questa, dicamocelo, diventerà un problema di salute pubblica.
Perché in Italia è una guerra tra poveri?
Scusa ma te sei uno psicologo? Mi spieghi meglio, non ho capito.
Ogni volta che leggo che l’Ordine serve a “tutelare la salute pubblica” mi viene un conato di vomito. Ma voi sapete che studi metodologicamente adeguati dimostrano che gli iscritti alle scuole di psicoterapia (quindi futuri psicoterapeuti, visto che la bocciatura non è prevista) mostrano in media caratteristiche di personalità ai limiti del borderline più che nella popolazione generale? D’accordo che l’adagio comune dice che per capire i matti un pò bisogna esserlo, ma i dati sono stati discussi dall’APA statunitense qualche anno fa e la platea era basita….riflettiamoci.
Saresti così cortese da darmi i riferimenti precisi di questi «studi metodologicamente adeguati» di modo che possa leggerli prima di riflettere? Se si tratta di materiale dell’APA presumo si riferisse al contesto statunitense. Che cosa intendi esattamente per «caratteristiche di personalità ai limiti del borderline»?
Ciao Luca, se quanto scrivi riguardo agli iscritti di scuole di psicoterapia fosse vero (e io ci credo), ti propongo la seguente riflessione…..
“perchè chi si iscrive alle scuole di counseling non potrebbe avere gli stessi sintomi/bisogni?”. Se non altro chi fa un percorso di psicoterapia un minimo di “analisi personale didattica” deve averla fatta!
Hai ragione Max, ed infatti anche le scuole di counseling prevedono obbligatoriamente un percorso personale (alcune individuale, alcune in gruppo) oltre ad un cospicuo monte ore di supervisione (didattica prima, professionale poi). In effetti sono solo gli psicologi che, con la sola laurea in psicologia, non fanno un’ora di formazione su di sé.
Grazie Tommaso della tua precisazione, ma non mi risulta che le scuole di counseling ABBIANO OBLIGATORIAMENTE un percorso personale. Quella che avevo iniziato io non lo prevedeva, ma non è l’unica… haimé. Io sarei più dell’idea di ri-formare la formazione degli psicologi (che può sicuramente essere migliorata, non lo metto in dubbio!!!), piuttosto che alimentare sovrapposizioni e confusione di ruoli.
Ciao Max, hai ragione. Non tutte le scuole prevedono formazione personale, supervisione e tirocinio. A onor del vero la maggior parte delle scuole sì, e sono quelle che aderiscono a standard europei come quelli dettati dalla European Association for Counselling. La cosa sconfortante è che la quasi totalità delle scuole che offrono formazione quanto meno “discutibile”, è quasi sempre gestita da psicologi. Credo non vada fatta di tutta l’erba un fascio e credo che vadano salvaguardate importanti realtà che operano seriamente nella formazione di professionisti che, a vario titolo, operano nel campo del sociale.
Condivido le preoccupazioni espresse da Mario. Sull’onda dello “sdegno” si stanno buttando nel mucchio tutti: non solo i counselor, ma anche i pedagogisti, i mediatori familiari e chi più ne ha più ne metta.
Forse si potrebbe partire da quelle scuole gestite da psicologi che rilasciano diplomi di counseling per corrispondenza e dopo due giorni di frequenza…
E perché no…….
Ho letto con attenzione i vostri post e la relativa problematica dell’O.P. nei confronti dei counselor.Mi presento: sono una dottoressa in Psicologia indirizzo clinico (vecchio ordinamento cioè 5 anni obbligatori di Università).Laurea nel 2010… (studente lavoratore). Non ho fatto il tirocinio perchè la mia cara univeristà di Padova ha dediso che quelli del vecchio ordinamento,quindi molto fuori corso, non potevano svolgere tirocinio in strutture private tipo scuole di terapia e nemmeno all’asl ma solo in struttura ospedaliera..(perchè? boh,non me lo hanno saputo dire);in sostanza avrei perso un anno a fare niente…fotocopie forse. Non avendo soldi da buttare e nemmeno tempo ho deciso di non fare il tirocinio,in realtà avevo già in mente il percorso di counselor, ma il tirocinio mi serviva solo per tenermi aperte più possibilità nel caso in cui un giorno avessi deciso di seguire un corso di terapia.Pazienza.Ora seguo un corso di counseling integrato che prevede ore di lavoro personale ma non sono obbligatorie.C’è da dire innanzitutto che è una scuola di formazione,cioè ti formano,ti educano al counseling,ed è una cosa pesante dal punto di vista psicologico perchè devi scoprire tutto te stesso,lo devi mettere in “piazza” per essere letteralmente “distrutto”;tutto ciò in cui credo e su cui ho fondato la mia esistenza e che per me funge da boa,da punto di riferimento, quindi tutto ciò che ha a che fare con il mio sistema di valori viene abbattuto.Questo viene fatto perchè per svolgere bene il lavoro di counselor non bisogna essere “affetti” da pregiudizi e credetemi…ne abbiamo tanti e non mi riferisco ai soliti,come quelli verso le persone di colore o gli stranieri; i pregiudizi,cioè il giudizio emesso prima di conoscere una data situazione, possono essere molto più sottili,come credere che il tuo amico ritardatario sta ritardando ancora una volta perchè non si alza per tempo la mattina e magari ha avuto un incidente.Questa è la prima cosa che viene insegnata, a pensare che possono esserci più possibilità,sempre, ed è importantissimo nel lavoro non solo di counseling.Se sono convinto che tutti i meridionali non hanno voglia di lavorare e ho per cliente (attenzione: non ‘paziente’ ma cliente) un siciliano che mi dice di essere disperato perchè non trova lavoro,penserò subito che non ci riesce perchè non ne ha voglia. quindi il percorso di counselor,almeno quello della scuola che frequento io e che ha anche ottenuto riconoscimento dall’Associazione Nazionale Conseling in Svizzera,è tutt’altro che una passeggiata, e mi spiace per tutti gli Psicologi(che non hanno svolto un altro corso di formazione post lauream) ma loro questo percorso non lo fanno,così come non sanno condurre il benchè minimo colloquio,perchè il tirocinio non lo insegna.E’ proprio questo che mi meraviglia:come fa uno psicologo a lavorare?Dovrà pur seguire un corso di formazione in una qualsivoglia terapia,ma allora se è terapeuta perchè avere paura del counselor,che certo non può fare quello che fa un terapeuta..Infatti tante scuole di terapia hanno corsi di counseling.I terapeuti non temono il counselor.Un counselor non può andare ad indagare nel ‘profondo’,non può lavorare sull’inconscio del cliente,che quindi non può essere definito ‘paziente’:un counselor non può “guarire”.Può solo aiutare ad affrontare una situazione difficile,in fondo, siamo sinceri, tante volte la terapia non servirebbe proprio,ma solo qualche seduta per chiarire meglio le idee o dare il giusto significato a ciò che si sta vivendo.E’ per questo che la terapia personale non è obbligatoria.Inoltre la mia scuola non “promuove” sempre.chi non è disposto a mettersi in discussione non ce la fa ad imparare a condurre bene il colloquio.Inoltre mi lascia un pò basita il fatto che tanti psicologi si lamentino di questa concorrenza sleale secondo loro da parte dei counselor, ma questi sono tutti psicologi a indirizzo clinico?…mhhh o forse ce ne sono tanti che hanno trascorso gli ultimi tre anni di università a studiare psicologia del lavoro….e cosa ne sanno questi di disagio psichico o somatizzazioni?ne sanno di meno di un counselor non dottore in psicologia(almeno per quel che riguarda la mia scuola).Bisognerebbe chiarire meglio la posizione degli Psicologi che non hanno nessun altro titolo di studio o formazione.Un’ ultima cosa: parliamoci chiaro…l’Ordine non serve a tutelare chi si mette nelle mani di uno psicologo o terapeuta;un terapeuta manipolatore è difficile da scovare.Serve a tutelare gli psicologi?e da cosa?solo a non avere troppi concorrenti perchè poi è difficile trovare lavoro. ho scritto parecchio,ma non potevo non farlo vista la situazione. Grazie per la vostra attenzione.
E come si possono tutelare dalla manipolazione gli allievi di un «corso di counseling»?
Perdonami, Paola, ma da quello che scrivi sembra che ti stiano facendo il lavaggio del cervello senza anestesia ed, a giudicare da quanto ne vai orgogliosa, si direbbe pure che stia funzionando. Quando, come dici, avranno «letteralmente distrutto» tutto ciò in cui credi e su cui hai fondato la tua esistenza, da dove ripartirai per ricostruire qualcosa? Da quello che ti diranno “loro”?
Per essere una dottoressa in psicologia mi pare che tu abbia una concezione quantomeno “popolare” ed ingenua del pregiudizio e dei modi per gestirlo.
Spero che, a discapito della loro durezza, tu riesca a cogliere anche la sincerità delle mie parole ed a riconsiderare se “formare” (=dare forma) ed “educare” (=guidare, condurre) siano davvero compatibili con l’opera di minuziosa devastazione che descrivi.
Ti faccio i miei migliori auguri.
Che sia giusto o meno, utile o inutile, opportuno o controproducente, ciò che risulta importante di questa sentenza é l’aver evitato la penosa possibilità o meglio l’insulto e l’impoverimento delle sensibilità e delle intelligenze, di chi ne é dotato, del fatto indiscutibile che il counselling é materia psicologica e che non esistono due counselling uno fatto da psicologi e uno fatto da altri che hanno significato e caratteristiche diverse con la assurdità che verrebbero entrambi insegnati da psicologi con contenuti fatti da psicologi……
A parte che si potrebbe discutere per giorni e settimane se, in che misura e in che modo gli Ordini professionali (retaggio di una concezione della vita pubblica medioevale) di questo malaugurato Paese sono in grado e/o intenzionati a difendere gli “interessi dei cittadini” o solo quelli dei propri iscritti.
A parte che si potrebbe eccepire sulla non-logica di una sentenza che asserisce che l’insegnamento dell’uso degli strumenti propri dello psicologo a persone estranee “equivale in tutto e per tutto a facilitare l’esercizio abusivo della professione”. Come se insegnare a tenere in mano un trapano (o a interpretare un Codice) equivalesse a facilitare la professione abusiva di dentista, o di avvocato.
A parte che si potrebbe anche cercare di chiarirsi le idee su quali siano DAVVERO gli strumenti di lavoro dello psicologo e su cosa DAVVERO viene insegnato nelle scuole di counseling. Di quali strumenti stiamo parlando, poi? La tecnica del colloquio, tanto per fare un esempio? E se io insegno a mio figlio di 4 anni a dire “grazie” e “prego” – il che (di fatto) è una tecnica del colloquio – lo sto avviando all’esercizio abusivo della professione di psicologo?
A parte tutto questo. Ma c’era davvero bisogno dell’ironia facile, presuntuosa e classista dell’estensore di questo articolo? “Panettieri sensibili”? Ma come ti permetti? Cosa ne sai? Tu sei uno psicologo (FORSE) ma di certo non sei sensibile, né intelligente.
Uno psicologo.
Che dire? La prima sensazione è stata di tristezza. Professionisti della psiche o sedicenti tali, che hanno paura dei “panettieri”( termine con cui hanno definito alcune categorie di counselor). Ma cominciamo dal principio: il termine viene dal latino e dunque si scrive con una sola” l”, per cui spero che chi si accanisce tanto sappia almeno il significato di tale termine. Secondo in qualità di farmacista e farmacologa ( laurea quinquennale + quattro anni di specializzazione alla Sapienza) ho avuto gli insegnamenti più disparati della farmacologia e della medicina, in particolar modo della patologia medica cui la farmacologia si accompagna nella cura. Risultato: posso prescrivere solo farmaci da banco, integratori, alcuni omeopatici, tisane ecc. Dunque tali insegnamenti non sono serviti per fare diagnosi ma solo per capire. Signori ‘contro’ uno dei compiti piú importanti dello psicologo è quello di abbassare i conflitti ( o almeno nei mie lunghi anni di psicoterapia questo ho rielaborato, ma voi l’avete mai fatta?)
Vorrei raccontare un piccolo aneddoto. Appena laureata c’era nel mio ambito un’altra polemica di abusivismo: le erboristerie. I farmacisti erano arrabbiatissimi e ritenevano che questi non potessero svolgere tale lavoro in quanto esclusivo del farmacista. Sapete come è finita? È diventata una laurea breve e oggi convivono tutti insieme. Certamente la regolamentazione ha favorito dei limiti ben precisi e una preparazione uniforme ed adeguata. Questo credo bisognerebbe fare. Oggi le professioni non regolamentate sono passate alla camera, aspettiamo il senato( o volete legiferare voi nel frattempo) e che soave sia il decreto.
Cecilia (farmacologa, counselor, laureata in scienze e tecniche psicologiche).
Premetto che sono uno psichiatra che ha aperto una scuola di counseling. Se gli psicologi non vogliono insegnare nelle scuole di counseling, non ho nulla da obiettare. Se però immaginano che gli strumenti operativi del counseling siano di proprietà esclusiva degli psicologi, si sbagliano. I fattori di cura del sé o della persona sono trasversali a tutte le professioni di aiuto: insegnanti, filosofi, sacerdoti, pedagogisti, counselor, psicoanalisti laici, mediatori, coach, consulenti matrimoniali e familiari. La stessa psicoterapia funziona essenzialmente sulla base di quei fattori, e non per effetto delle competenze specialistiche così care alle varie scuole. Decenni di RCT (Randomized Clinical Trials) non sono riusciti a ricondurre i risultati delle diverse psicoterapie ai fattori specifici dei diversi metodi. Tutte le meta-analisi hanno confermato il verdetto di Dodo: tutti hanno vinto, tutti meritano un premio. Cioè, l’unica cosa certa è l’efficacia dei fattori comuni, trasversali alle diverse pratiche di aiuto. Nessuno ha mai dimostrato che queste pratiche sono più efficaci se somministrate da medici o psicologi (mentre Rogers già negli anni Quaranta ha mostrato che persone senza alcuna preparazione medica o psicologica ottenevano con il counseling risultati non inferiori alle più blasonate psicoterapie).
L’esercizio abusivo dell’arte medica o psicoterapeutica si configura solo nel caso in cui il counselor pretenda di curare dei disturbi patologici, come la depressione o gli attacchi di panico. Se invece il counselor non pretende di curare, ma si limita a prendersi cura, assieme al cliente, del suo disagio esistenziale (cura da cui eventualmente potrebbero derivare, in via indiretta, dei benefici per eventuali patologie concomitanti), non fa altro che avvalersi delle capacità di cura che sono competenza, diritto e dovere di ogni essere umano che capisca l’importanza di coltivarle. La laurea può essere un aiuto ma anche un ostacolo se, come talvolta accade, qualcuno immagina di essere capace di prendersi cura del prossimo solo perché ha una laurea in medicina o psicologia.
Ok, se l’esercizio abusivo riguarda solo le condizioni psicopatologiche, chi sarebbe in grado di riconoscerle, distinguerle ed operarvi differenzialmente? Un counselor non-psicologo in buona fede potrebbe operare su chiunque senza poter distinguere. Chi stabilisce le condizioni psicopatologiche?
In secondo luogo se il suo ragionamento regge alla prova delle confutazioni e se gli strumenti operativi della medicina come quelli della psicologia sono disponibili a tutte le professioni di aiuto, allora lei non avrebbe nulla in contrario, caro Tullio, se uno psicologo (un infermiere e perché no un counselor non laureato) in perfetta buona fede (e dopo un annetto di approfondimenti supplementari ad hoc) non si metta a fare prescrizioni farmacologiche?
Anche qui la laurea non rappresenta di per sé alcuna garanzia di qualità a sentire il suo ragionamento. Basta colmare qualche buco formativo qui e lì, in maniera sparsa… che dice! Io sarei anche d’accordo a liberalizzare la professione medica.
Non vogliamo parlare di lauree che secondo lei non sarebbero significative? Ed allora parliamo di anni di formazione effettiva. Esiste una riconoscibilità dei percorsi formativi nel formare professionisti di aiuto? A me non pare proprio. A me pare piuttosto che il bisogno non sia del mercato della domanda di aiuto, ma solo dell’offerta di formazione.
Volete saturare il mercato di professionisti di aiuto con una qualità ancora più low profile degli psicologi (già tendente al low) perché il mercato degli psicologi è in grande contrazione e chi si compra più i vostri corsi(etti)? Ed allora facciamo un bel Groupon della formazione ed apritelo pure alle licenze medie. Tanto che differenza c’è!
Ancora non avete capito, cari colleghi, che tutta questa guerra che sta avvenendo dipende dal mercato della formazione degli psicologi e non da una reale domanda sociale o da questioni di natura “scientifica”. E’ in corso una crisi epocale della formazione in psicoterapia, è qui che bisogna guardare per capire cosa sta accadendo e non certo alle presunte questioni teoriche.
Per garantire l’utenza forse la laurea e 15 anni di formazione non basteranno, ma almeno sono un punto di partenza, non credete? Per fortuna la magistratura ragiona in modo differente da molti di noi.
Lei sta dicendo che, dopo tanti studi meta-analitici, bisognerebbe cominciare a dire che la psicoterapia non funziona affatto come si pensava e che tanti psicologi si sono formati per anni per nulla?
@Davide se eri rivolto a me, non sostengo affatto quanto dici, ma controbattevo al pensiero di Tullio Carere.
chiedo scusa, era rivolto a Tullio Carere
Caro Aristogatto, scusa se ti do del tu: non darei mai del lei a un gatto, per quanto aristo (magari se ti firmi con nome e cognome potrei anche darti del lei, se vuoi). Ti rispondo per punti. 1. Il counselor non è tenuto a fare diagnosi, che del resto non è attrezzato a fare. (Ma, tra parentesi, quanto è attrezzato a farle uno psicologo? Che formazione ha uno psicologo per distinguere un disturbo mentale psicogeno da uno di origine organica? Era questo uno degli argomenti che i medici usavano — qualcuno lo usa ancora — per dimostrare che la psicoterapia è un atto medico, fuori della portata degli psicologi). Per qualsiasi disturbo il counselor rimanda il cliente al medico curante. Lui si occupa solo del disagio esistenziale, cioè del disagio che appartiene all’esistenza in quanto tale, la cui cura è — ripeto — competenza, diritto e dovere di chiunque ne capisca l’importanza. Se poi, grazie a questa cura, anche qualche patologia concomitante migliora, tanto meglio. 2. Caro Gatto, leggimi bene. Non ho scritto che “gli strumenti operativi della medicina come quelli della psicologia sono disponibili a tutte le professioni di aiuto”. Ho detto proprio il contrario. I fattori comuni della cura sono trasversali a tutte le professioni di aiuto, oltre che a tutte le relazioni di aiuto, a partire da quella genitoriale, e pertanto NON sono strumenti operativi specifici della medicina né della psicologia. 3. Per la cura della patologia nessuno discute la necessità della laurea. Per la cura del disagio esistenziale conta soprattutto la maturazione personale, intesa non come un livello di maturità X raggiunto e certificato da una laurea, ma come processo di formazione personale e interpersonale permanente che il corso di counseling può e deve attivare, ma che poi deve continuare a vita. Questo, almeno, è quello che le migliori scuole di counseling fanno. Non tutte, d’accordo. Ma lo stesso direi per le scuole di psicoterapia. In questa prospettiva nella mia esperienza una laurea può servire, ma può anche essere di ostacolo, quando sostiene l’illusione che la conoscenza sostanzialmente libresca guadagnata nei corsi di qualsiasi laurea sia veramente importante per la cura di sé e del sé.
Caro Tullio, prego, puoi darmi pure del tu (ma anche del miao, se preferisci), so bene che questo dibattito, con questi argomenti, è una noiosissima scena già vista mille volte che non si schioda dal suo polarizzarsi in posizioni speculari. So anche bene che se non fossimo in Italia questo confronto non avrebbe luogo, almeno in questi termini. Se non fossimo in Italia io non sarei nemmeno in questa posizione e non avrei bisogno di difendere alcunché.
Ma siamo in Italia ed io potrei continuare estenuantemente a confutarti dicendo che secondo me tra i mille fattori trasversali della cura a mio parere andrebbero annoverati la somministrazione di farmaci, i rimedi elementari di igiene, di cure primarie medico-infermieristiche, e tutti quegli atti operativi e tecnici che anche un non medico non solo è bene che conosca, ma anche sappia applicare (dopo opportuna formazione di base di un annetto). Del resto è quanto sostiene Illich in Nemesi Medica quando denuncia il professionalismo medico come una vera e propria piaga sociale, come falsificazione e come una strategica forma di espropriazione della salute pubblica, ed io lo condivido. Cosa sarebbe un medico senza i suoi atti tipici in Italia? E’ impensabile, vero? Infatti lo è, tanto è vero che i medici s’incazzano come aquile se qualche altro professionista sanitario prova a condividere il suo prezioso e redditizio territorio di atti e strumenti.
Ripeto, siamo in Italia, e con le attuali regole e con la storia, discutibile quanto vuoi, delle nostre professioni sanitarie “ordinate”, la partita non la stiamo giocando fino ad oggi alla pari. Lo psicologo ha dalla sua una lunghissima formazione (molto più lunga di chiunque altro quando è un vero psicologo, di almeno 12-15 anni) che non corrisponde ad una precisione dei suoi atti tipici (al momento).
Guardiamoci negli occhi, i miei di gatto, i tuoi di Carere-Comes: in tutta sincerità, tu davvero pensi che sia credibile affermare l’oggettività della differenziazione delle esperienze umane di disagio, esistenziale e psicopatologico, a fronte dell’indifferenziazione e trasversalità delle forme di aiuto? E perché mai questo ragionamento dovrebbe valere solo per gli (a scapito degli) psicologi e non per tutti? Tu davvero credi che il counselor-non-psicologo “rimandi” al medico o allo psicoterapeuta un cliente con qualcosa in più di un disagio esistenziale? E come se ne accorgerebbe? Suddai, siamo seri… sono diversi decenni che non credo più alle favole. Lo spezzatino di disagi e psicopatologie lasciamolo ai comitati scientifici collusi del DSM V.
Ed allora usciamo dall’ipocrisia della validazione pseudoscientifica di certi argomenti e diciamoci le cose come stanno: non esiste in Italia la necessità di creare nuovi professioni della cura oltre a quelle già esistenti, casomai c’è da migliorarle ed anche di molto, e differenziarle al proprio interno se necessario tanto da metterle in grado di intercettare tutte le forme di disagio reali, senza inventarne di nuove o spezzettare ad hoc quelle esistenti.
Si formino meglio gli psicologi e i medici ad intevenire in consulenze trasversali e pluricontestuali piuttosto che vendergli il pappone unico e monolitico della psicoterapia, come hanno voluto fare le generazioni della 56/89.
Questo presunto bisogno di nuove figure intermedie è dunque fittizio e trova ragioni SOLO ED ESCLUSIVAMENTE nel mercato della formazione, quindi in formatori come te e come molti altri, che devono ammortizzare le perdite dovute alla contrazione delle iscrizioni alle scuole di psicoterapia. Finita la pacchia e la bolla speculativa della psicoterapia, durata 20 anni, e finita quella overdose di quel mercato drogato, adesso si sta provando a gonfiarne un altro ad hoc di mercato con argomenti capziosi e fragili che fortunatamente la magistratura sta cominciando a riconoscere e smontare.
Gentile TCC (!?) e gentile Aristogatto,
in teoria tutto funziona, siamo d’accordo, ma poi bisogna guardare la realtà. Ecco, un’esperienza, la mia, di psicologo esperto in counseling da circa otto anni. Il counseling è davvero una “consulenza psicologica breve”, come recita il CNOP. Ed è molto particolare per un motivo: le persone che chiedono aiuto a un counselor a volte soffrono di disagio esistenziale, di una “crisi evolutiva”, ma a volte sono caratterizzate da patologie serie anche se subcliniche, e quindi “prendersi cura” di loro è più difficile, non più facile, rispetto a quello che capita con pazienti idonei al trattamento psicoterapeutico. E c’è una cosa che forse ignorate: molte di queste persone, proprio perché non hanno un disturbo conclamato e perché spesso hanno invece un quadro di personalità molto complesso, faticano a rivolgersi al medico curante, allo psicoterapeuta o allo psichiatra, cercando nel counseling una via diversa alle cure che spesso hanno rifiutato in passato o che hanno mancato il bersaglio. E’ una cosa che vedo di frequente, questa, e fa pensare che il counseling psicologico è utile ma E’ MOLTO PIU’ COMPLESSO di un intervento standard di tipo medico o psicologico. Attenzione quindi a lasciarlo a persone magari di buona volontà o magari anche un po’ approfittatrici, ma comunque scarsamente competenti.
Hai ragione Gatto, le scuole di counseling, come quelle di psicoterapia, sono anche un business. Ma non sono solo questo. Il tuo è un punto di vista legittimo su una realtà complessa. Chiedere a un felino di guardare le cose anche da un altro punto di vista è probabilmente chiedere troppo, ma alcuni umani ci riescono. In particolare quelli che si iscrivono alla nostra scuola di counseling debbono riuscirci, altrimenti non gli diamo il diploma. Il fatto è che uno dei compiti principali del counselor (come dello psicoterapeuta, è lo stesso) è quello di aiutare il cliente a schiodarsi dalle sue idee fisse. E se un counselor (o psicoterapeuta ) non è capace di schiodarsi dalle sue, che cosa pensi che riuscirà a combinare col suo cliente?
speriamo vi ricordate di stampare le fatture e di prendervi la responsabilità delle vostre arti mediche,
quando avete deciso chi buttare fuori dal club
o restate contribuenti fittizzi ed evasori, vero gomez…..
C
IL PERCORSO DELLO PSICOLOGO (Psicologi o no?)
Sono il dott. Carlo Lazzerotti, medico, psicologo-medico, psicoterapeuta, direttore della scuola “Soave sia il vento”.
Vorrei entrare nel merito dell’acceso conflitto che vede contrapposti psicologi, counselor, psicologi contro psicologi che insegnano nelle scuole di counselor, dandogli un senso non tanto legale rincorrendo leggi o sentenze che, strattonate secondo gli interessi personali, affermano l’opportunismo del nulla, quanto cercare, districandosi dalle apparenze, contenuti profondi e veri.
Come sempre si confonde e si vuole confondere. Si usa una verità apparente per nascondere una verità vera.
Il caso in questione è emblematico. Sto parlando dell’insegnamento nelle scuole di counseling, da parte di psicologi, di materie e di conoscenze, che appartengono esclusivamente allo specifico dello psicologo, a non psicologi adombrando il “reato” di istigazione alla professione da parte di non addetti.
Delle scuole stesse di counseling che formano professionisti counselor non laureati che si sovrappongono alla professione degli psicologi, adombrando il “reato” di abuso di professione.
Dell’uso di strumenti specifici della professione dello psicologo (test, colloquio clinico, ascolto attivo) ai non psicologi, denunciando tale “criminale” comportamento come prova evidente di reato di abuso di professione.
Questo è quanto viene detto, anzi proclamato a gran voce, anzi strillato in modo scomposto e spesso livido. E noi, siamo psicologi o no?, sappiamo bene che quanto più si urla, si minaccia, ci si muove scompostamente, tanto più è per nascondere, mistificare cose spesso indicibili e perverse.
Torno a ripetere siamo psicologi o no?
Tutte queste affermazioni si basano su un uso scorretto di una verità parziale che viene generalizzata per confondere e paralizzare. Tale affermazione categorica è: gli unici che possono occuparsi della psiche e delle scienze psichiche sono gli psicologi, in quanto depositari incontrastati del vero sapere psichico.
Sono laureati in psicologia, sono in possesso di un titolo, sono gli unici a possedere le conoscenze , il sapere, il fare. Hanno la laurea.
E’ falso, è profondamente falso, lo sappiamo bene, lo sanno gli psicologi stessi.
E’ storicamente falso. Quanti sono i grandi, i padri, che studiamo all’Università, che non erano né medici né tampoco psicologi?
Tanti…. e come la mettiamo?
E’ attualmente falso, perché molti “non psicologi” si occupano di avvicinarsi all’uomo in difficoltà e con il desiderio di star meglio: medici, infermieri, assistenti sociali, farmacisti, professionisti, insegnanti.
Dunque una verità reale, la laurea, ma parziale, viene generalizzata, proposta come assioma, come a-priori dato dall’alto, dall’istituzione, capacità acquisita, investitura divina e per sempre.
Questa definizione di essere data dagli altri, questo ruolo imposto da enti superiori è lo psicologo che viene invocato e millantato come unico professionista in grado di occuparsi della psiche.
Dunque è il ruolo che fa lo psicologo, non la persona che sa degli affetti, della profondità umana per averla affrontata e superata in se stesso che fa di quell’essere uno psicologo.
E’ il ribaltamento della verità. E’ l’apparire che sopravanza ed uccide l’essere.
E’ l’essere che viene negato, annullato, manipolato.
E’, come dicevo, una verità parziale che serve a nascondere un’altra verità.
Tale verità nascosta, in questa esasperazione del ruolo, è l’assenza dell’essere che dovrebbe sapere dello psichico e che così può essere più facilmente guidato e manipolato come pecorella mansueta.
Non sarà che il dott. “Nessuno” in questo momento ha bisogno di allargare il suo gregge ed è alla ricerca di pecore ubbidienti?
Non mi dire, povero pastorello, che non sai (o fai finta di non sapere) che quello che realizza l’essere è l’essere e non il vestitino che indossa.
Torno a ripetere, siamo psicologi o no?
Siamo scissi o dovremmo essere, in realtà, integrati o tendere costantemente ad essa?
Quello che fa di un medico un buon medico non è il suo sapere tecnico-scientifico ma è la sua maturazione umana ed affettiva che gli permette di costruire un valido rapporto medico-paziente.
Toh! Compare un termine che sembra sconosciuto leggendo i tuoi scritti.
Rapporto, l’altro estremo della coppia.
Rapporto, dunque affetto. Comprensione, capacità di sentire e partecipare.
Rapporto come integrazione fra sapere e persona.
Un buona insegnante è colui che offre il sapere desideroso che i giovani non solo sappiano ma crescano, maturino, diventino adulti.
E’ il rapporto, il rapporto, il rapporto.
L’altro estremo della coppia che non possiamo far finta che non esista o che sia dato per investitura.
E’ presunzione aprioristica millantare che l’acquisizione di un sapere generico, frammentario e confuso abiliti allo psichico, a poter sapere dell’uomo e sull’uomo, a poter rispondere al desiderio , alla rabbia, all’odio, all’indifferenza.
Non una parola, un riferimento, un accenno all’altro estremo della coppia, al suo essere mandato allo sbaraglio, al macello con l’unica difesa di un sapere astratto e nebuloso.
E si grida vittoria, si sventolano bandiere, si vogliono appuntare sul petto dell’eroe medaglie al merito, già si sbava per il ricco bottino che però…non si riesce a vedere, ad afferrare perché quello che non si conosce per chi non sa amare non esiste.
E’ la persona, la crescita personale, la maturazione che realizza l’essere con il suo sapere e saper fare.
Il rapporto di assistenza, di aiuto, di cura può esistere solo in presenza dell’altro estremo della coppia.
Se c’è solo astrazione, teoria, logica, l’altro estremo della coppia non c’è, è assente, è inesistente,
Dunque continuare ad affermare che tutto ciò che è psichico debba ritornare nell’alveo naturale degli psicologi è un’affermazione pretestuosa, superficiale ed ignorante di ciò che è veramente psichico.
Per questo motivo l’ingresso dello psicologo all’interno di una scuola di counseling deve essere espressa unicamente nei due seguenti versanti:
– Come allievo desideroso di apprendere, di acquisire un sapere e saper fare che lo possa avvicinare alla costruzione di quella capacità di rapporto a cui deve tendere: il poter essere sempre più l’altro estremo della coppia, vivo, presente e recettivo facendo comparire migliori capacità umane di comprensione che permettano nel rapporto anche all’altro di comprendere, di saper trovare la risposta. La trasformazione da un se scisso ed astratto in un essere integrato nelle proprie possibilità.
Allievo insieme ad altri allievi, anch’essi desiderosi di poter acquisire un sapere più umano, più completo che possa permettere loro un maggiore rapporto con quegli esseri umani con cui, per la loro professione, si confrontano: medici, infermieri, ass.sociali, farmacisti, avvocati, giudici, insegnanti, impiegati, amministratori di condominio ed anche, perché no, cuochi e panettieri.
– Come insegnante che ritrovato il proprio mondo affettivo lo possa, integrandolo al suo sapere teorico razionale, trasfondere agli allievi affinché anch’essi, nel suo percorso, possano realizzare il proprio.
Questo è sapere, questo è insegnare, questo è crescere e permettere che gli altri crescano.
Centrale e di base in questo discorso non è e non può essere l’apologia di una razionalità teorica, di un titolo che viene dato e che ci fa psichici, ma è in realtà la costruzione dell’altro estremo della coppia quello che ci rende realmente umani ed in grado di essere realmente in rapporto.
Nella nostra scuola “Soave sia il vento” la base imprescindibile è infatti la costruzione dell’altro estremo della coppia. E’ una terapia personale che permetta da una parte una maturazione affettiva ed il rifiuto della dimensione cieca (rabbia, odio ed indifferenza) che ostacolano ed impediscono il rapporto, e, dall’altra la capacità di poter essere in rapporto sapendo e comprendendo.
Soltanto in questo modo possiamo realizzare l’uomo psicologo, in grado di esserlo realmente.
Invocare un’appartenenza astratta ed imposta non ha dunque alcun senso.
Ne ha per chi approfittando dello smarrimento, dell’angoscia di tanti neo-laureate psicologi impreparati da un’Università che non prepara, che non si interessa realmente a loro ed a quello che sulla carta sono chiamati a realizzare, li utilizza ai propri fini di potere e di fama.
Allo psicologo, storpio della gamba affettiva, gli si appiccica un arto falso promettendogli gare vittoriose, ma che in realtà non lo potranno mai sorreggere.
Il nero dell’assenza viene imbellettato con la porporina del nulla.
A questa chiamata alle armi, per una guerra che interessa solo chi l’ha dichiarata, rispondiamo con fermezza rifiutando di essere manipolati, negati ed annullati come esseri in grado di pensare autonomamente.
Di pensare che oggi le scuole di counseling, in mezzo a tanto sfacelo di una crescita accademica che non è crescita, rappresentano per gli psicologi non solo una delle poche possibilità di lavoro reale, ma anche quella vera crescita umana e formativa che nessuna accademia o piccoli guerrafondai hanno saputo dare o desiderano dare. Per costoro tutto deve rimanere così: immobile, pietrificato, paralizzato ad imperituro potere di pochi parrucconi e dittatorelli guerrafondai.
Di poter pensare che se una battaglia deve essere fatta è per cambiare tutto ciò, pretendere che la preparazione sia realmente una preparazione che possa portare al vero psichico dello psicologo.
Di poter pensare alla verità umana che viene prima del medico, dello psicologo, del terapeuta.
Di pensare di poter scoprire che si può essere in rapporto proprio potendo riconoscere le differenze. Che si può collaborare integrando saperi diversi e riuscendo a crearne di nuovi.
Che si può essere counselor in quanto uomo in grado di essere in rapporto con l’altro e non in quanto psicologo o non psicologo.
Che ci possono essere gradi diversi di comprensione e di risposte, e, che una risposta proprio perché valida e dunque vera non solo risponde ad un desiderio di sapere, ma può aprire a nuove domande, alla ricerca di nuove strade, di ulteriori percorsi.
La risposta che il cliente trova in se, nel rapporto con il conselor, lo può portare non solo ad una desiderio soddisfatto che riempie e trasforma ma anche al nascere di nuovi desideri di ulteriori nascite come approfondimenti di sapere e conoscenza. Può cioè essere un gradino che rendendoci più consapevoli ci possa permettere poi il lungo viaggio nella terapia per scoprire nuove terre, nuove realtà, nuovi mondi, ulteriori viaggi.
E che….soave sia il vento.
Dott. Carlo Lazzerotti
?????????????????????
Oddio!!!! una pippa così lunga, senza senso, non l’avevo mai letta!
Ho già postato altrove le mie perplessità, ma a volte repetita juvant. A leggere le sentenze di Cassazione relative alla questione si rimane allibiti. In tutte quelle citate, reperibili sull’ultimo numero del Bollettino Nazionale dell’Ordine, si evince che tutta questa vicenda atterrebbe al “rischio” cui sarebbe esposta la salute pubblica (niente di meno) per il solo fatto di insegnare a non psicologi alcune materie tipiche ed esclusive della nostra progfessione. Bene, perfetto, condivisibile. Quali sono questi atti esclusivi? Da un lato la questione dei test. Sacrosanto. Nessun docente dotato di buon senso metterebbe in mano un test ad un non tecnico specializzato. Unica remora. Dopo i colleghi che formano Counselor (anche quelli che in maniera documentata non hanno mai trasmesso tali conoscenze? Anzi che hanno messo per iscritto il divieto per un Counselor di utilizzare strumenti diagnostici?) Perseguiremo anche i medici che nelle loro segrete stanze usano test in maniera più o meno empirica? I Consulenti aziendali non meglio specificati che a vario titolo fanno selezione, valutazione del personale con strumenti evidentemente di pertinenza psicologica? I Mediatori Familiari che in realtà spesso con una laurea in Legge o Giurisprudenza cercano di ovviare al bisogno delle coppie loro clienti di ascolto psicologico ed al proprio di non diminuire il fatturato? Infine, l’altro strumento “esclusivo” (cito) ovvero il “metodo del colloquio”………….ORA, qualcuno mi spieghi cosa vuol dire, se c’è, il “metodo del colloquio”…..la Cassazione ha ribadito che questo è strumento esclusivo, ma a cercarne una definizione operativa è peggio che andar di notte…..e le implicazioni? Cosa significa riservare agli psicologi il colloquio come “metodo”? Ma qualcuno se ne rende conto? A leggere le sentenze l’abuso si consuma quando l’utilizzo di questi strumenti “esclusivi” avvenga in maniera non occasionale, organizzata ed onerosa. Il ché significa che un Counselor che utilizzi abusivamente i sopradetti strumenti “esclusivi” non sarebbe comunque passibile di denuncia laddove esercitasse in casa, ufficialmente in maniera occasionale e presso una struttura, ad esempio, non dedicata, addirittura domiciliarmente o ancora presso struttura che solo occasionalmente ospiti interventi di ascolto…….Mi dite cosa ci sia da esultare? Abbiamo fatto lavorare qualche tribunale ed un folto numero di avvocati, animato un po’ di siti Internet e schierato le truppe……..ma ditemi in realtà, anche una volta arrivata (con ulteriori costi) in Cassazione, questa sentenza cosa cambierà? Credete davvero che l’On Binetti si ricorderà (lei, un Medico….) di una questione del genere e investirà la GDF o chi per essa di impegnarsi in questa lotta Don Chisciottesca contro il “Sistema” lobbistico italiano (di cui gli Psicologi non fanno certamente parte)? Credete che riterrà utile avanzare una proposta seria (come in parte quella che fu del Prof.Cancrini) sulla Psicoterapia convenzionata che diminuirebbe sostanzialmente l’uso e abuso di farmaci in Italia? Credete che riterrà utile indagare sulla corretta applicazione del Dlgs 81/2008 sulle malattie dal stress lavoro/correlate e sugli eventuali abusi commessi in azienda da medici del lavoro, consulenti aziendali ecc?? O l’On. Binetti cerca di ricavare sacche elettorali in vista delle prossime elezioni?
Abbiamo trovato un poveraccio e su di lui abbiamo spostato la nostra aggressività, trasformandolo in untore……e questa è la miseria della nostra condizione, umana e professionale……
Qui le battaglie o si fanno tutte o siamo dei quaquaraqua. Leggere l’intervento
di Salvini sulla “verita’” del Dsm…o sorvoliamo sulle questioni reali? Forti coi deboli e deboli coi forti? No, grazie!
Bene la doppia sentenza, male che l’Ordine non si sia mosso anche prima e per motivi tutti inerenti l’art 21. Bene auspicare che non si aprano i registri fa-da-te di professionisti vattelapesca. Però… Se è vero che esistono atti tipici della professione di psicologo che non dovrebbero essere lasciati ai counselor, ma di fatto… i counselor esistono, non è che almeno si potrebbero fare iniziative come anni fa fece l’ordine dei commercialisti laureati per distinguersi dai ragionieri improvvisati commercialisti? Io ad esempio ho seguito una scuola di counseling molti anni fa, e subito dopo mi sono laureato e abilitato psicologo, forse ce ne sono altri come me. Cercare di avvalorare l’idea che il “cliente” che cerca un counselor dovrebbe accertarsi che sia anche uno psicologo? E’ una idea folle? Io ci ho provato nel mio sito… così, a titolo del tutto personale…
Ottima idea dott.Nanni. Una buona soluzione per diventare counselor dovrebbe essere laurea triennale in psicologia + scuola counseling di 3 anni a taglio pratico-esperienziale con approfondimento del modello teorico prescelto. In 6 anni, cioè intorno ai 25, si avrebbe un profilo strutturato e adatto a iniziare la pratica professionale. Chi desidera specializzarsi ulteriormento potrebbe fare un scuola di specializzazione clinica quadriennale (o quinquennale addirittura). Ritengo la laurea specialistica in psicologia un doppione assoluto che andrebbe tolto. Chi si ferma alla triennale non può però fare lo psicologo, dovrebbe scegliere tra counseling (ad es non clinico) oppure psicoterapia (clinica) oppure un master di un anno per altre spcializzazioni. Che ne dite? Non vi sembra una soluzione potenzialmente adeguata?
Ma visto che l’ordine degli psicologi deve tutelare, perchè non inizia a tutelare creando una laurea che veramente serve a qualcosa, invece di far buttare anni di studi per cosa? 3 anni + 2 che non servono assolutamente a niente. Per avere reali conoscenze e competenze tecniche si deve fare una scuola di specializzazione in psicoterapia. Però dopo i 5 anni (anche dopo la laurea triennale) si può fare l’esame di stato e diventare psicologi…e i danni non si fanno se si fa consulenza? che competenze reali hanno i laureati di psicologia? Me lo domando perchè credo veramente di aver buttato i miei anni, visto che con la laurea non ho imparato niente, i libri me li potevo anche leggere da sola. La pratica dove è???
Almeno ci sono corsi di counseling dove fai pratica, sei obbligato a fare il tuo percorso personale e fai anche il percorso di gruppo, altrimenti non sei abilitato ad esercitare niente.
Quindi, caro ordine degli psicologi, e se si iniziasse dalla base a tutelare la salute????
Trovo terrbile questo modo di informare …
“17.000 euro di multa ai formatori di counselor”, ma quando mai?
Si tratta delle spese legali che il Gidice ha posto in capo ai soccombenti.
L’articolo è pieno di menzogne e inesattezze. Oltre ai toni arroganti e sprezzanti che si commentano da sé.
In primo grado, il Giudice ha detto che OPL ha il diritto di ribadire un articolo del Codice, e che è legittimo che l’Ordine vigili sul fatto che non si insegni l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento in ambito psicologico ad altri soggetti non in possesso del titolo professionale.
Il problema però è sempre la definizione di questi “strumenti conoscitivi e di intervento”. Il Giudice non è entrato nel merito. In nessun punto della sentenza di primo e di secondo grado si dice che è vietato agli psicologi insegnare presso le scuole di counseling a non piscologi, e men che meno si entra nel merito di quali siano le competenze che gli psicologi trasferiscono ai consuelor.
In secondo grado, il Giudice è rimasto sul piano formale, procedurale. Ha detto che ad oggi i ricorrenti non hanno subito procedimenti disciplinari, quindi non c’è una questione concreta. Finché non c’è un procedimento disciplinare, non c’è materia su cui il Giudice possa determinarsi.
Il secondo grado potrebbe anzi lasciar intendere che un contenzioso potrebbe vedere il Giudice entrare nel merito della questione (di rilevanza costituzionale) di un’eventuale conflitto fra l’art. 21 del codice deontologico e l’art. 33 della Costituzione.
C’è un problema di democrazia e di diffusione del sapere.
E’ vero che se fossimo all’estero questo problema non ci sarebbe; penso che in Italia si potrebbe, invece che farsi la guerra e creare un clima poliziesco e delatorio, pensare ad una riforma delle professioni d’area psicologica.
Su questo bisogna impegnarsi, attraverso un dialogo costruttivo che valorizzi l’interdisciplinarietà e valorizzi le differenze.
Il processo di trasformazione e dissoluzione degli ordini è inevitabile. Potrà essere più o meno lungo e sofferto, ma è sicuramente i lpunto di arrivo. Gli psicologi farebbero meglio a cavalcare questo cambiamento, invece di perdersi in queste diatribe.
Non mi sorprendo certo che si cerchi di adattare la realtà ai propri desideri, anziché i propri desideri alla realtà, tuttavia ritengo che generare confusione tra questi ambiti non sia salutare per questo dibattito (e per le persone che ci chiedono aiuto).
Come qualcuno ricorda, la Cassazione ha ritenuto in una sua sentenza che il “metodo del colloquio” sia elemento di terapia. Cito: “Nè può ritenersi che il metodo “del colloquio” non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che
non v’è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti un’attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l’anoressia) il che la inquadra nella professione medica” (sentenza n. 14408/2010). Ora di che parliamo qui? E’ abbastanza evidente che si parla di un “metodo del colloquio”, come qualcosa di ben definito. Qualcuno dice che non è così: ma un conto è colloquiare con una persona in una situazione informale, un conto è usare questo come metodo (e tutti i manuali e testi sul colloquio ne parlano ampiamente se li si va a vedere). Anche qui stiamo colloquiando, ma mica stiamo usando un “metodo”!
Ora: il counseling prevede proprio un numero di colloqui spesso definito con un setting e una tecnica definita. Bene, questo significa utilizzare un “metodo del colloquio”, non semplicemente colloquiare con una persona. E’ lecito quindi sospettare del fatto che il colloquio di counseling non sia del tutto distinguibile da una forma di psicoterapia o anche solo di sostegno (anche perché, tradizionalmente, come molti ricordano, Rogers o Rollo May facevano questo di mestiere). Questo basta per chiedersi se sia eticamente e giuridicamente corretto che un counselor tenga colloqui. Credo infine che proprio questo elemento potrebbe essere utile per definire come “atto tipico” della professione di psicologo non “colloquiare” (che è un’attività spontanea), ma “il metodo del colloquio” e le tecniche da esso derivate.
A margine faccio notare che nella sentenza si parla di “professione medica”. In Italia grazie ai numerosi sforzi durati molti anni, agli psicologi è stata riconosciuta la possibilità di accedere legittimamente a strumenti della professione medica, sotto l’etichetta “sanitaria”: questa, non dimentichiamolo, è una grande conquista per la psicologia non solo italiana, ma internazionale e come tale sarebbe veramente fuori luogo “svenderla per un piatto di lenticchie” a tutta una serie di attività professionali poco definite.
Caro Davide, giusto un paio di osservazioni. 1. La sentenza della Cassazione non parla affatto di un “metodo ben definito”, né potrebbe farlo, per il semplice motivo che questo metodo non esiste. Non solo le scuole di counseling, non diversamente da quelle di psicoterapia, applicano una grande varietà di modelli, ma poi ogni professionista continua a innestare sul tronco del metodo imparato pezzi di altre tecniche in tutto l’arco della sua carriera. Il risultato è che la frase “esistono tante psicoanalisi quanti sono gli psicoanalisti nella stanza” è altrettanto vera per la psicoterapia e il counseling. Il metodo impiegato da picoterapeuti e counselor è quindi quanto di più indefinito e indefinibile si trovi nell’ambito delle professioni. 2. Riprendo la tua citazione della sentenza della Cassazione: “Nè può ritenersi che il metodo “del colloquio” non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v’è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti un’attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l’anoressia) il che la inquadra nella professione medica” (sentenza n. 14408/2010). Vuoi dire che la Cassazione si riferisce nella sua sentenza a qualsiasi tipo di colloquio, purché sistematico e governato da un metodo? Evidentemente no, altrimenti anche la confessione della religione cattolica sarebbe un atto medico. In realtà la confessione è un atto terapeutico, ma non medico. Il sacerdote è un consulente spirituale in quanto si prende cura dell’anima, proprio come il counselor si prende cura della persona o del sé. Una delle definizioni più autorevoli del counseling è infatti “una pratica terapeutica non medica”. E come il sacerdote non si preoccupa di fare una diagnosi prima di confessare un fedele, inviandolo al medico curante nel caso questi chieda una cura per un disturbo patologico, lo stesso fa il counselor, premunendosi anche facendo firmare un consenso informato in tal senso. È ovvio che la consulenza, religiosa o laica che sia, può produrre anche indirettamente effetti benefici su ogni sorta di malattie, senza che questo cambi il suo statuto di cura non medica. A medici e psicologi rimane senz’altro la competenza esclusiva della terapia medica, vale a dire della psicoterapia condotta secondo il modello medico (cura di disturbi specifici con procedure empiricamente validate per la cura di quei disturbi). Ma la cura della persona con un approccio dialogico -processuale (o umanistico-maieutico, come preferisce chiamarlo Ciofi) è l’esatto opposto dell’ approccio medico cui si riferisce la Cassazione. Cordialmente
Grazie per questo intervento chiarificatore, Tullio. Lo condivido in pieno. A margine mi chiedo quale vantaggio traggano gli psicologi ad inglobare gli psicoanalisti.
Mi tornano alla memoria quelle tante “aberrazioni professionali” (davvero non so con che altro nome chiamarle) create dall’applicazione delle norme transitorie della 56/89.
Ci sono molti psicoanalisti che, pur non sapendo un tubo di psicologia (e, per inciso: non volendone sapere un tubo perché non interessati all’argomento), ma avendo avuto paura ad operare fuori dalla cornice ordinistica, si sono piegati a questa logica entrando nell’Ordine.
Ora, mi chiedo: cui prodest?
A chi giova avere all’interno dell’Ordine dei soggetti che non si sentono psicologi, che non hanno studiato psicologia, molti dei quali peraltro molto critici verso la psicologia, etc., ma che per poter lavorare in santa pace sono costretti a stare all’interno di una comunità cui non sentono di appartenere?
Parlavo con un collega psicoanalista (psicologo regolarmente iscritto all’ordine), non troppo tempo fa, il quale mi raccontava ridendo che, se andasse oggi in università a sostenere l’esame di psicologia generale, certamente lo boccerebbe…
Ma fatemi il piacere! Punto primo, il metodo del colloquio esiste e come, fate una piccola ricerca oltre a leggere le meta-analisi che non sono poi così univoche sul verdetto di Dodo (altrimenti non sarebbero neppure scientifiche). Punto secondo, la psicoanalisi è parte importantissima della psicologia scientifica, non una forma di terapia simil-religiosa, se si va oltre alcuni tristi figuri noti solo per l’esibizione mediatica. Ricordo infine che la legge ordinistica si deve a un signore, Ossicini, che era psicoanalista, sennò a quest’ora saremmo stati spazzati via.
Credo di capire che la vostra è solo una posizione ideologica negazionista, non certo pluralista. Chissà dove saremmo senza psicoanalisi e senza il colloquio clinico, forse ancora ai trattamenti idroterapici e all’idealismo dei filosofi.
Rogers e May hanno definito in maniera chiara quali sono gli ambiti di intervento del counseling, rispettivamente nel 1980 e nel 1990, quindi dopo averne sperimentato le potenzialità e le peculiarità lungo tutto l’arco delle loro carriere:
“La seconda parte del libro è incentrata sulle mie riflessioni ed attività professionali. La varietà delle loro applicazioni è indicata dai cambiamenti nella terminologia che contraddistingue le mie opinioni; il vecchio concetto di “terapia centrata sul cliente” ha lasciato il posto all'”approccio centrato sulla persona”. In altri termini non parlo più semplicemente di psicoterapia, ma di un punto di vista, una filosofia, un approccio alla vita, un modo di essere che si addice ad ogni situazione in cui la crescita – di una persona, di un gruppo, di una comunità – è compresa nelle finalità.”
C. Rogers, Un modo di essere, Psycho, Firenze, 1983, p. 6
“Oggi, strano a dirsi, in questo campo che è una sorta di ‘via di mezzo’ c’è ancora poca letteratura. Le librerie rigurgitano di libri divulgativi sulla psicologia e non mancano certo testi per chi sia interessato alla psicoterapia intensiva. Ma il bisogno più urgente rimane quello di chi non vuole diventare psicoterapeuta, e tuttavia ha l’esigenza di saperne di più sui percorsi interni della personalità. Questo bisogno è avvertito anche da chi non opera nell’ambito dell’educazione: medici che si trovano a dover dire una parola ai parenti di un defunto, o a parlare con i pazienti di argomenti intimi, avvocati che devono consigliare i clienti, e così via, per non parlare degli ambiti ovvii della religione e delle attività sociali. Anche chi opera nel mondo del lavoro desidera farsi una conoscenza su come trattare in maniera adeguata le persone. Fu così che quando l’Editore mi propose la pubblicazione di un’edizione aggiornata io accettai.”
R. May, L’arte del counseling, Atrolabio, Roma, 1991, p. 7-8
Credo che condividere (con rispettiva onestà intellettuale) le indicazioni che ci hanno lasciato coloro che del counseling sono considerati i padri siail punto di partenza fondamentale per creare una rete di professionisti della relazione di aiuto efficace, seria e veramente utile per le persone che si rivolgono a noi…
Caro Davide, di più sorprendente dell’aggressività che traspare dai tuoi post c’è solo la tua capacità di dare interpretazioni alla sentenza di Cassazione a dir poco fantasiose.
Dunque, secondo te, i supremi giudici hanno inteso dire che ogni colloquio (strutturato, che ha un suo metodo, etc.) svolto all’interno di un rapporto professionale, configura sempre un atto terapeutico?
Che mi dici del colloquio pedagogico? E di quello educativo? Anche quelli sono una forma di terapia? Sono atti medici?
Suvvia…
PS Ossicini, peraltro, è anche un medico psichiatra e un gestaltista. Poi, sì, si è anche avvicinato alla psicoanalisi…
Sorprendente questa sorpresa, evidentemente avvicinarsi alla psicoanalisi dev’essere ancora difficile per chi crede in “supremi giudici” agenti di cassazione/castrazione. Denegare invece la realtà costruttiva dell’interpretazione anche in giurisprudenza porta a precludere l’aggressività che è insita nei rapporti professionali e dunque a proiettarla nell’altro. Dunque, ignorare che l’atto terapeutico è insito nel colloquio proprio in quanto atto di parola, come mostra la psicoanalisi, significa forse negare che esiste una “violenza dell’interpretazione” a cui si oppone un counseling senza legge e senza psicologia?
Da un’intervista a Ossicini:
2) Quali motivazioni la spinsero verso la Psicologia nonostante la sua formazione medica?
R. Le motivazioni sorsero nella mia non breve esperienza di medico ospedaliero, quando mi accorsi quanto era profonda l’influenza della psiche sulla patologia e sulla terapia dei soggetti ospedalizzati. La formazione in psichiatria sorse dal bisogno di approfondire questi aspetti psicologici, ma la delusione fu profonda, quando mi accorsi che la psichiatria ufficiale, legata ad un orientamento rigidamente organicistico (e ad una cultura di orientamento positivistico) non mi permetteva di affrontare a fondo le dinamiche psicologiche specialmente nei rapporti tra coscienza ed inconscio. L’incontro con la psicologia moderna, con la Gestalt, e con la psicoanalisi fu per me decisivo per capire che nella psicologia moderna potevo trovare uno spazio teorico, clinico e nel campo della psicoterapia.
La prima cosa da tener presente sulla psicoanalisi è che Freud la voleva laica, cioè praticabile anche da non medici. E da non psicologi, avrebbe aggiunto oggi (Anna Freud e Melanie Klein non erano nemmeno laureate). La seconda è che Ossicini non si è mai sognato di includere la psicoanalisi nella psicoterapia che la sua legge riserva a medici e psicologi. C’è solo una sentenza della Cassazione che identifica la psicoanalisi come una forma di psicoterapia. Ma, come ho già cercato di chiarire e come si evince dal dispositivo della sentenza, questa vale unicamente per quella psicoanalisi che si pone come terapia (ad esempio la psicoanalisi che Kernberg propone come terapia dei pazienti borderline), e non per quella che dichiara esplicitamente di non proporsi obiettivi terapeutici, ma solo di conoscenza e maturazione personale (come ad esempio la psicoanalisi lacaniana). Se così non fosse, anche i preti sarebbero tenuti a prendersi una laurea in psicologia per poter tenere colloqui sistematici e metodici con i parrocchiani.
Alcuni psicologi immaginano di risolvere la questione complessa delle differenze tra psicoanalisi, psicoterapia e counseling facendo di ogni erba un fascio e dichiarando che tutto è psicoterapia. Ora, è pur vero che molte delle cose che si fanno sotto la copertura di quelle tre etichette si assomigliano, ma è ugualmente vero che ci sono differenze profonde non riconducibili a unità. Non mi riferisco tanto alle differenze tra le scuole, tipo psicoanalisi e comportamentismo (ci sono anche queste, ma è un altro discorso). Occorre prendere atto piuttosto di una profonda spaccatura che attraversa tutto il campo. Da una parte stanno coloro che intendono il loro lavoro come una pratica tecnico-procedurale (modello medico), dall’altra coloro che lo intendono come una pratica dialogico-processuale (o maieutico -umanistica). Benché le due pratiche possano essere ibridate in infiniti modi, resta il fatto che moltissimi professionisti (psicoanalisti, psicoterapeuti o counselor) – la maggior parte, direi – si riconoscono nel modello dialogico-processuale-umanistico e si sentono del tutto estranei a una pratica assimilata a una specialità medica, in cui disturbi specifici debbono essere curati con procedure empiricamente validate, o in cui solo quelle teorie che hanno superato il test della ricerca empirica hanno libero corso.
È innegabile, come notava il New York Times qualche anno fa, che è in corso una guerra molto aspra e dall’esito incerto. Da una parte i paladini della scienza (empirica), ben decisi a sottomettere i selvaggi oscurantisti che ancora pretendono di curare come si curava nel medioevo. Dall’ altra psicoanalisti, counselor e psicoterapeuti di diverse persuasioni teoriche ma accomunati dalla ferma determinazione a difendere una pratica basata sul dialogo e sull’ apertura a un processo sempre imprevedibile dall’aggressione proveniente dal campo scientista. Come tutti i conflitti, penso che anche questo possa avere esiti dannosi e distruttivi, ma anche favorire una maturazione in entrambi i campi. I talebani della scienza potrebbero superare il loro dogmatismo e capire che molto di ciò che è essenziale nella cura psicologica e spirituale dell’uomo non è afferrabile con le categorie della scienza empirica, e meno che mai con gli strumenti forniti da una laurea in medicina o psicologia. Dall’altra parte i professionisti di orientamento dialogico-processuale-umanistico potrebbero accettare la sfida che proviene dal campo della scienza empirica e non illudersi di poterla vincere con generici appelli a una scienza psicoanalitica “sui generis” o un’ altrettanto generica creatività, ma solo impegnandosi in un serio lavoro epistemologico fondativo di una scienza non oggettivante ma rigorosa della cura.
Mah, rilevo i soliti errori e luoghi comuni nel suo commento:
1) psicoanalisi laica significa praticata da non medici. E’ noto che Freud ritenesse i medici resistenti alla psicoanalisi
2) Freud e la figlia Anna proposero un iter di formazione di livello universitario per i futuri psicoanalisti: questo iter oggi è rappresentato al meglio dai corsi di laurea in psicologia – non medicina o altre facoltà.
3) Ossicini, su suggerimento di Musatti, voleva impedire la pratica truffaldina e selvaggia della psicoanalisi: a tale scopo fu pensato di riconoscere l’impegno e lo sforzo di tutti quegli psicologi che, pur non avendo un iter psicoanalitico, intendevano lavorare onestamente e con competenza.
4) Le maggiori istituzioni psicoanalitiche attualmente identificano primariamente la psicoanalisi con una forma profonda e a lungo termine di psicoterapia (non solo come psicoterapia per specifici disturbi). Il gruppo lacaniano, per motivi anche apprezzabili, difende l'”oro puro” della psicoanalisi da quelle che considera istanze politico-sociali antipsicoanalitiche.
5) La psicoanalisi a scopo conoscitivo (cosiddetta “didattica” da Freud) attualmente viene considerata con minor credito che in passato. In particolare, dati gli sviluppi psicoanalitici, si ritiene che la distinzione tra “psicoanalisi terapeutica” e “psicoanalisi didattica” non abbia più senso.
6) Il pastore e pedagogista Pfister, l’educatore Aichhorn e molti altri operatori nel campo della salute mentale sono lì a dimostrare che il lavoro anche non clinico trae grande vantaggio dalla formazione psicoanalitica.
Infine:
7) La psicoanalisi, dal tempo di Freud, si riconosce nella visione del mondo della scienza, che non è assimilabile al modello medico, in quanto la medicina non è una scienza, ma un’arte che utilizza strumenti scientifici. Il dibattito interno alla psicoanalisi “scienza naturale o ermeneutica” non travalica nel rifiuto della visione scientifica del mondo in favore di una pratica puramente umanistica o mistica. Per questo motivo, pur con dibattiti interni, esiste una ricerca empirica anche in campo psicoanalitico che lei, TCC, dovrebbe conoscere bene visto che lavora in questo settore.
Scusate ma quando A. Barracco dice “In nessun punto della sentenza di primo e di secondo grado si dice che è vietato agli psicologi insegnare presso le scuole di counseling a non piscologi, e men che meno si entra nel merito di quali siano le competenze che gli psicologi trasferiscono ai consuelor”
non sta forse dicendo che in questi corsi vengono insegnate tecniche psicologiche a non-psicologi? (il processo era proprio su questo argomento).
E quindi, se la logica non è un’opinione, che i counselor & co. svolgono attività di competenza dello psicologo????
Già
Veramente la sentenza verte su tutt’altro. Non è una sentenza di merito, ma si è occupata del piano esclusivamente formale relativo all’impugnazione di una delibera dell’opl.
Detto questo tutti attendiamo ancora che il cnop definisca le attività di competenza dello psicologo. Io al momento sono rimasta a quando si sono impantanati sulla diagnosi psicologica.
Se mi sono persa qualcosa, sono disponibile ad aggiornarmi.
Ricordo che è attualmente giacente in Parlamento un testo di riforma delle professioni regolamentate il quale prevede che tutto quanto non è espressamente classificato come riserva professionale all’interno della legge di ordinamento di una certa professione non è riservato.
sul piano dei contenuti concordo finemente con l’ultimo intervento di Tullio, ma aggiungo che, a ben scegliere i libri e le ricerche che si leggono, questa integrazione, questa certezza che la cura della parola (ma anche, fondamentale, la RELAZIONE come viene studiata dalla ricerca in ambito Teoria dell’attaccamennto)ha effetti biologici sull’attività neurale come e spesso meglio della chimica è già realtà, anche se non piace per niente all’industria farmaceutica. E tra l’altro ritengo che questa apodittica spacciata certezza del primato della TCC (cognit-comport) sia primariamente un artefatto e anche voluto dalle assicurazioni USA.
PERO’:
tutto questo (bel) dibattito dove porta? Che cosa c’entra col fatto che si immettono sul mercato della psiche persone ad alto rischio di essere ignoranti, disturbate, inpaci di riconoscere patologie, e in definitiva PATOGENE? Le giuste tesi di Tullio dovrebbero farci dire che allora formiamo pure counselor patogeni? Bah… Non capisco.
Proprio sulla base delle ultime cose dette e inter-dette, personalmente ritengo che questa situazione militi in favore di uno smantellamento del sapere psicologico a tutto vantaggio della terapia medica. Questo avviene anche per incoscienza di alcuni psicologi e a tutto vantaggio dei medici che possono sperare così di riconquistare il terreno perduto una volta che la psicologia si sia sbriciolata in forme sempre più inefficaci se non patogene di intervento.
Mi pare chiaro che nell’immediato la battaglia si svolge attorno al tentativo di svuotamento della legge Ossicini, essendo più complicato smantellare il sistema degli ordini professionali.
Questa non è una novità: ha alla base un pregiudizio di stampo medico-organicista che si allea alle resistenze sociali e culturali al lavoro psicologico. Questo pregiudizio si è manifestato nel remoto e recente passato in vari modi: ad esempio, più da vicino, i vari “libri neri” contro la psicoanalisi, il disconoscimento delle tecniche psicologiche per la cura dell’autismo, e via così. La cosa che amareggia è che questo avviene grazie anche a psicologi che si prestano per “trenta denari” al mercato della formazione di questi agenti virali. Si sa che le mele marce sono sempre esistite, oggi vediamo che hanno anche l’arroganza di voler non solo contaminare le altre mele, ma distruggere tutto il cesto per permettere ai virus di diffondersi liberamente. Bion chiamava tutto questo “attacco al contenitore”, intuendo qualche decennio fa che è solo l’invidia che spinge a distruggere la capacità di pensare della “mela-seno buono”. Appunto, è solo invidia.
Franco Nanni si chiede: “tutto questo (bel) dibattito dove porta? Che cosa c’entra col fatto che si immettono sul mercato della psiche persone ad alto rischio di essere ignoranti, disturbate, incapaci di riconoscere patologie, e in definitiva PATOGENE?” Dalla mia esperienza personale, nella mia scuola e in altre in cui ho insegnato, questo rischio non è superiore a quello analogo che riguarda medici e psicologi formati in scuole di psicoterapia. Anzi. Un paio d’anni fa mi è stata portata una paziente seriamente depressa in cura presso una psicologa psicoterapeuta. Dal colloquio ho avuto la netta impressione che la paziente non aveva affatto bisogno del metodo molto scientifico con cui la psicologa la stava trattando con pessimi risultati, ma soprattutto di essere ascoltata e aiutata a trovare in se stessa le risorse di guarigione di cui aveva bisogno – cose che i nostri counselor sanno fare piuttosto bene. L’ho quindi affidata a una nostra allieva tirocinante che ha iniziato a seguirla sotto la mia supervisione. In poche settimane la paziente è molto migliorata e in pochi mesi è letteralmente rifiorita. Raramente ho visto un risultato così buono ottenuto in così poco tempo in una psicoterapia. Ovviamente questo è un caso singolo che non dimostra niente. Volendo fare affermazioni generali di questo tipo bisognerebbe disporre di due campioni randomizzati di psicoterapeuti e counselor regolarmente formati, e vedere in quale dei due gruppi sono più alte le percentuali di soggetti disturbati e disturbanti. In mancanza di uno studio empirico di questo tipo, credo sia meglio astenersi da giudizi che, in mancanza di dati oggettivi, non possono basarsi che su pregiudizi.
E allora che vorrebbe dire con questo esempio? Personalmente ho visto molti casi che dopo poco tempo, in un caso addirittura dopo pochi minuti, sono “guariti miracolosamente”; questo avviene di continuo, dal counselor, dallo psicoterapeuta, dal parrucchiere. Vogliamo stabilire su questa base un metodo scientifico?
Proseguendo con la metafora della mela: qualcuno forse conosce il “miracolo della mela” nel Diario di una schizofrenica della Sechehaye. Poiché la paziente era migliorata dopo che la sua analista le aveva dato una mela, alcuni psichiatri avevano pensato di farne una tecnica terapeutica: se si danno mele ai pazienti, i pazienti guariranno. Come pensa sia andata a finire?
Proprio sulla base delle ultime cose dette e inter-dette, personalmente ritengo che questa situazione militi in favore di uno smantellamento del sapere psicologico a tutto vantaggio della terapia medica. Questo avviene anche per incoscienza di alcuni psicologi e a tutto vantaggio dei medici che possono sperare così di riconquistare il terreno perduto una volta che la psicologia si sia sbriciolata in forme sempre più inefficaci se non patogene di intervento.
Mi pare chiaro che nell’immediato la battaglia si svolge attorno al tentativo di svuotamento della legge Ossicini, essendo più complicato smantellare il sistema degli ordini professionali.
Questa non è una novità: ha alla base un pregiudizio di stampo medico-organicista che si allea alle resistenze sociali e culturali al lavoro psicologico. Questo pregiudizio si è manifestato nel remoto e recente passato in vari modi: ad esempio, più da vicino, i vari “libri neri” contro la psicoanalisi, il disconoscimento delle tecniche psicologiche per la cura dell’autismo, e via così. La cosa che amareggia è che questo avviene grazie anche a psicologi che si prestano per “trenta denari” al mercato della formazione di questi agenti virali. Si sa che le mele marce sono sempre esistite, oggi vediamo che hanno anche l’arroganza di voler non solo contaminare le altre mele, ma distruggere tutto il cesto per permettere ai virus di diffondersi liberamente. Bion chiamava tutto questo “attacco al contenitore”, intuendo qualche decennio fa che è solo l’invidia che spinge a distruggere la capacità di pensare della “mela-seno buono”. Appunto, è solo invidia.
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copio e incollo questo intervento perché lo ritengo fondamentale.
ah ecco, tu insegni in una scuola x counselor. Questo spiega molte cose di dove porta questo dibattito, assai poco teorico, temo (mi ero illuso, lo ammetto, a volte le seghe mentali sono meglio dell’autodifesa consapevole). Hai ragione, cmq, non c’è alcun filtro preventivo x nessuna figura “psy”, salvo quelle scuoole di psicoterapia con terapia obbligatoria (e seria e lunga) che qualchegaranzia in + la danno. Per far capire, io sono un counselor formato negli anni 90 allo IACP (biennio Milano 2) che poi ha deciso di prendere la sua seconda laurea a + di 40 anni in psicologia… E semplicemente penso che il counseling DEVE continuare a esistere, ma con ben altri criteri di ingresso, inclusa la laurea in psicologia, che di certo da sola non basta, anzi! Se io non avessi fatto quel biennio, con quel pezzo di carta non avrei saputo fare niente, e temo che sia fatto per costringere di fatto le persone a spendere un fottio di soldi in un quadriennio per forza privato (le poche scuole universitarie stanno chiudendo!).
Concludo la mia partecipazione a questo dibattito dichiarandomi d’accordo con quanto detto da Davide: “ritengo che questa situazione militi in favore di uno smantellamento del sapere psicologico a tutto vantaggio della terapia medica”, ma in un senso diverso da quello inteso dal gentile interlocutore. Ciò che soprattutto danneggia il sapere psicologico non è a mio parere la pratica del counseling da parte di persone prive di laurea in psicologia, punto controverso su cui ho già ampiamente espresso la mia opinione, bensì un dato assai meno controverso che ha portato la psicoanalisi a un crollo verticale di prestigio e alla completa espulsione dalle facoltà scientifiche negli USA. Mi riferisco al modo autoreferenziale con cui tanti psicoanalisti definiscono scientifica la loro disciplina, all’ ingenuità con cui prendono per buone le loro interpretazioni, alla spocchia con cui trattano da malato o invidioso chi non la pensa come loro. Lo dico, sia chiaro, non come avversario della psicoanalisi, ma come persona che non dando per scontato che la psicoanalisi sia una scienza si interroga sulle condizioni alle quali può esserlo. Caso mai a qualcuno interessasse sapere come la penso al riguardo, rimando al mio articolo “What science for psychoanalysis?” http://internationalpsychoanalysis.net/2011/07/21/what-science-for-psychoanalysis-tullio-carere-comes/
Ringrazio i partecipanti a questo dibattito per gli stimoli che mi ha dato e saluto cordialmente tutti, ma in modo speciale Anna Barracco e Tommaso Valleri, con i quali mi sono sentito pienamente in sintonia.
Grazie, vi segnalo anch’io un articolo.
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2228:la-psicoanalisi-cambia-davvero-il-cervello-cesare-peccarisi-corriere-della-sera-it-19-luglio-2012&catid=364:rassegna-stampa-italiana-2012&Itemid=353
Credo sia utile ribadire anche qualche considerazione pratica per integrare il dibattito in corso:
I counselor si sono in questi anni proposti, come i coach del resto, i mediatori familiari, e i consulenti filosofici, per ovviare a una evidente mancanza di risposta a problemi emersi nella nostra società e trascurati da psicoanalisti, psicoterapeuti e psicologi.
I primi due si sono prevalentemente chiamati fuori offrendo cure lunghe e onerose per problematiche nevrotiche, mentre gli altri, gli psicologi non sono riusciti a scrollarsi di dosso una percezione che li assimilava ai precedenti. Tutti vengono normalmente evitati da chi non si ritiene “grave” abbastanza per andare dallo “psicologo”, termine ultra generico e vagamente negativo.
Il bisogno di colloquio di aiuto è aumentato considerevolmente in questi ultimi anni e un grosso spazio professionale si è creato inevitabilmente.
Teniamo anche conto che questa domanda è anche piuttosto esigente e mette in difficoltà un neo laureato giovane e del resto pochissimo formato nelle nostre facoltà di psicologia a tenere dei colloqui.
Molti centri di formazione e diverse scuole di psicoterapia si sono ritrovate, senza incentivarlo in alcun modo, numerose richieste di corsi di specializzazione da parte di persone che a vari livelli già lavoravano in ambito psicosociale, professionisti dunque fra i 30 e i 40 anni, quasi tutti laureati, anche in psicologia, seri, desiderosi di imparare nuove metodologie, disposti a fare analisi personale e a mettersi in gioco in laboratori e supervisioni.
Nel nostro caso 11 anni fa abbiamo trasformato un corso biennale per esperti della comunicazione, che a sua volta esisteva da oltre 10 anni, in un corso triennale ove, oltre a tutto quello che insegnavamo prima (teorie della comunicazione, dinamiche relazionali, dinamiche di gruppo, formazione della personalità secondo il nostro approccio transazionale ecc. ecc.), abbiamo aggiunto le metodologie del colloquio di counseling, tecniche di derivazione transazionale o di altre discipline, laboratori pratici e obbligo di un percorso di psicoterapia.
Non capisco per quale motivo alcuni ordini degli psicologi non vedano questa specializzazione utile come primo livello di conoscenza e pratica supervisionata (e valutata) al fine di ricoprire con professionalità e competenza una domanda di aiuto breve e ciscoscritta al problema prospettato. Gli psicologi dovrebbero semplicemente avere l’umiltà di riconoscere di aver ancora bisogno di specializzazione dopo la laurea e scegliere il corso che gli piace di più, accettando di essere in aula con laureati di altre discipline. Cosa del resto di un’utilità straordinaria.
Come ho sempre pensato le due specializzazioni si differenziano (e so bene che non è nemmeno tanto facile distinguere) prevalentemente per il livello di compromissione delle facoltà psichiche delle persone che chiedono aiuto.
Aggiungo anche, per finire e rimanere breve, che i counselor, se ben preparati ovviamente, per il fatto di lavorare in gran numero in organizzazioni di tutti i tipi, sono anche i collettori di un disagio più grave che normalmente non chiede aiuto a nessuno e può essere finalmente convogliato verso il professionista più adatto ad affrontarlo.
Giorgio Piccinino
Descrivi un corso triennale che è costituito da un insieme di materie psicologiche e psicoterapeutiche, aggiunte ad un percorso psicoterapeutico personale, e con corsi e seminari teorico-pratici di psicologia della personalità, colloqui psicologici, psicologia applicata… in pratica, un percorso che, almeno da quanto descritto, sembrerebbe esser finalizzato a far andare il corsista in giro per il mondo ad applicare a scopi lavorativi (ma senza abilitazione di Stato, o sbaglio ?) quelle che sono a tutti gli effetti teorie e tecniche psicologiche e psicoterapeutiche… e poi venite pure ad argomentare che…. “Oh, no, il counselling NON è psicologia, non c’è nessuna sovrapposizione…” ?!? Ma davanti a tali affermazioni cosa vi aspettate di sentirvi rispondere, sinceramente ?
Desidero sentitamente ringraziare tutti i partecipanti a questo dibattito, che per me è stato straordinariamente arricchente. In paritcolare voglio ringraziare Nicola Piccinini, che grazie alla sua decisa presa di posizione, alla sua militanza, alla sua energia e al suo coraggio, ha permesso la nascita e l’esistenza di questa straoridaria “agorà”. Pur non condividendo i contenuti del suo pensiero, apprezzo il suo lavoro e vedo che oggi, contrariamente a quanto accadeva in passato, egli non censura più i post “divergenti” e lascia che il dibattito si dipani nella sua verità e nella sua multiforme ricchezza.
Altra Psicologia è un fenomeno culturale, all’interno della psicologia professionale, di cui bisogna tener conto. Esprime la presa di posizione, il posizionamento politico, di tanti giovani professionisti che oggi cercano di fare i conti con l’eredità che noi generazioni precedenti abbiamo lasciato. Non dimentichiamoci mai, cari colleghi, che le generazioni figlie portano il dibattito lì dove noi lo abbamo lasciato. Per questo, nel 2010, ho accettato di buon grado la scommessa di candidarmi con loro, e ho accolto con gioia e con un senso di gratitudine la loro coraggiosa offerta. Ero certa – e sono sicura che anche loro fossero in buona fede – che solo facendo i conti con la nostra storia avremmo potuto, come Categoria, fare un salto di qualità e voltare pagina. Purtroppo il conflitto e le sue sirene sono state più potenti, e sicuramente la responsabilità di questo esito è di tutti noi, me compresa. Evidentemente anche il mio essere non è stato in grado di lavorare a sufficienza e di portare davvero ad un dialogo, ad un tavolo di concertazione. Era necessaria ancora questa fase di forte contrapposizone, di guerra. Tuttavia la coloritura generale del dibattito, e anche lo scenario politico più ampio, con le liberalizzazioni in corso, nonché l’osservazione di quanto avviene in altri Paesi, non può che far presagire che il dialogo e la composizione di argomenti e interessi diversi, ma tutti legittimi, dovrà ricominciare. Desidero a mia volta salutare e ringraziare Tullio Carere Comes, Rolando Ciofi, il dott. Carlo Lazzerotti, che purtroppo non ho il piacere di conoscere personalmente, e anche tutti gli altri colleghi farmacisti, counselor e psicologi che hanno portato la loro esperienza e la loro riflessione. Siamo una ricca, variegata, comunità pensante, che spero possa arricchirsi e dialogare al di là degli orticielli artificialmente creati da un tipo di organizzazione delle professioni asoslutamente obsoleta, corporativa, poco rispettosa della libertà e della capacità di scelta dell’utente, valore che in una democrazia andrebbe incentivato e sostenuto come un presupposto irrinunciabile al diritto alla salute, inteso come patrmonio politico, culturale, sociale. Grazie a tutti. Anna Barracco
Per le origini e la storia del counselling, andate a vedervi
https://rolandociofi.wordpress.com/2011/07/27/origini-e-storia-del-counseling-di-giovanni-turra/
Tanto per non credere che sul counseling abbiano detto e fatto tutto May e Rogers, seppure siano stati importanti.
Quando si arriva in Cassazione è perchè altri due gradi di giudizio non sono stati considerati sufficienti per un giudizio adeguato. Si può arrivare dopo due pareri opposti, uguali o misti. Cercate di comprendere che se in Cassazione quel giorno vi fosse stato un altro giudice la sentenza poteva essere opposta, semplicemente perchè la legge poi va interpretata. E’ vero che vi è una legge che sanziona e vieta l’esercizio abusivo della professione di psicologo, come è vero che c’è una carta etica che impedisce l’insegnamento di tecniche psicologiche ( ma non è legge quanto deontologia), ma se vogliamo dirla tutta vi è anche un articolo della Costituzione ( art. 33) che garantisce la libertà di insegnamento, che è evidentemente collegata alla libertà di ricerca.
Credo che fermarsi però alle questioni giuridiche sia quantomeno riduttivo. Solo in Italia esiste una guerra tra categorie, tra abilitati in una o nell’altra disciplina che si sputtanano e ostacolano a vicenda in questo modo. E’ vero, gli psicologi hanno avuto un riconoscimento da parte dello Stato Italiano e dalla dimensione burocratica. Ma la cultura va oltre. Credo ( parlo da non psicologo e non counselor, semmai da paziente psicoanalizzato), che a fare la differenza non sia il titolo nel vostro ambito, ma il percorso su di sé che ognuno ha potuto o meno fare. Ma che, diciamocelo, molti pochi fanno.
Simone, guarda che in giudizio si sono costituiti i sostenitori del counselling, non gli psicologi.
E hanno perso in primo grado, con una sentenza il cui testo è più pesante di una mazzata, per poi fare ricorso in appello e sentirsi rispondere che non avevano nemmeno la legittimazione di ricorrere…
Per non parlare dell’altra questione della Cassazione sulla psicoanalisi praticata da non sanitari, in cui i ricorrenti sono riusciti a perdere in tre gradi di giudizio di fila, in maniera concorde… insomma, mazzate pesanti, concordi e coerenti tra tutti i gradi… altro che “interpretazione del momento del giudice di turno” !
E se certe persone, dopo aver voluto portare LORO le questioni di merito nei tribunali, perdono ogni volta, è molto curioso che adesso improvvisamente cerchino di argomentare: “oh, no, non si può risolvere in tribunale, parliamone come se fosse una questione culturale…”. Comodo…
Per Massimailiano: la tua risposta mi fa capire che non sai cosa è il counseling,ma sarebbe meglio se devi prendere una posizione. non hai capito quello che ho scritto o forse non era sufficientemente chiaro… non c’è nessun lavaggio del cervello.Se devi essere di sostegno alle persone non puoi lasciarti guidare nel tuo lavoro dai tuoi sentimenti. Non so chi sei tu, (sei uno psicologo?), ma se per esempio ti capita una signora con un disagio e scopri durante i colloqui che tempo prima ha abortito,e tu(sempre per esempio) cattolico fino al midollo sei uno che “lotta”contro l’aborto, ma che aiuto le dai?non potresti lavorare come counsellor ma nemmeno come terapeuta, fintanto che tu non abbia accettato che ognuno deve fare la sua scelta nella vita anche se non condivisa,poi una volta fuori dalla stanza di counseling puoi continuare a lottare per quello in cui credi,ma finchè lavori con lei non devi lasciarti trascinare nè dai sentimenti nè dalle tue convinzioni;in questo senso il corso che frequento io “distrugge”,cioè ti fa capire che non c’è niente di assoluto. Qualcuno ha fatto presente che bisognerebbe avere una laurea in psicologia per fare counseling, e su questo si può discutere, sì. Ma ripeto:il tirocinio non insegna assolutamente niente e l’Esame di Stato che abilita alla professione (e già qui è un controsenso)non dà garanzie di “saper fare”; anzi: uno psicologo che non si specializza in qualcosa non sa fare niente. Si potrebbe invece fare in modo che i dottori in psicologia scelgano tra la via della psicoterapia o la via del counseling. E su questo sarei d’accordo.Il tirocinio qui in Italia serve solo aperdere tempo,per me o si va direttamente al corso di specializzazione dove si impara a “fare” o si cambia modo di svolgere il tirocinio. Tanti auguri a te
Ero stato tentato di rientrare nel dibattito per difendere Paola dall’attacco di chi, evidentemente non avendolo provato sulla sua pelle, non sa che una formazione personale seria include necessariamente una pars destruens finalizzata al raggiungimento della posizione filosofica basilare del sapere di non sapere nulla, essenziale per un ascolto autentico. I corsi di laurea in medicina o psicologia non insegnano niente al riguardo, anzi: imbottendo lo studente di nozioni non fanno che alimentare in lui l’illusione di sapere molte cose. Il che per un verso è anche vero: ma è un sapere di scarsissima rilevanza nella pratica della psicoterapia o del counseling, a fronte dell’importanza fondamentale del sapere di non sapere.
Ho visto peraltro con piacere che Paola sa ben difendersi da sola, e allora intervengo per farle notare una contraddizione tra la profondità del suo percorso formativo e la superficialità di ciò che lei si sente autorizzata a fare (“Un counselor non può andare ad indagare nel ‘profondo’,non può lavorare sull’inconscio del cliente”). E’ un controsenso, Paola. Se hai capito che per giungere alla verità di se stessi occorre sradicare tutte le illusioni e i pregiudizi che abbiamo su noi stessi e sulla vita in generale, in un percorso virtualmente senza fine, non puoi fare altro che aiutare i tuoi clienti a imboccare la stessa strada, incoraggiandoli a iniziare un cammino di risveglio in cui tu potrai accompagnarli per un tratto più o meno breve. Ma per quanto breve sia questo tratto (e non c’è motivo di renderlo troppo breve) se deve lasciare un segno non potrà che stanare almeno qualcuna delle illusioni in cui il cliente è imprigionato. E poiché le illusioni se ne stanno di regola ben coperte da strati di difese e razionalizzazioni, se vorrai aiutare davvero il tuo cliente non potrai fare a meno di indagare nel profondo e lavorare sull’inconscio.
Capisco, d’altra parte, le preoccupazioni delle scuole e delle associazioni di counseling, che per timore di essere accusate di insegnare la psicoterapia credono di proteggersi con questo nonsenso del lavoro di superficie. Da un lato i loro timori sono infondati, perché il lavoro finalizzato allo sviluppo della consapevolezza non ha nulla a che vedere con la psicoterapia ‘scientifica’, cioè fondata sulle evidenze della ricerca empirica, cui di riferisce la legge (altrimenti perché riservarne la pratica a medici e psicologi, escludendo filosofi e artisti?). Da un altro lato è vero che un counselor con un diploma di primo livello (cinquecento ore in due anni) ha una preparazione troppo leggera per impegnarsi in un lavoro in profondità con il cliente. Il diploma di secondo livello (mille ore in tre anni) è già meglio, ma non è ancora sufficiente per questo obiettivo. Una preparazione adeguata per il lavoro in profondità dovrà includere un quarto anno e millecinquecento ore (incluse duecento di trattamento personale) più o meno come le scuole di psicoterapia. Ma le scuole esitano a introdurre il quarto anno, sempre per il timore di cui sopra. Non se ne verrà a capo fintanto che non sarà sufficientemente chiara la differenza tra una cura basata sulle evidenze empiriche, giustamente riservata a medici e psicologi, e una cura finalizzata alla crescita personale, interpersonale e transpersonale, per la quale le competenze fornite da una laurea in medicina o psicologia, come le indicazioni della ricerca empirica, hanno un’utilità marginale e non decisiva — comunque si voglia chiamare questo secondo tipo di cura: terapia dialogico-processuale o maieutico-umanistica, psicoanalisi laica, counseling psicoanalitico, o altrimenti.
Quindi, riassumendo, Tullio: per te, se uno fa una consulenza cognitivo-comportamentale deve essere laureato in Psicologia o Medicina; se invece fa una psicoterapia del profondo di tipo psicodinamico (che, ovviamente, è anche molto più complessa nelle dimensioni relazionali) può pure essere un ragioniere o un geometra che, senza saper nulla di psicologia dinamica, psicologia clinica, psicopatologia, basta si sia fatto un qualche corso privato autoaccreditato.
E questo, per te, garantirebbe sicurezza del paziente, tutela del benessere psicologico collettivo, ed efficacia dell’intervento clinico.
Complimenti, un ragionamento assolutamente brillante, logico e coerente.
Caro Punto Esclamativo, se vuoi provare a riflettere, invece di esclamare, trovi da parte mia una porta aperta. La legge 56/89, in nome della quale si è scatenata la caccia agli “abusivi”, pur nella sua ambiguità (che a mio parere dovrà essere sanata da una nuova legge) una cosa chiara la dice: una laurea in psicologia non è assolutamente necessaria per fare lo psicoterapeuta (o il counselor). Infatti, se lo fosse, l’esercizio della psicoterapia dovrebbe essere proibito ai medici, la cui formazione psicologica è pressoché nulla (te lo dico io che sono un medico). E che cosa hanno in comune medici e psicologi, se non una formazione scientifica di base? Dunque è questa, e solo questa, che il legislatore ritiene necessaria per l’esercizio della psicoterapia. Ma quale psicoterapia? Ne esistono centinaia, basate su teorie e principi diversi, incompatibili e incommensurabili. Per molte di queste (una buona metà, se non di più) la ricerca empirica su cui si fondano le scienze mediche e psicologiche non ha molto da dire sulla psicoterapia. E’ anzi molto diffusa l’opinione, in questa metà del campo, che la pretesa che oggi avanza impetuosamente di basare la psicoterapia sulle evidenze della ricerca empirica sia del tutto controproducente e dannosa per la psicoterapia di tipo dialogico-processuale, mentre è sicuramente giustificata per la psicoterapia di tipo tecnico-procedurale.
In sostanza, è sempre più chiaro agli addetti ai lavori che oggi non è più possibile parlare di psicoterapia come se fosse una cosa unica, o almeno, nel variare delle teorie e delle tecniche, come se fosse unica e universalmente accettata la base scientifica su cui si edificano tutte le teorie. Il conflitto tra le due parti è ormai così profondo che un autorevole esponente della psicologia italiana, leader di uno dei movimenti di maggior seguito, auspica apertamente il “divorzio” tra due parti che non comunicano più. Io spero che si arrivi almeno a una civile convivenza, anche se a giudicare dai toni con cui per lo più si dibatte su queste cose le speranze non sono molte. Nel frattempo, che fare? In attesa che una nuova legge tolga di mezzo l’equivoco di “una” psicoterapia, se “la” psicoterapia deve essere riservata a medici e psicologi, benissimo: l’altra cosa si potrà chiamare counseling, o psicoanalisi laica, o in qualche altro modo. Al di là dei nomi, la sostanza è che occorre prevedere uno spazio per un approccio dialogico-processuale per il quale una laurea in medicina o psicologia non è necessaria.
Quanto al counseling, anche questo, come la psicoterapia, è un contenitore per pratiche diverse e disparate, che possono essere molto brevi e mirate alla risoluzione di problematiche non psicopatologiche, ma anche non molto brevi e finalizzate al trattamento del disagio esistenziale, il cui confine con il disagio patologico è certamente difficile da stabilire: di qui l’accusa di esercizio abusivo della psicoterapia. Tuttavia è netta la differenza tra un trattamento, comunque lo si voglia chiamare, che è diretto in modo esplicito e dichiarato alla cura di un disturbo patologico (come l’anoressia, esemplifica la sentenza della Cassazione) e una cura d’anima, del sé o della persona (attraverso il colloquio e la relazione con un sacerdote, un educatore, un filosofo, uno psicoanalista, un breathworker o un counselor) da cui indirettamente — per effetto di una esperienza correttiva o di una maggiore conoscenza di sé o di una crescita di consapevolezza o di un sblocco energetico o di un’accensione di fede — consegua anche il miglioramento di qualche disturbo patologico. Se così non fosse, sacerdoti, filosofi, insegnanti e medici di base dovrebbero essere tutti imputati, assieme ai counselor, di abusivismo.
Infine la questione dell’obbligo di una laurea per i counselor meriterebbe un discorso a parte, che ora tralascio per non dilungarmi troppo.
Cordialmente
Carere, da quel che capisco, come dice “!”, lei postula (ma senza dimostrarlo) che esisterebbero due “cliniche” diverse, una umanistica ed una cognitiva-comportamentale, e che secondo lei sarebbero nettamente e positivamente distinguibili in maniera “discreta”.
Quella psicodinamica poi non si capisce bene dove la mette, perchè equipara il “counsellor” (etichetta priva di contenuto positivamente definito, che spesso opera su un pout-pourri di concetti eterogenei di derivazione umanistica, gestaltica, cognitiva, pnlista, mescolati insieme a piacimento) allo psicoanalista laico (?), come se fossero la stessa cosa da un punto di vista sia epistemologico che teorico-applicativo.
Sulla base di questo suo primo postulato indimostrato, postula poi ulteriormente che la psicoterapia cognitiva necessiterebbe di una formazione psicologica o medica, mentre quella”dialogica” (?) e umanistica no (quindi, per capire, la può fare anche un economista che si legge qualche libro di counselling il weekend ?).
Il perchè, da un punto di vista formativo non è francamente chiaro: come dicono i colleghi qui sopra, le competenze tecniche di psicologia patologica che necessito e che devo avere a priori (per non parlare delle basi di psicologia della personalità) per rapportarmi con una persona con un disturbo di personalità, sia che io usi un approccio CBT, che uno sistemico, o uno dinamico, sono parimenti necessarie: cambiano le modellistiche, ma non le fondamenta conoscitive. Esattamente come, per il medico, sia che vada a fare il fisiatra che l’ortopedico necessita comunque sempre di basi solide di anatomia, fisiologia e patologia generale, anche se poi da un lato va di massoterapia e dall’altra va di sega e martello.
La laurea di base, e le sue compentenze, sono preliminari e necessarie: non è che il fisiatra lo facciamo fare al cameriere che si studia un paio d’anni di shiatsu il sabato pomeriggio, per ovvi motivi.
Poi, come notato da Franco Nanni, il fatto che da vent’anni si vada a convergere tra i vari orientamenti psicoterapeutici, con costrutti ponte come l’attaccamento, i cognitivismi post-razionalisti, l’avanzare della ricerca empirica in psicologia dinamica, le neuropsicoanalisi, lo ignora o vuole ignorarlo. Forse perchè questo fatto non trova posto nel suo sistema suppostamente dicotomico ?
Non capisco quindi da cosa derivi le sue argomentazioni, scientificamente parlando. A proposito: lei per caso deriva reddito dalla formazione, a scopo di intervento su aspetti psicologici, di counsellor non psicologi e non medici ?
A questo punto, diventa una curiosità credo legittima.
Ottima e condivisibile l’analisi di Carere sulle due (e internamente plurime) vie delle psicoterapie, e su quanto ne segue in termini culturali. Ho però due pbiezioni:
1) mi pare si rischi un approccio vecchio e dicotomico, laddove gli approcci attaccamento/mentalizzazione (Fonagy, Target, Allen…) annunciano invece modalità ampiamente aperte all’evidence-based, e nello stesso tempo operano soprattutto in un ambito dialogico umanistico, con un importante tributo all’opera di Rogers. A proposito di evidence based, Rogers è stato un pioniere della registrazione e sbobinatura delle sedute, e di una rilevazione empirica dell’efficacia. Eppure lui non era certo uno della fazione che oggi si spaccia per l’unica evidence-based, che poi sembra ridursi alla TCC… Non per caso Target (sì, sempre lui) e Ruth, nel “What works for whom, tradotto anni fa con Psicoterapie e prove di efficacia, hanno trovato diversi studi in ambito TCC dove il rilevamento dell’efficacia era viziato da un bias in quanto venivano utilizzati questionari INTERNI all’approccio usato. In altri termini, semplificando, se facciamo dei gruppi di depressi e li sottoponiamo a diverse psicoterapie, poi rileviamo l’efficacia attraverso, per dire, il Beck Depression Inventory, io penso che… grazie al cazzo, che quelli che sono stati sottoposti a TCC secondo l’approccio di Beck risulteranno più facilmente “vincenti”.
2) non concordo più con Carere, però, se insiste su counselor non laureati, quasi come se una laurea in psicologia fosse un impedimento a svolgere una terapia dialogico umanistica….
Io credo invece che se vogliamo progredire sul terreno dell’efficacia delle psicoterapie, serve gente che abbia una ampia preparazione psicologica, e specialmente sull’ambito Attaccamento/mentalizzazione, ambito integrato che spazia dalla psicoanalisi all’etologia umana e al cognitivismo, sul’esempio epistemologico di Bowlby, che a tutti gli effetti è stato il primo “psicoanalista” moderno epistemologicamente parlando; gente, però, che abbia d’altro canto una SOLIDA preparazione personale, inclusi anni di analisi personale, e di formazione alla conduzione del colloquio, all’affinamento della funzione riflessiva, ecc.
In pratica, non riesco proprio a trovare nessuna ragione per sostenere che il caounselor non debba essere un laureato in psicologia (di certo non in medicina) che non sia il fatto che restringendo il counseling ai laureati in psicologia si chiude un mercato su cui si mangia… tutto il rispetto per il lavoro di ciascuno, ma credo si dovrebbe separare la riflessione dal fatto che su certe cose ci si mangia…
Risposta a Franco Nanni.
1. Mi fa piacere che citi Rogers come prova dell’utilizzo della ricerca empirica da parte di terapeuti di orientamento umanistico. L’approccio di Rogers è esemplare, e ha avuto e continua ad avere molto seguito ancora oggi in campo esperienziale-umanistico. Ma esemplare di che cosa? Di un uso della ricerca empirica per una finalità esattamente opposta a quella dei sostenitori del modello medico-psicologico. Bisogna risalire ai primi anni Quaranta del secolo scorso, per capire bene. A quel tempo la psicoterapia negli USA era appannaggio dei soli medici, e gli psicologi si trovavano esattamente nella posizione in cui si trovano oggi (in Europa) i counselor. Per aggirare questo divieto, Rogers fece due cose. Primo, descrisse un approccio (“centrato sul cliente”) basato sull’applicazione di tre modalità elementari di relazione, finalizzate allo sviluppo delle risorse personali del cliente (empowerment), e disse: questo approccio non ha nulla a che fare con la psicoterapia, dal momento che non cura alcun disturbo né cerca di risolvere alcun problema. Tende solo a ad attivare le risorse di guarigione del cliente e a favorire lo sviluppo delle sue capacità di risolverseli da solo i suoi problemi. Quello che io faccio, infatti, non è psicoterapia ma counseling (disse quello che ancora oggi i counselor continuano a ripetere). Secondo, ipotizzò e dimostrò empiricamente che questo approccio, praticato da persone del tutto prive di preparazione medica o psicologica, produceva risultati del tutto paragonabili a quelli delle più blasonate psicoterapie. In altre parole, Rogers usò la ricerca empirica proprio per smontare la pretesa che veniva allora dal campo medico che occorresse una preparazione scientifica particolare per lavorare con un approccio dialogico-processuale, centrato sulla persona (sul sé, diremmo in campo psicoanalitico) e non sulla cura di disturbi o soluzione di problemi. Dimentichi della loro storia, gli psicologi odierni, nel frattempo entrati nel salotto buono, cercano di tener fuori gli “intrusi”, esattamente come decenni prima i medici tenevano fuori loro, ed esattamente con gli stessi argomenti. A conferma di quanto detto, ti segnalo, se non la conosci, la recentissima meta-analisi di Elliot, Greenberg e altri. Per non ripetermi, ti copio qui quello che ho detto in un forum della SEPI:
I will quote a most recent study by Robert Elliott, Leslie S. Greenberg, et al: “Research on Humanistic-Experiential Psychotherapies”, to appear in M.J. Lambert (Ed.), Bergin & Garfield‘s Handbook of psychotherapy and behavior change (6th ed.). New York: Wiley. In a meta-analysis of more than 200 studies, the Authors found (as many others did before them) that by removing in comparative studies variance due to the researcher allegiance, even statistically significant but trivially small treatment differences disappear. In other words, more food for the Dodo bird. Who said that empirical research on psychotherapy outcome is useless? It is obviously not. It is just that that its use is mainly political, in the sense that it enables virtually all schools to boast that their thing is empirically supported. As important as this result may be, however, it does not seem to have much to do with science, whatever we mean by this word.
2. Quanto alla laurea in psicologia, a mio parere può essere utile, ma può anche essere dannosa per l’esercizio del counseling o della psicoterapia dialogico-processuale — e abbastanza spesso, nella mia esperienza lo è (ho seguito diversi psicologi e psicologhe in psicoterapia o supervisione, e la mia impressione è che non di rado le loro resistenze sono più difficilmente trattabili di quelle dei pazienti che non hanno accumulato e non possono vantare alcuna conoscenza nel campo). Naturamente, il bilancio tra costi e benefici varia a seconda del punto di vista nel quale ci collochiamo per valutarlo. Per mancanza di tempo permettimi un’altra auto-citazione: l’incipit del mio testo “La cura di sé nella relazione di aiuto”.
«Mettiamo subito le carte in tavola. Il fatto che noi proponiamo un insegnamento sulla cura di sé non significa che noi sappiamo bene che cosa sia la cosa che vi proponiamo di curare. Un po’ lo sappiamo e un po’ no. C’è qualcosa che è possibile, anzi doveroso conoscere, e qualcos’altro che è impossibile, anzi sbagliato anche solo tentare di conoscere. Il sé è un enigma da investigare, anche con un approccio scientifico, ma non quello delle scienze naturali: un approccio capace di fermarsi dove la conoscenza non può entrare. C’è un sapere e un non sapere, ma per noi il non sapere è più importante del sapere. Vale a dire, la parte più importante del nostro lavoro consiste nell’aprire uno spazio di non sapere, uno spazio vuoto in cui il logos, la logica interna del processo della cura possa manifestarsi.»
In sostanza, in un approccio in cui il non sapere è più importante del sapere, l’accumulo nozionistico di conoscenze (che altro è un corso di laurea, in psicologia o altro, nella maggior parte dei casi?) può fare più male che bene. Ovvio che nell’approccio contrario, in cui il sapere è più importante del non sapere, la valutazione sarà opposta. In prospettiva, comunque, se questo può tranquillizzarti, l’accesso al livello più alto del diploma di counselor (corso quadriennale) richiederà ben presto il possesso di un diploma di laurea triennale. In psicologia, o altro.
penso che la crisi economica abbia portato al fiorire di “nuove professioni”, perché c’è gente che deve reinventarsi un lavoro e portare a casa la pagnotta.
Penso che la figura del counselor faccia parte di questa categoria di “nuove professioni”.
Però, anziché dire che loro fanno altro, che non fanno psicologia ecc… (cosa evidentemente falsa, anche alla luce di questa sentenza) penso sarebbe più onesto che si proponessero apertamente e chiaramente come concorrenti diretti degli psicologi. Almeno ci sarebbe più chiarezza.
In fondo è quello che si legge tra le righe di alcuni commenti qui sopra
Ok, adesso è tutto più chiaro.
Giusto, è vero, bravo: studiare è inutile, in fondo è solo un “accumulare nozioni”, che non servono affatto per “parlare dialogicamente e umanisticamente con la gente”.
Studiare psicologia (ma in fondo, qualunque altra laurea) fa solo “più male che bene” al futuro professionista della psiche. Ovvio.
Per fare psicoterapia basta l’intuito, l’esserci portati, il sentirsi dentro che lo puoi fare.
In fondo, a cosa serve studiare la psicopatologia, la tecnica del colloquio, la psicologia clinica, per fare psicoterapia ?
Assolutamente a niente, è evidente a chiunque (soprattutto a chi le stesse materie le insegna poi privatamente a pagamento nei corsi autoaccreditati per counsellor non laureati, dove improvvisamente servono e devono essere insegnate da un medico, guarda che coincidenza).
Bravo.
Comunque, il ragionamento è diffuso.
Lo dicono anche gli odontotecnici che mettono le mani in bocca ai pazienti: a cosa serve studiare tutti quegli anni lo sterile nozionismo dell’Odontoiatria ?
Potremmo suggerire loro di fondare l’odontoiatria dialogico-umanistica, aperta a tutti, contrapposta a quella scientista per cui serve la laurea. Per l’odontoiatria dialogico-umanistica, perdere tempo a studiare endodonzia o patologia generale è nozionismo sterile, inutile e dannoso.
E in fondo lo dicono anche le mammane: a cosa serve fare Medicina, con tutte quelle noiose cose complicate della biochimica e dell’endocrinologia, prima di infilare il ferro da calza secondo i dettami della ginecologia dialogica ? A niente, è chiaro.
Belle compagnie argomentative, che ci si sceglie a volte.
Mi ci metto anche io, consapevole dei rischi che corro, ma voglioso di farlo per amore della mischia.
Premetto che sono psicologo (cioè iscritto all’Ordine) e counselor. Lavoro
come educatore.
Ho studiato e mi sono laureato, con passione e impegno, perchè ho sempre desiderato fare lo psicoterapeuta, che nel mio mondo è semplicemente uno dei modi possibili per aiutare delle persone che hanno bisogno.
Ho aspettato inutilmente qualcuno all’interno dell’Università che mi
insegnasse qualcosa di pratico rispetto a come fare a realizzare il mio sogno (che, ripeto, riguarda un modo di essere bravo ad aiutare il prossimo): qualcuno mi mostrearà come condurre un colloquio, mi insegneranno come far sentire l’altro valorizzato e ascoltato o, al contrario, sfidato e scosso nelle sue rigide convinzioni!
Niente, o quasi niente. Quando c’era un ‘quasi niente’, era talmente poco da poter difficilmente diventare un apprendimento concreto, ed utilizzabile.
Nel frattempo, un po’ deluso, ho cominciato un corso di counselling in cui ho trovato molte cose di cui avevo bisogno, e che tra le pagine dei libri non si trovano, tra cui, fondamentale, l’incontro umano.
Ho studiato con passione anche lì, continuando in contemporanea i miei studi universitari.
Trovo che gli studi servano molto, ma anche che possono essere molto dannosi. Chiedo scusa in anticipo se sembrerò presuntuoso, ma ho visto molti (troppi) miei compagni di corso trovare difficile, se non impossibile, sperimentare un contatto umano senza mettere fra sè e l’altro i libri che avevano letto, e le teorie che avevano comprato senza poter disporre del senso critico che lo scontro con la realtà può regalare.
Incontrandomi (o scontrandomi) con il mondo del lavoro ho avuto la fortuna di incontrare persone in grado di sperimentare e promuovere questo contatto, in assenza di lauree o titoli altisonanti.
Ora che mi affaccio alla libera professione, penso che i miei studi universitari (e altrettanto quelli non universitari) mi serviranno ugualmente nel mio sogno (gli americani la chiamano mission, con un termine visionario che tende a mettere noi europei un po’ a disagio): se poi dovesse arrivare un counselor in grado di fare meglio di me, cercherò di capire come diavolo ha fatto.
Per tutti gli altri (ed è l’unica cosa che per me conta), vale la regola: vinca il migliore.
Penso però che il topic di questa discussione sia fondamentalmente deviato: cioè che noi psicologi non dovremmo cercare di far scomparire i counselor, ma chiederci: com’è possibile che NOI siamo nella condizione di sentire la nostra professione minacciata?
Perchè se lo è davvero come tanti pensano, forse significa che questa professione non è abbastanza professionale.
Amen.
Ringrazio “Roby” per avere scritto «da quel che capisco … lei postula (ma senza dimostrarlo) che esisterebbero due “cliniche” diverse, una umanistica ed una cognitiva-comportamentale, e che secondo lei sarebbero nettamente e positivamente distinguibili in maniera “discreta”» e per avermi attribuito opinioni di questo tenore: «Per fare psicoterapia basta l’intuito, l’esserci portati, il sentirsi dentro che lo puoi fare. In fondo, a cosa serve studiare la psicopatologia, la tecnica del colloquio, la psicologia clinica, per fare psicoterapia ?». Essendo questi i malintesi che tipicamente incontro quando parlo di queste cose, ringrazio il gentile interlocutore per avermi offerto l’occasione di chiarirli. Vado per punti.
1. Non penso assolutamente che esistano due cliniche diverse, né tanto meno che l’una possa essere detta umanistica e l’altra cognitivo-comportamentale. Sono personalmente impegnato da decenni nel campo dell’integrazione psicoterapeutica (ho curato l’organizzazione scientifica di diversi congressi su questo tema), e sono convinto che una buona pratica di psicoterapia o di counseling debba far tesoro delle esperienze accumulate in tutti e tre i filoni principali: psicodinamico, cognitivo-comportamentale ed esperienziale-umanistico. Diverse ricerche hanno mostrato che le differenze di scuola sono evidenti solo tra i terapeuti più inesperti, e quindi più ingenuamente convinti che la pratica debba conformarsi alle teorie che hanno imparato a scuola, mentre quanto più aumenta l’esperienza tanto più le pratiche (non le teorie che dovrebbero fondarle) si assomigliano, fino a diventare difficilmente distinguibili: questo perché con l’esperienza si impara a lavorare, come suggeriva Bion, “senza memoria e senza desiderio”, quindi dimenticando le teorie e sintonizzandosi sempre di più con il processo e il contesto: in una dimensione in cui i fattori tecnici perdono peso e significato a favore dei fattori comuni a tutte le relazioni di aiuto. Occorre distinguere, peraltro, la “docta ignorantia” di chi dimentica — cioè lascia da parte nella pratica — le teorie che comunque ha studiato, dall’ignoranza crassa di chi non ha studiato niente e si limita a improvvisare, come anche dall’ignoranza filosofica di chi, credendo di sapere, applica nel colloquio quello che sa piuttosto che mettersi in ascolto di ciò che non sa. Fatta questa distinzione, occorre chiedersi: qual è la “dottrina” che la dotta ignoranza deve imparare e poi dimenticare? Se ce ne fosse una, la psicoterapia sarebbe diventata una scienza come la fisica e la chimica. Invece ce ne sono centinaia. Ogni scuola insegna la sua, e tra le dottrine insegnate dalle diverse scuole i punti in comune possono essere molto vaghi, o del tutto assenti. In una scuola si insegna l’arte dell’interpretazione, in un’altra vige il divieto di interpretare. In una si coltivano scavi archeologici nel passato infantile, in un’altra contano solo i progetti per il futuro. E così via. E tuttavia una teoria o un modello è utile averli inizialmente — servono come mappe per orientarsi nel territorio della cura — per poi dimenticarli e imparare gradualmente a farne a meno quando con l’esperienza la guida passa sempre più dalla teoria (theory-driven therapy) al processo (process-driven therapy).
2. Se non esistono due cliniche, perché parlare allora di due psicoterapie? Perché di fatto esiste una macroscopica spaccatura del campo della “psicologia”, del tutto evidente anche ai non addetti ai lavori. Vedi per esempio l’articolo del New York Times del 10.08.04: « Good therapists usually work to resolve conflicts, not inflame them. But there is a civil war going on in psychology, and not everyone is in the mood for healing. On one side are experts who argue that what therapists do in their consulting rooms should be backed by scientific studies proving its worth. On the other are those who say that the push for this evidence threatens the very things that make psychotherapy work in the first place..”The split in the field is bigger than it ever has ever been,” said Dr. Drew Westen, a professor of psychology, psychiatry and behavioral sciences at Emory University. “The intensity of the acrimony, the distaste, has never been so high” ». Bisognerebbe essere ciechi per non vedere questa divisione del campo, che tuttavia non riguarda la clinica, o la pratica, bensì la teoria. E’ una guerra prevalentemente ideologica. Nella pratica anche i più accesi sostenitori degli studi clinici randomizzati dicono che questi servono per la ricerca, ma poi nella terapia reale non bisogna seguire quei protocolli. I risultati della ricerca non devono tradursi in manuali da seguire pedissequamente, ma in indicazioni da adattare al singolo paziente in un particolare momento e contesto, in modo da cucirgli un vestito su misura (“tailoring”). Di fatto, anche il terapeuta più procedure-oriented deve farsi guidare dal contesto e dal processo, perché si sa bene (diverse ricerche lo hanno confermato, se ce ne fosse bisogno) che qualsiasi terapia manualizzata funziona peggio di una “su misura”. E allora qual è il motivo di tanto contendere? Il motivo è che, anche se sbobinando le sedute è difficile cogliere le differenze, a meno che il trattamento non sia stato condotto in modo manualizzato, da un parte si sostiene che il fatto di seguire le indicazioni della ricerca empirica, per quanto adattate al contesto, fa comunque la differenza tra un lavoro serio, scientificamente fondato, e quello delle “fattucchiere” o dei “geometri”. Dall’altra si contrappone che la ricerca empirica fornisce indicazioni di scarso rilievo per la pratica reale, per la quale la ricerca utile è quella clinica (fenomenologico-ermeneutica), non quella empirica (extra-clinica). Le due schiere (degli “empirici” e degli “ermeneutici”) potrebbero convivere pacificamente fianco a fianco, se non fosse per la forte tendenza in atto a imporre l’orientamento evidence-based (dominante nelle facoltà mediche e psicologiche) anche a coloro per i quali «the push for this evidence threatens the very things that make psychotherapy work».
3. Ci sono nozioni di base, ad esempio, di psicopatologia o tecnica del colloquio che debbono essere conosciute prima ancora di iscriversi a una scuola di psicoterapia o di counseling? Non mi sembra. La tecnica del colloquio di uno psicoanalista è cosa ben diversa da quella di un comportamentista (anche se poi, come ho detto, nella pratica queste differenze sfumano e tendono ad assottigliarsi sempre di più con l’esperienza); e la psicopatologia fenomenologica è altra cosa da quella psicoanalitica. Se per fare lo psicoterapeuta o il counselor fosse necessaria una laurea in psicologia, i primi a trovarsi in difetto sarebbero i medici — e so bene che per alcuni psicologi anche i medici sono degli abusivi come i geometri, perché la psicoterapia, non essendo altro che psicologia clinica, di cui i medici non sanno un accidenti, è cosa loro. Così come ci sono medici convinti che la psicoterapia sia una branca della psichiatria, e continuano ancora oggi a considerare gli psicologi degli abusivi. Comunque, se stiamo ai fatti — ovunque la psicoterapia è esercitata da medici e psicologi, oltre che spesso anche da professionisti di altra provenienza — dobbiamo concludere che né le competenze mediche né quelle psicologiche, in quanto intercambiabili, sono ritenute di per sé necessarie per la psicoterapia o il counseling in nessuna cultura di nessuna parte del mondo. Punto, spero.
4. Se si pensa — e una buona metà del mondo psi lo pensa — che per essere un buon analista o counselor la formazione scientifica fornita da un corso di laurea serva molto meno della formazione personale acquisita attraverso le esperienze di vita, la terapia personale e la supervisione, ne consegue che a un candidato di talento e di ricca formazione personale non dovrebbe essere preclusa la professione di psicoanalista o counselor anche se privo di un diploma di laurea. In ogni modo, dato che la laurea è richiesta allo psicoterapeuta, trovo logico che lo sia anche al counselor che abbia un livello di formazione paragonabile (corso quadriennale), come già avviene negli Stati Uniti, dove i termini terapeuta e counselor sono praticamente sinonimi.
4. Infine, per quanto riguarda la lieve insinuazione che essendo io un medico che dirige una scuola di counseling ciò che dico sia viziato da interesse personale, con lo stesso garbo si potrebbe affermare che uno psicologo dice ciò che dice perché deve difendere la sua pagnotta. Posso chiedere ai gentili interlocutori di attenersi a un livello un po’ più alto di argomentazione?
citazione: “In ogni modo, dato che la laurea è richiesta allo psicoterapeuta, trovo logico che lo sia anche al counselor che abbia un livello di formazione paragonabile (corso quadriennale), come già avviene negli Stati Uniti, dove i termini terapeuta e counselor sono praticamente sinonimi.”
io mi fido di quello che dici, perché sei esperto nel settore, ed è strano che le associazioni di counseling finora hanno sempre detto il contrario, cioè che il counseling e la psicoterapia sono 2 cose diverse, che il counseling non c’entra niente con la psicologia e lo psicologo…
è per questo che gli psicologi si incavolano, perché sembra tanto una presa per i fondelli per aggirare l’ostacolo dell’abuso professionale
“Posso chiedere ai gentili interlocutori di attenersi a un livello un po’ più alto di argomentazione?” Ma per favore… il livello alto non sta nel tono o nei contenuti (molto alti e colti, certo, quelli di Tullio) ma soprattutto nella sostanziale autonoma fondatezza delle argomentazioni, nonché nella concretissima assenza di conflitti di interessi… che nel caso di Tullio ci sono eccome. In ogni caso, la richiesta di un “tono più alto” credo sia maldiretta, verso poveracci che cercano di fare del loro meglio nel complesso mondo della psicologia… Magari, da medico qual è, si rilegga queste cosuccie, ben riassunte da una ricerca divenuta famosa: <>
(Psychother Psychosom 2006;75:154–160)
Perché non lo chiediamo A LORO un tono un po’ più alto, a quel 100% di membri dei Panel su disturbi dell’umore e schizofrenia, ovvero i disturbi ad alto investimento farmaceutico? Siamo seri, e soprattutto non facciamo i puri. Nonostante le alte e colte argomentazioni, non c’è uno straccio di ragione che non sia economica per sostenere che un counselor NON debba aver studiato psicologia a livello laurea. e piantiamola di dire che non si riesce ad avere un contatto umano perché si sono studiati troppi libri. Davvero, qui si scade un po’ troppo.
Dovrebbe forse lei dimostrare il contrario, cioè che senza laurea in psicologia non sia possibile avere il contatto umano…
Per qualche motivo non è venuta riportata la citazione dalla rivista:
Of the 170 DSM panel members 95 (56%) had one or more financial associations with companies in the pharmaceutical industry. One hundred percent of the members of the
panels on ‘Mood Disorders’ and ‘Schizophrenia and Other Psychotic Disorders’ had fi nancial ties to drug companies.
The leading categories of financial interest held by panel members were research funding (42%), consultancies (22%) and speakers bureau (16%). Conclusions: Our inquiry into the relationships between DSM panel members and the pharmaceutical industry demonstrates that there are strong fi nancial ties between the industry and those who are responsible for developing and modifying the diagnostic criteria for mental illness. The connections are especially strong in those diagnostic areas where drugs are the fi rst line of treatment for mental disorders.
(Psychother Psychosom 2006;75:154–160)
Scrive Mario Rossi: «io mi fido di quello che dici, perché sei esperto nel settore, ed è strano che le associazioni di counseling finora hanno sempre detto il contrario, cioè che il counseling e la psicoterapia sono 2 cose diverse, che il counseling non c’entra niente con la psicologia e lo psicologo… è per questo che gli psicologi si incavolano, perché sembra tanto una presa per i fondelli per aggirare l’ostacolo dell’abuso professionale». Paradossalmente, ma non troppo, i counselor si trovano oggi esattamente nella stessa situazione in cui si trovavano gli psicologi ieri: accusati di esercizio abusivo della psicoterapia quelli perché privi di laurea in psicologia, questi perché privi di laurea in medicina. E la difesa dei counselor da parte delle associazioni è oggi esattamente la stessa di Rogers settant’anni fa: il counseling non è psicoterapia, perché non cura la patologia ma si limita a favorire lo sviluppo delle risorse personali – così come la psicoanalisi si limita a favorire lo sviluppo della consapevolezza (a meno che non pretenda di curare disturbi come l’anoressia, nel qual caso la Cassazione ha ragione di equipararla alla psicoterapia). Una volta caduto il divieto agli psicologi di praticare la psicoterapia, Rogers si disinteressò della distinzione tra counseling e psicoterapia, usando indifferentemente entrambi i termini per il suo approccio centrato sulla persona, senza per questo rinnegare la sua posizione precedente. Come è possibile questo? E’ possibile perché le due affermazioni «la psicoterapia e il counseling sono due cose differenti» e «la psicoterapia e il counseling sono la stessa cosa» sono entrambe vere, per il semplice fatto che con la parola psicoterapia si intendono due cose completamente diverse: la cura di disturbi fisici, emotivi e mentali di ogni tipo mediante procedure scientificamente validate, e la cura del sé o della persona mediante una relazione empatica e dialogica che è terapeutica ma non in senso sanitario, in quanto è basata sull’applicazione dei fattori comuni a tutte le relazioni di aiuto, da quella genitoriale in avanti (accettazione incondizionata, confronto con la realtà, conoscenza delle risorse e dei limiti personali, sviluppo della capacità di provare fiducia e speranza, e simili). Per la prima è giustamente richiesta una formazione scientifica, per la seconda conta soprattutto la formazione personale che si ottiene soprattutto con l’immersione prolungata in relazioni adeguatamente fornite di quegli stessi fattori. Il fatto poi che nella pratica le due cose, così diverse concettualmente, siano difficilmente distinguibili, è da ricondurre a parere mio e di molti altri allo stesso motivo che di meta-analisi in meta-analisi continua a produrre mangime per l’uccello Dodo: le procedure tecniche cui le diverse scuole attribuiscono i risultati delle loro terapie, e per le quali producono abbondanza di ricerche empiriche che ne attestano scientificamente la validità, in realtà incidono in misura abbastanza trascurabile sull’esito della cura, che invece è determinato principalmente proprio da quei fattori trasversali a tutte le relazioni di aiuto che nulla hanno a che vedere con quella scienza che per una parte del campo sarebbe così necessaria per una pratica seria della psicoterapia.
A fronte di questo stato di cose, Franco Nanni ribadisce: «Nonostante le alte e colte argomentazioni, non c’è uno straccio di ragione che non sia economica per sostenere che un counselor NON debba aver studiato psicologia a livello laurea». Vero: non non mi sognerei mai di sostenere che un counselor *non deve* aver studiato psicologia a livello laurea (per quanto a volte gli studi accademici possano essere di ostacolo in questa professione, come testimonia anche Giacomo, psicologo iscritto all’ordine). Ma non vedo nemmeno come si possa sostenere il contrario: che un counselor *deve* avere studiato psicologia a livello laurea. Infatti non lo si sostiene in nessuna parte del mondo, perché per farlo bisognerebbe sapere come minimo: a) che cosa è il counseling; b) che per praticare il counseling sono indispensabili alcune nozioni fondamentali di psicologia; c) che queste nozioni si possono apprendere in un corso di laurea ma non in una scuola di counseling. Quanto ad a): esiste una miriade di scuole di counseling basate sui principi più disparati. La psicologia che si insegna in una scuola di orientamento comportamentale non è certo quella che si trova in una di orientamento psicoanalitico. E che dire delle scuole di counseling filosofico? Il gentile interlocutore probabilmente le farebbe chiudere come covi di abusivi, se potesse. Ma se mai ne avesse il potere, che Dio ce ne scampi, gli consiglierei prima di arrivare a una decisione così drastica di leggere almeno qualcosa di Pierre Hadot, Martha Nussbaum e Michel Foucault. Potrebbe rendersi conto di com’era raffinata e com’è ancora attualissima la terapia filosofica degli antichi che fiorì prima che, col cristianesimo, la filosofia diventasse ancella della teologia. Per vietare il counseling filosofico, il gentile interlocutore dovrebbe almeno dimostrare che quelle pratiche sono obsolete e del tutto superate dalla moderna psicologia scientifica. Impresa dall’esito molto incerto, a dir poco. Quanto a b), per quanto precede sarà chiaro che definire un insieme di nozioni di psicologia che tutte le scuole di counseling, o almeno la maggioranza, ritengano fondamentali è un compito impossibile. A meno di non stabilirlo d’autorità (accademica): ma questa non sarebbe una dimostrazione, bensì, com’è ovvio, una petizione di principio. Quanto a c), anche volendo ammettere che c’è qualcosa di psicologico che tutti i counselor debbono conoscere, come fare a dimostrare che solo un corso di laurea in psicologia è in grado di trasmetterlo? Si potrebbe pensare a una ricerca empirica randomizzata: mettere a confronto un gruppo di counselor con laurea in psicologia e uno senza, per vedere se esistono differenze e quali nella competenza professionale acquisita secondo una serie di parametri. Ma se fossi uno psicologo una ricerca del genere non la farei, per timore che il gruppo dei non psicologi ne esca meglio.
Un’ultima osservazione sul conflitto di interessi. Certamente uno psichiatra può avere interesse ad aprire una scuola di psicoterapia o di counseling (ma non un interesse economico, posso garantire che non sono attività con cui si fanno soldi – va già bene non perderne), così come uno psicologo può avere interesse a eliminare la competizione dei counselor dal mercato. Gli interessi ci sono e fanno parte della vita, ma delle due l’una: o si crede che sia possibile creare uno spazio di dialogo grazie a una sufficiente presa di distanza da pregiudizi e interessi di ogni sorta, e si punta alla creazione di questi spazi ovunque sia possibile, o non resta che la competizione darwiniana tra interessi, o l’indottrinamento dei deboli da parte dei forti.
Carere, ci prendiamo in giro ?
Il counselling, in tutto il mondo, è il termine tecnico con cui si definisce la consulenza ed il sostegno psicologico. Questo sia a livello scientifico che di organizzazione delle professioni.
Lo sai te, lo so io, la sa la mia coscienza, lo sa la tua coscienza.
Come tu ti voglia immaginare che invece sia nella tua fantasia personale, per poter fondare una scuola privata senza sentirti in contraddizione con te stesso, è irrilevante.
Adesso stai arrampicandoti sugli specchi per cercare di giustificare che, nel tuo mondo di fantasia, non servono conoscenze di psicologia, psicopatologia e tecnica del colloquio come preparazione alla consulenza psicologica (anzi, secondo te sarebbero perfino dannose).
Esemplare modello di logica.
Immagino che sia quindi solo un caso che, proprio tu, queste stesse materie le insegni alla modica cifra di 1800 euro più IVA all’anno nei tuoi corsi privati autoaccreditati, in cui insegni… la psicopatologia, la psicologia e il colloquio, per fare non si sa cosa, a diplomati di scuola superiore.
Che si fa, vuoi andare avanti a fare finta di niente ancora a lungo ?
Sul surreale discorso che “dimostratemi che le conoscenze scientifiche le deve dare l’università”: anche le conoscenze di medicina interna e clinica pediatrica te le può fornire un corso privato autoaccreditato fatto dal primo che passa, ma guarda caso quando si ha a che fare con la salute della gente lo Stato richiede che la formazione di base sia di tipo universitario, e ti chiede una laurea prima di permetterti di andare a fare in giro i tuoi approfondimenti privati.
Ma anche questo tu lo sai benissimo, e immagino che non ti fai mettere le mani addosso da un panettiere che vorrebbe tanto fare il dentista e che si è formato una volta alla settimana al corso privato in un appartamento di periferia della scuola autoaccreditata di Odontoiatria Umanistica.
Devo immaginare però che sentirsi un “Direttore di Scuola” e guardagnarci migliaia e migliaia di euro a studente privato ti faccia sentire così bene da mettere queste considerazioni in secondo piano.
Bravo, un modello di coerenza.
Carere, ci prendiamo in giro ?
Il counselling, in tutto il mondo, è il termine tecnico con cui si definisce la consulenza ed il sostegno psicologico. Questo sia a livello scientifico che di organizzazione delle professioni.
Lo sai te, lo so io, la sa la mia coscienza, lo sa la tua coscienza.
Come tu ti voglia immaginare che invece sia nella tua fantasia personale, per poter fondare una scuola privata senza sentirti in contraddizione con te stesso, è irrilevante.
Adesso stai arrampicandoti sugli specchi per cercare di giustificare che, nel tuo mondo di fantasia, non servono conoscenze di psicologia, psicopatologia e tecnica del colloquio come preparazione alla consulenza psicologica (anzi, secondo te sarebbero perfino dannose).
Esemplare modello di logica.
Immagino che sia quindi solo un caso che, proprio tu, queste stesse materie le insegni alla modica cifra di 1800 euro più IVA all’anno nei tuoi corsi privati autoaccreditati, in cui insegni… la psicopatologia, la psicologia e il colloquio, per fare non si sa cosa, a diplomati di scuola superiore.
Che si fa, vuoi andare avanti a fare finta di niente ancora a lungo ?
Sul surreale discorso che “dimostratemi che le conoscenze scientifiche le deve dare l’università”: anche le conoscenze di medicina interna e clinica pediatrica te le può fornire un corso privato autoaccreditato fatto dal primo che passa, ma guarda caso quando si ha a che fare con la salute della gente lo Stato richiede che la formazione di base sia di tipo universitario, e ti chiede una laurea prima di permetterti di andare a fare in giro i tuoi approfondimenti privati.
Ma anche questo tu lo sai benissimo, e immagino che non ti fai mettere le mani addosso da un panettiere che vorrebbe tanto fare il dentista e che si è formato una volta alla settimana al corso privato in un appartamento di periferia della scuola autoaccreditata di Odontoiatria Umanistica.
Bravo, un modello di coerenza.
Buongiorno a tutti e bentrovati,
mi colpisce ritrovare ancora molta polemica, evidentemente il dibattito rischia di avvitarsi su se stesso per motivi che esulano dalla realtà dei fatti. Dal tono di alcuni commenti mi sembra di vivere nell’America degli anni cinquanta, in cui si scontravano da un lato psicoanalisi, dall’altro comportamentismo, e poi si inseriva la “terza via” umanistica a buttare all’aria le carte. La situazione attuale non è quella, però: attualmente la psicologia in Italia è un percorso di formazione e professionale molto articolato, che comprende ormai elementi di tutte e tre le correnti sopra citate e altri sviluppi, nel senso del pluralismo scientifico, con dignità professionale e legittimità istituzionale a operare in molti settori della società. Questo si deve alla rapida psicologizzazione della società italiana negli ultimi decenni, dopo un’epoca di rifiuto ideologico della psicologia. Questo enorme “bisogno di psicologia” è frutto come capita spesso di una moderna società del benessere, cioè è un fenomeno sociale e culturale, prima che clinico o scientifico. I counselor e co. nostrani si collocano in questo contesto: recente istituzione della professione di psicologo con alto valore aggiunto (Ordine professionale), bisogno e domanda diffusa di interventi di natura psicologica nei diversi contesti sociali, dimensione socioeconomica del professionista psicologo ancora incerta. Non siamo più nell’America di Rogers, siamo in un diverso contesto culturale in cui è sensato vedere il counseling come uno dei possibili percorsi della professione psicologica, non come qualcosa di esterno ad essa.
Ben rientrati a tutti dalle vacanze. Il dibattito si è sviluppato in maniera davvero interessante, tuttavia mi pare che si sia perso di vista l’oggetto del topic.
Per me la questione è davvero molto semplice: l’articolo 21 del codice deontologico degli psicologi vieta agli psicologi di insegnare tecniche psicologiche.
A questo punto la domanda che io mi pongo è la seguente: è possibile avere un elenco dal quale evincere quali siano le tecniche psicologiche?
E, possibilmente, per ogni “tecnica” elencata, avere anche una descrizione nonché i riferimenti legislativi o giurisprudenziali dai quali si evinca che tale “tecnica” è da intendersi come riservata.
A quanto mi risulta, ad oggi, abbiamo i seguenti riferimenti (correggetemi se sbaglio):
1. Articolo 1, L. 56/89, che però non risolve il problema in quanto, oltre ad essere molto vago e ad abbracciare uno spettro amplissimo, non fa riferimento alcuno alla differenza intercorrente tra atti tipici, atti caratterizzanti ed atti riservati. E’ in sostanza un articolo tautologico, giacché dice che lo psicologo è colui che si occupa di psicologia (più o meno).
2. Interpretazione unanime dell’articolo 21 del c.d. per quanto concerne l’insegnamento dei test (se tutti sanno cosa, come e perché un test perde di validità).
3. Sentenza Platè che ha sancito che la somministrazione di batterie finalizzate alla selezione del personale è riservata agli psicologi.
4. Alcune sentenze opposte della Cassazione in tema di psicoanalisi (l’ultima sfavorevole agli psicoanalisti laici, la penultima invece favorevole).
5. Due sentenze inerenti il counseling definitive (altre in corso) che però non hanno risolto la questione: hanno accertato o meno l’abuso, ma non hanno chiaramente definito cosa sia una cosa e cosa sia l’altra.
Mi risulta inoltre che il CNOP a suo tempo aveva avviato i lavori della Commissione sugli atti tipici. Ma mi risulta altrettanto che, ad oggi, tale Commissione non abbia prodotto niente.
Mi risulta che anche l’Ordine della Lombardia abbia avviato dei propri lavori in tal senso, ma anche qui non mi pare sia stato pubblicato niente.
Qualcuno può dunque illuminarmi?
Se io fossi uno psicologo chiederei al mio Ordine cosa potrei o non potrei insegnare – di psicologia – in corsi rivolti a non psicologi, giacché mi parrebbe assurdo che l’Ordine mi vietasse tout-court di insegnare a soggetti non psicologi.
Dunque, se fossi psicologo, per la mia tutela vorrei sapere esattamente cosa il mio Ordine ritiene “tecnica” psicologica.
C’è qualcuno in grado sensatamente di rispondere a queste domande? Altrimenti continuiamo a parlare del niente…
Se infatti prendiamo una qualunque altra professione ordinistica, di ognuna sappiamo esattamente chi può fare cosa. Ed in maniera molto dettagliata, per di più.
Sappiamo che un geometra può firmare la richiesta per una ristrutturazione, ma sappiamo ad esempio che non può firmare la richiesta di un recupero edilizio. E sappiamo inoltre, tecnicamente parlando, la differenza che intercorre tra una ristrutturazione ed un recupero edilizio.
Sappiamo ad esempio che un commercialista può certamente seguire il proprio cliente nella compilazione delle dichiarazioni ai fini degli studi di settore, ma che solo il revisore contabile può asseverarle.
Come mai per l’Ordine degli psicologi questo, in oltre venti anni, non è stato possibile?
A volerla dire tutta, in quanto cittadino e potenziale paziente di uno psicologo, non mi sento molto tutelato da un professionista di cui non riesco a sapere cosa può fare…
In quanto psicologo, ci terrei anch’io ad avere queste risposte da parte dell’Ordine. O meglio, ci terrei, se non fosse evidente che una risposta del genere è impossibile formularla in modo univoco, e condivisibile da tutti (con la relativa eccezione dei test psicologici, FORSE).
Tanto per scendere nel concreto, qualcuno degli accaniti difensori del Fort Alamo della psicologia potrebbe cortesemente – a beneficio, credo, anche del dibattito in corso – spiegarmi in cosa consiste il fantomatico metodo del colloquio che – sempre in quanto psicologo – dovrei gelosamente proteggere, evitando che venisse divulgato ai profani.
Potrebbe anche spiegarmi come e in che modo io – provando a discutere di come si conduce un buon colloquio (ascoltando, facendo domande e ipotesi, scartandole man mano, etc. etc. etc.) di fronte a un uditorio di non psicologi* – starei minando le basi della mia professione e la salute pubblica? Qualcuno sa spiegarmelo?
Che cosa, secondo voi, è lecito insegnare ai profani? E che cosa no? Siete in grado di chiarirmelo?
Prima di rispondere, suggerisco anche il ripasso della art. 33 della Costituzione Italiana…
——
* E a questo punto non fa differenza che lo stia facendo in una scuola di counseling, a un corso dell’Università della terza età o in un incontro di formazione aziendale…
Mi sono chiesto perché ho sentito l’impulso di rientrare in questo dibattito, dopo essermi accomiatato al termine della prima fase. La risposta che ho trovato è questa: avevo bisogno di convincermi, in modo quasi-sperimentale, della spaccatura ormai insanabile che attraversa il mondo psi. In questo supplemento di dibattito di fine agosto ho visto due schieramenti drasticamente contrapposti. Due visioni della psicologia e del mondo, due stili, due linguaggi. Un fossato insuperabile. L’unica speranza per evitare la guerra civile, o meglio per arrivare a un armistizio nella guerra in corso, mi sembra essere nella presa d’atto di questa distanza incolmabile, nel riconoscimento dell’impossibilità attuale di gettare un ponte dialogico-dialettico tra le due sponde, e nella costruzione di un confine delimitante due aree in cui le due popolazioni psi possano vivere fianco a fianco, ciascuna dalla sua parte e nel rispetto reciproco. E’ ancora un’utopia, perché mi sembra che una delle due parti, quella scientifico-accademica, neghi all’altra il diritto all’esistenza, considerandola non come un soggetto collettivo portatore di una visione alternativa alla sua, ma semplicemente come una banda di selvaggi, abusivi e affaristi. Che fare, nel frattempo? Più che nella via giudiziale, ho fiducia nella testimonianza portata in ogni sede da chi crede nel valore delle proprie idee e del proprio lavoro. Anche se le nostre parole sembrano cadere nel vuoto, o essere accolte con derisione e disprezzo, se c’è qualcosa che alla fine potrà fare la differenza credo sia soprattutto questa testimonianza. Avendola data qui, per come ho potuto, prendo ancora una volta commiato, ringraziando i miei interlocutori di entrambe le sponde.
in mezzo a tutte queste polemiche qualcuno mi sa dire, per cortesia, come è regolamentato il counseling all’estero? (Europa, America…) perché, con tutta la mia buona volontà, ho cercato in internet ma non ho trovato niente.
Ogni volta escono sempre le solite discussioni sulle sentenze…sarebbe per me utile sapere invece come funziona il counselor e il counseling in altri Paesi…anche per maturare una mia opinione a riguardo…grazie!!!
Buongiorno Mario, è difficile poter effettuare dei paragoni con l’estero, specialmente con i paesi anglofoni (Inghilterra, USA, etc.), poiché lì vige un modello professionale diverso dal nostro.
Prima però occorre una premessa: il “counseling” in questi paesi non è affatto la traduzione di “consulenza psicologica”.
Questa si chiama “consulting psychology” e l’APA ne dà una precisa definizione: “Consulting psychology shall be defined as the function of applying and extending the specialized knowledge of a psychologist through the process of consultation to problems involving human behavior in various areas. A consulting psychologist shall be defined as a psychologist who provides specialized technical assistance to individuals or organizations in regard to the psychological aspects of their work. Such assistance is advisory in nature and the consultant has no direct responsibility for its acceptance. Consulting psychologists may have as clients individuals, institutions, agencies, corporations or other kinds of organization”.
Esiste inoltre una specifica divisione dell’APA, la numero 13, che è la “Society of Consulting Psychology”.
In Inghilterra, dove vige il modello accreditatorio (assenza di Ordini professionali e di Leggi di regolamentazione di singole professioni), per diventare counselor occorre farsi accreditare da un’associazione di riferimento (come la BACP, ad esempio) che definisce gli standard formativi, quelli del mantenimento della certificazione, della supervisione, etc. Proprio come facciamo noi in Italia con la nostra associazione di categoria (AssoCounseling), ad esempio.
In Irlanda il meccanismo è simile a quello inglese.
In America, dove il modello è un po’ diverso da quello inglese, esiste un organismo – il CACREP (Council for Accreditation of Counseling and Related Educational Programs) – che definisce a monte gli standard formativi. Successivamente agli studi occorre ottenere quella che negli USA si chiama “license” (che è diversa per ogni Stato), che è paragonabile a quello che da noi è l’esame di Stato, e successivamente ci si può fare accreditare – come in Inghilterra – da un’associazione di categoria di riferimento (anche lì non esistono gli Ordini professionali).
Da notare che in questi tre paesi anglofoni non è obbligatoria la laurea specifica in psicologia.
In Argentina il counseling è diventata una professione autonoma da pochissimi anni, dopo una lunga battaglia che l’ha sganciato definitivamente dall’equivalente del nostro Ordine degli psicologi. Anche qui non è richiesta una laurea in psicologia, ma uno specifico percorso formativo. In particolare in Brasile i programmi di studio sono mutuati dal CACREP statunitense.
In Francia il counseling non è regolamentato, così come non lo è la psicologia (in Francia non esiste l’Ordine degli psicologi né una Legge di ordinamento) o la psicoterapia.
In Austria è stata varata una Legge specifica sul counseling di recente, che riconosce come titoli validi ai fini dell’esercizio della professione sia percorsi pubblici (università) che privati.
Negli altri paesi europei, in generale, il counseling non è regolamentato. A tal proposito ti consiglio di dare un’occhiata al sito della European Association for Counselling (EAC) dove potrai vedere tutti i paesi aderenti e, seguendo i link di ognuno, trovare informazioni specifiche per quei paesi.
Carere, non cercare di evitare di rispondere lasciando cadere le domande a cui non sai rispondere.
Prima dici che il colloquio, la psicopatologia, le tecniche della psicologia clinica non sarebbero conoscenze necessarie per fare consulenza psicologica (o counselling, per chiamarlo all’inglese), però poi salta fuori che sono esattamente le stesse cose che insegni tu a pagamento nel tuo corso privato autoaccreditato. Non fa una piega.
E non cercare di confondere i piani teorici con quelli normativi, sono anni che gli psicologi cercano di chiarirvi invano questo punto (basta leggere gli articoli di AltraPsicologia).
Non esiste una “psicologia scientifica” fatta da laureati e che si sostanzia nella psicoterapia, fantasiosamente contrapposta ad una “psicologia umanistica” fatta da counsellor senza laurea.
Il piano teorico del proprio orientamento teorico personale non c’entra niente con quello normativo delle abilitazioni di legge, è evidente a chiunque non abbia interessi a far credere il contrario.
Se qualcuno vuole fare consulenza psicologica (in inglese, counselling), che sia con un approccio cognitivo, o con un approccio umanistico-esistenziale, o con un approccio sistemico, prima si laurea e si abilita, e poi lo fa. Se fa counselling (consulenza psicologica) senza laurea e abilitazione, abusa di professione sia che abusi in stile cognitivo, sia che abusi in stile rogersiano o che abusi in stile psicoanalitico.
Il piano teorico personale è una cosa che non c’entra niente con il piano normativo statale.
Per ultimo, non chiedere che aderiamo acriticamente alla tua rappresentazione di “due mondi professionali che si devono rispettare”: non ci sono due realtà normativamente paragonabili, perchè da un lato c’è una professione regolamentata, dall’altro un gruppo eterogeneo di persone (spesso nemmeno laureate) autoaccreditate, che delle due l’una: o abusano di una professione senza averne titolo, o non si capisce bene cosa facciano (e perchè, se davvero non fanno nulla di psicologico, hanno allora così bisogno di studiare tanta psicopatologia, psicologia e colloquio psicologico nei loro corsi privati).
Ti ascoltiamo attentamente.
Trovo anch’io che questa scissione tra umanisti e scientisti, antipatica e deleteria, abbia fatto il suo tempo e che non c’entri con la questione psicologi-non psicologi.
Ciao a tutti. Ho letto il lungo dibattito in cui sono andate incrociandosi e sovrapponendosi varie questioni. Scrivo, da buon ultimo, senza l’illusione di dire qualcosa di nuovo o definitivo, ma con l’intenzione di chiarire (a me stesso e agli altri) la mia posizione attuale su alcuni degli aspetti discussi.
Leggendo quanto scriverò, alcuni forse penseranno che le mie opinioni siano il frutto di un interesse per la pagnotta – anch’io, psichiatra e psicoterapeuta, insegno infatti come Carere nella scuola di counseling che, con Nicoletta Freti, abbiamo fondato a Bergamo.
Non rinuncio però a sperare che quanto scrivo possa anche essere considerato come il frutto di un’esperienza sufficientemente genuina e non troppo inquinata da presunti interessi ( suggerisco comunque a chi volesse fare i soldi insegnando nelle scuole di counseling di valutare opzioni decisamente più redditizie !).
La posizione di Carere a me sembra piuttosto chiara e, condivisibile o no, non vedo cos’altro Tullio potrebbe rispondere – dopo aver scritto a lungo per cercare di spiegarsi- a chi, come Roby, sembra chiuso a qualsiasi disponibilità dialogica.
La mia posizione è la seguente ( in progress, ovviamente).
Nella mia esperienza ho conosciuto bravi counselor, psicologi e psichiatri – altri a mio parere lo erano meno…
Il primo requisito che io valuto è la “personalità terapeutica”. Essa non è appannaggio delle categorie psy : anche un infermiere può avere un’ottima personalità terapeutica, mentre conosciamo tutti medici e psicologi che ne sono sprovvisti. Se, a partire da questa base – e naturalmente potremmo poi chiarire più a fondo cosa intendiamo con tale concetto, ma credo che intuitivamente ci si possa arrivare- aggiungiamo poi un lavoro di terapia personale, studio e letture, tanta supervisione ed un’ esperienza tri/quadriennale di colloqui supervisionati- noi facciamo praticare sin dall’inizio il co-counseling agli allievi – ci avviciniamo alla possibilità di formare un counselor sufficientemente capace e affidabile. Io penso che non esista un’unica strada per arrivare ad occuparsi con capacità e competenza dei problemi esistenziali delle persone. Può servire una preparazione di base ricevuta all’università (psicologia), può, con molto impegno, farcela anche un medico : )… ma perchè escludere che una persona di discreta cultura, con una buona personalità terapeutica, interessata a studiare e approfondire la psicologia, a coltivare materie come la filosofia (intesa come pratica di vita), l’arte (nella sua dimensione conoscitiva e risanativa) possa, dopo aver fatto un lavoro su di sé e facendosi aiutare per anni da un’ attenta supervisione, dedicarsi al counseling ?
Posso dire che i cinque anni di insegnamento nella scuola di counseling mi hanno permesso di conoscere persone intelligenti e appassionate che, pur non avendo una laurea in psicologia o medicina (ma magari ne avevano una o due in altre discipline), mi hanno mostrato che è possibile realizzare con buoni risultati a un percorso formativo che privilegia l’apprendimento esperienziale e che valorizza le qualità, il modo di essere di queste persone. La consapevolezza della complessità dell’esperienza umana deve indurci all’umiltà e alla prudenza, senza però farci rinunciare alla possibilità di sviluppare e beneficiare del potenziale curativo di cui dispongono persone talentuose, seppur prive di una laurea in psicologia.
Diciamocelo forte: tutto il fumo neglio occhi (con tanta e rispettabilissima cultura e savoir faire) di queste “spaccature” in questo dibattito dovrebbe finire una volta per tutte. Se Carere vuol sentirsi un perseguitato da questa scissione, faccia pure, a patto di ricordarsi che, messo in questa forma, e spacciato come un correlato del problema Counsling sì/no, è un suo wishful thinking e nulla più.
Altrimenti continuare a dibattere su quei binari rischia di far diventare questo forum la fiera delle false coscienze. Evitiamo.
Però, detto questo, gli ordini psicologi non penseranno di poter spazzare via i cpunselor a forza di sentenze… al massimo (e GIUSTAMENTE) si può far cessare il business per il futuro. Ma Una buona regolamentazione del counseling è interesse di tutti. E, insisto, se gli ordini si sporcassero le mani e indagassero sulla possibilità di creare dei registri di Counselor abilitati alla professione di psicologo (io sono uno, ma leggendo questi post vedo che non sono l’unico) e facesse una seria campagna informativa? Almeno per dire che SE il counseling è materia psicologica, allora è di pertinenza degli ordini, in qualche modo…
Anni fa l’Ordine della Lombardia, non so se anche in altre regioni, aveva posto in essere il titolo di “esperto” per varie sottospecialità professionali – tra questi vi era anche il titolo di “esperto in counseling psicologico”. A mio avviso una utile attestazione perché permetteva di differenziare meglio l’attività dello psicologo fin dagli inizi della professione (dopo pochi anni si poteva chiedere l’attestato) e creare una migliore comunicazione con il mondo del lavoro presentando competenze certificate. Questo poteva essere un percorso virtuoso in associazione ad esempio con le proposte che ci sono state e che poi sono cadute nel vuoto di creare corsi di specializzazione postuniversitarie nell’università pubblica proprio in counseling psicologico (ma ad esempio anche in neuropsicologia), non mirando solo alla psicoterapia come sbocco professionale. Con il passare del tempo tutto questo è naufragato, per problemi più o meno noti, ed è finito tutto con l’esplosione delle scuole e scuolette private di psicoterapia. Paradosso della nostra situazione: un numero infinito di psicologi che ha come solo sbocco di specializzazione la psicoterapia (nemmeno più la psicologia clinica) che ha un mercato ristretto e che poi finiscono a fare attività non psicoterapeutiche grazie a questo titolo! Non è più saggio proporre percorsi ben definiti e articolati che permettano di far “crescere” gli aspetti accademici e quelli professionali (in un modo affine, ma non sovrapposto a quello che fanno i medici con le specialità)?
x Tommaso Valleri:
grazie per l’excursus, ora almeno ho le idee un po’ più chiare. Altra domanda: in tutti questi Paesi per accedere ai corsi di Counseling bisogna essere laureati (non necessariamente in psicologia, ma anche in altre lauree sociali, diciamo) o sono corsi aperti a tutti? Nel primo caso sarebbero dei “master” nel secondo caso dei “corsi di formazione”.
x Davide:
il titolo di “esperto” mi sembra una buona idea…come tutte le buone idee in Italia è naufragata!!
Ciao Mario, anche qui è difficile darti una risposta lineare. In generale, nella maggioranza degli altri paesi, esistono solo due professioni per le quali è richiesto l’equivalente del nostro percorso di laurea quinquennale. Queste professioni sono quella di medico e quella di avvocato, e questo perché in quasi tutti i paesi il diritto alla salute e il diritto alla difesa sono due diritti sanciti dalle rispettive Costituzioni.
Ciò premesso, in generale la maggior parte dei paesi richiede un primo step universitario di base che è uguale per tutti, e che indicativamente si differenzia tra “studi umanistici” e “studi scientifici”. Come nel caso dei paesi anglofoni dove troviamo il “bachelor of arts” e il “bachelor of sciences”. Il percorso è triennale e totalmente abilitante a qualsiasi professione (ad eccezione di medico e avvocato e di poche altre a seconda del paese di riferimento).
Molti dei percorsi di counseling sono ricompresi poi all’interno di percorsi universitari, ma qui occorre fare attenzione: all’estero – specialmente fuori dall’Europa – l’università è impostata in maniera molto diversa (ad esempio negli USA, in Inghilterra, in Australia, etc. il titolo di “dottore” viene dato solo ai laureati in medicina) e dunque il fare un percorso all’interno di un’istituzione universitaria non significa acquisire un diploma di laurea.
Dunque la risposta è che, nella maggior parte dei paesi esteri, non è necessaria una laurea per esercitare il counseling, né tanto meno una laurea specifica in psicologia.
Come associazione professionale di categoria noi stiamo da molto discutendo se istituire o meno l’obbligo di un triennio universitario. La decisione è tuttavia molto complicata poiché non risponderebbe agli standard attuali di accreditamento europei. Inoltre c’è sempre il problema che noi abbiamo una visione diversa di quella espressa dalla maggior parte degli psicologi, e dunque anche ammettendo un triennio universitario non potremo certo vincolarlo alla triennale di psicologia.
Peraltro, in buona parte, questo è un falso problema: la quasi totalità dei nostri iscritti, ad esempio, è laureata in qualche materia.
Un’altra ragione è data dal fatto che la riforma universitaria della Moratti del ’94, pur nobile nelle premesse, si è poi trasformata nella solita pagliacciata all’italiana. In sostanza, negli altri paesi, si tende a istituire percorsi immediatamente professionalizzanti per gli studenti, così da evitare che la gente esca di casa e vada a lavorare a 40 anni…
Infatti all’estero, l’equivalente della nostra laurea è solo lo step finale (molto finale…) di un lunghissimo percorso. Negli altri paesi dopo il triennio puoi fare subito l’equivalente della nostra specializzazione, cosa che da noi puoi fare solo dopo esserti laureato. Questa specializzazione all’estero è chiamata master.
Mi rendo conto che l’argomento sia molto complicato… ma spero di averti dato un po’ di informazioni.
Saluti
dunque se ho capito bene all’estero non esiste la “professione” di counselor, ma è una master che aggiunge competenze a chi già svolge una professione di aiuto?
No Mario, affatto. All’estero esiste!!! La sua qualifica la si può raggiungere in modi diversi: percorso universitario, master, corso di formazione, etc. Non c’è una strada sola.
Per comprendere bene questi meccanismi occorre che comprendi bene come funzionano le professioni fuori dall’Italia: in genere all’estero non esistono forme ordinistiche di autorizzazione all’esercizio di una professione (eccezion fatta per medico e avvocato, come ti dicevo nel precedente post) come avviene in Italia e in pochi altri paesi, ma esistono processi accreditatori dove l’ente accreditante, quasi sempre, non è mai lo Stato. Ma associazioni professionali. Associazioni che spesso sono gli enti a cui lo Stato si rivolge per avere garanzie su alcuni professionisti.
In sintesi:
– mi formo in una qualche disciplina dove per formazione non si intende necessariamente un percorso universitario;
– a quel punto posso decidere se lavorare senza accreditamento (cosa spesso possibile) oppure richiedendo l’accreditamento ad un’associazione di categoria;
– in alcuni paesi esiste l’equivalente del nostro esame di Stato (la “license” statunitense, ad esempio), ma quasi da nessuna parte esistono gli ordini professionali, dove per “ordine” si intende un ente cui sei obbligato ad aderire se vuoi lavorare.
A questo punto, già che ci sono, mi permetto una piccola digressione.
Un’altra grande differenza è che all’estero:
– o esiste la protezione del titolo professionale
– o esiste la protezione della funzione
ma mai queste due cose convivono, poiché rappresenterebbero una inutile restrizione di accesso al mercato. Solo in Italia queste cose vanno di pari passo…
Esempio 1: se in un paese il titolo di “psicologo clinico” è un titolo protetto, significa che solo se ho acquisito quel titolo posso utilizzarlo. Ma nulla toglie che possa fare quello stesso lavoro anche se non possiedo quel titolo, basta che non lo utilizzi. Ovvero che usi un altro nome. Questa è la protezione del titolo professionale.
Esempio 2: se in un paese il titolo di “psicologo clinico” è un titolo non protetto, chiunque si può definire tale. Ma magari, per lavorare in ambito clinico all’interno di un ospedale, anche se ti autodefinisci psicologo clinico hai bisogno di un accreditamento particolare per svolgere quella funzione. Questa è la protezione della funzione professionale.
In Inghilterra chiunque può definirsi counselor, o counselor scolastico o quel che vuoi. Ma se vuoi lavorare nella scuola come counselor, a quel punto il definirsi tale non basta, poiché avrai bisogno di un accreditamento.
In Slovenia, ad esempio, dopo la laurea in psicologia puoi esercitare privatamente come psicologo. Ma se decidi di lavorare o per la scuola o per l’equivalente del nostro SSN, allora lo Stato sloveno ti chiede di farti accreditare dallo Stato stesso attraverso un esame (equivalente del nostro esame di Stato).
In Francia, ad esempio, non esiste l’Ordine degli psicologi e dunque chiunque può dire, potenzialmente, di fare lo psicologo o il terapeuta. Tuttavia in Francia esiste l’associazione FF2P (federazione francese di psicoanalisi e psicoterapia) che fino allo scorso anno è stata presieduta da Serge Ginger, alla quale sono iscritti la maggior parte dei terapeuti francesi.
Come si dice: il mondo è bello perché è vario… 🙂
quindi all’estero esistono counselor psicologi e non psicologi e allora ti chiedo (magari è una domanda ingenua ma è una curiosità):
il counseling fatto da uno psicologo è differente rispetto al counseling svolto da un non psicologo?
i corsi per counselor psicologi sono diferenti da quelli per non psicologi?
I corsi di counseling per psicologi sono identici a quelli per non psicologi. All’estero un counselor psicologo fa le stesse cose di un counselor non psicologo, salvo quei paesi dove esistono precise restrizioni.
Nel nostro paese, ad esempio, il counseling psicologico inteso come l’attività di counseling esercitata da uno psicologo, differisce dal counseling non psicologico poiché nel caso in cui sia esercitato da uno psicologo, lo stesso potrà utilizzare anche competenze proprie al proprio lavoro, come i test, ad esempio.
Se può esserti di aiuto, possiamo dire che all’estero in generale il counseling è quell’attività rivolta prevalentemente ad ambiti che differiscono da quelli classicamente clinici. All’estero infatti molte delle competenze sono simili, ma sono gli ambiti che differenziano i due diversi professionisti.
Questo in Italia si fa fatica a capirlo, per tante ragioni. Soprattutto perché non si ammette che anche professionisti “altri” possano utilizzare modelli mutuati dalla psicologia senza essere psicologi. Quando gli psicologi sono stati i primi ad utilizzare modelli, per la propria professione, che certo non possono dirsi psicologici… attingendo a piene mai dalla pedagogia, dalla sociologia, dalla filosofia, dalla fisiologia, dalla medicina, etc.
E la ragione è chiara: da una parte la professione di psicologo NON ha MAI voluto definire se stessa con precisione nei suoi ruoli e nelle sue funzioni, dall’altra oggi è dura guadagnarsi la pagnotta, e dunque tutti cercano di alzare il recinto del loro orticello.
All’estero, specialmente nei paesi anglosassoni, questo è incomprensibile…
In Italia stiamo attraversando – socialmente e professionalmente parlando – un passaggio evolutivo già fatto in molte altre nazioni. E questi ultimi rigurgiti corporativi sono… davvero gli ultimi. E’ solo questione di tempo.
Buon fine settimana
ciao tommaso, grazie per le delucidazioni preziose…
ho guardato in internet e ho notato che ci sono alcuni corsi di counseling per psicologi della durata di uno/due anni.
Secondo te sarebbe fattibile un percorso del genere?
ossia corsi di 3 anni per non-psicologi (dovendo imparare sia la teoria che la pratica) e di 2 anni per psicologi (la teoria la conoscono già, grazie all’università, quindi non c’è bisogno di ripeterla nell’eventuale master).
che tu sappia c’è in cantiere qualche progetto/proposta del genere?
ciao
Ciao Mario, sulla base degli accordi con la European Association for Counselling, attualmente distinguiamo due diverse tipologie formative: da una parte i corsi che servono per acquisire le così dette “counseling skills” (150 ore, 1 anno), dall’altra il percorso per diventare counselor professionista (450 ore, 3 anni + ulteriori 450 ore di pratica supervisionata).
Le abilità di counseling vengono generalmente acquisite da coloro che hanno già una professione strutturata (medico, psicologo, pedagogista, insegnante, assistente sociale, etc.) e intendono proseguire in quella professione, aggiungendo però altre abilità e strumenti di lavoro.
Dall’altra chi intende fare del counseling la propria professione, e allora il percorso formativo è maggiormente strutturato.
Detto questo, occorre anche dire che molte strutture che erogano formazione in counseling, tendono a riconoscere come crediti formativi le attività formative pregresse legate all’acquisizione della laurea in psicologia.
Ciò significa che se un laureato in psicologia volesse iscriversi ad un corso di counseling, avrebbe buone probabilità di vedersi riconoscere tutte le così dette materie aspecifiche o propedeutiche (in sostanza il primo anno).
Prima o poi occorrerà certamente rimettere mano a tutto l’impianto formativo.
è tutto molto interessante e istruttivo…anzi è la prima volta che qualcuno mi spiega per bene queste cose :X
mi chiedo perché questi dialoghi non vengono fatti a livello istituzionale anziché con me (che non sono nessuno)?
è tutto molto interessante e istruttivo…anzi è la prima volta che qualcuno mi spiega per bene queste cose :X
mi chiedo perché questi dialoghi non vengono fatti a livello istituzionale anziché privatamente su internet (che non sono nessuno)?
Eh eh… perché a livello istituzionale nè il CNOP nè gli Ordini regionali intendono dialogare…
avete chiesto ragioni di questo comportamento? che vi hanno risposto?
A livello istituzionale, e dunque ufficiale, no. A livello ufficioso la risposta è la seguente: preferiamo ignorarvi perché nel momento stesso in cui ci relazionassimo a voi sotto il piano istituzionale ammetteremmo la vostra esistenza…
Se si vuole continuare sulla linea che il counseling è una professione che non esiste… il ragionamento non fa una piega.
Tante occasioni sprecate, ma tant’è…
Ero uscito da questo dibattito, ma forse vale la pena di dire (da Psicologo e Counselor, ma NON docente in alcuna scuola di Counseling) che il mio appello affinché CNOP o chicchessia di ufficiale si occupi della cosa è caduta nel vuoto. C’è una sorta di paradosso da cui gli Ordini dovrebbero uscire:
Affermazione A: NOI FACCIAMO PSICOLOGIA e tutto ciò che è psicologia deve essere fatto da psicologi ed è quindi affar nostro
Affermazione B: i counselor FANNO PSICOLOGIA dunque abusano della nostra professione dunque non dovrebbero esistere quindi non sono affar nostro
Da qui pare derivi una obbedienza a B, ma una ostinata resistenza a prendere atto anche di B: se il counseling è (fa) PSICOLOGIA allora è affare dell’Ordine, se non lo è, allora stiamo parlando di nulla, ma non c’è nemmeno l’abuso. Da una parte li vogliamo processare (affar nostro) ma paradossalmente non vogliamo regolamentare la loro professione (ad esempio, e qui qualcuno mi odierà, creando un registro degli Psicologi & Counselor) perché de facto avvaloriamo la loro affermazione che i counselor fanno “altro” dalla psicologia.
Tanto però credo che anche questo, mi auguro ultimo mio post, venga ascoltato… almeno discusso, magari anche solo mandato aff… sarebbe già qualcosa.
Mi sbaglierò, ma la soluzione sarà all’italiana, cioè gattopardesca. I counselor continueranno a fare i counselor, gli psicologi gli psicologi, gli uni o gli altri si indigneranno o dialogheranno, lo stato di fatto rimarrà tale. D’altronde, portiamo ancora le vestigia dei nostri progenitori primati e Darwin certo non era italiano.
una riflessione:
mettiamo il caso che venga regolamentata la professione del counselor, dunque che venga stabilito che bisogna fare un corso di 3 anni ecc……
A questo punto uno mette una targa fuori dallo studio e ci scrive “centro di ascolto, sostegno alla persona”, dicendo che lui non fa counseling, perché non utilizzare un metodo, ma semplicemente ascolta le persone. Si ispira a Rogers, mutua dei modelli da varie scuole di psicologia….però non fa counseling, fa “sostegno alla persona”.
Saremmo al punto di partenza. Secondo voi sarebbe abuso della professione di counselor a questo punto?
Ciao Mario, ecco il mio (nostro come categoria che rappresento) punto di vista. Noi non vogliamo assolutamente che la professione venga regolamentata, almeno nei termini classici con i quali si intende il termine “regolamentazione”.
La nostra idea di professione si ispira alla logica accreditatoria, ovvero l’esatto opposto di quella ordinistica (attualmente presente in Italia) che si ispira a quella autorizzatoria.
Sono le associazioni professionali a definire i criteri di accreditamento. E le associazioni, a loro volta, per definirsi tali dovranno dimostrare il possesso di determinati requisiti di garanzia (stiamo parlando dell’attuale proposta di Legge in discussione al Senato – già passata alla Camera lo scorso aprile – tanto osteggiata dal CNOP).
In questo senso viene dato ampio spazio alla logica concorrenziale, dove i paletti però non sono ex ante, come nel caso dell’Ordine, ma ex post, come nel caso di tutti i paesi anglosassoni.
Va da sé che questo percorso porta, di fatto, ad un restringimento e ad un filtro. E la ragione è molto semplice: pur essendo la professione libera nel suo esercizio, i potenziali grossi committenti (lo Stato, il SSN, la scuola, etc.) chiederanno senz’altro garanzie particolari, rifacendosi ai criteri di quelle associazioni che ritengono serie. Proprio come avviene in Inghilterra.
E di conseguenza tali criteri saranno richiesti anche dai committenti più piccoli (ovvero i cittadini che chiederanno prestazioni individuali).
Inoltre questo processo porta ad un innalzamento sempre maggiore della qualità, poiché le varie associazioni, in una logica concorrenziale, innalzeranno sempre di più l’asticella dell’ottenimento dei requisiti e del mantenimento degli stessi. E non essendo vincolati da una Legge come quella di ordinamento, questi processi di modifica avvengono in tempo reale.
Le piattaforme ordinistiche hanno dimostrato, stanno dimostrando, tutta la loro inadeguatezza nello stare al passo con i tempi, diventando sempre di più un ostacolo allo sviluppo della professione, anziché un fattore propulsivo.
Per comprendere bene questi meccanismi sarebbe importante provare ad uscire dal proprio contesto di riferimento, e mettersi nei panni del “semplice” cittadino che è alla ricerca di servizi professionali di qualità e a costi accessibili.
Da questo punto di vista anch’io faccio un po’ di difficoltà a contenere certe istanze di regolamentazione che provengono dalla mia categoria. E questo è un meccanismo culturalmente e tipicamente italiano.
Prima sono tra quelli che danno l’assalto al fortino, che cercano di scansare la pece bollente che viene loro gettata da chi è già dentro il fortino. Ma quando finalmente riesco a entrare anch’io nel fortino, comincerò a mia volta a gettare pece contro chi ora si trova nelle condizioni in cui ero io prima…
Occorre abbandonare la logica delle esclusive e delle riserve professionali. E per abbandonare questa logica occorre provare ad astrarsi dal proprio ruolo professionale.
Se fossi un notaio sarei molto felice di avere l’esclusiva sui rogiti notarili. Ma da cittadino non sono per niente felice di essere obbligato a passare a pagare la gabella al notaio per comprare casa quando in tutto il mondo la stessa cosa si fa gratuitamente…
E questo vale per tutte le differenze esistenti tra il modello autorizzatorio e quello accreditatorio.
Se fossi un dentista mi potrebbe scocciare che lo Stato mi obblighi all’aggiornamento permanente, perché per farlo ci vuole tempo e soldi. Ma da cittadino mi sento garantito nel sapere che il mio dentista è un professionista aggiornato e competente.
Lo stesso vale per l’assicurazione obbligatoria: non esistendo fondi di risarcimento per i clienti dei professionisti, è un bene che finalmente anche chi è iscritto ad un Ordine sia obbligato ad avere l’assicurazione.
Anche qui, come professionista mi può pesare sborsare dei soldi in più, ma da cittadino mi sento più tutelato. E se l’architetto sbaglia a fare un calcolo e mi cade il tetto in testa? Chi paga?
Le vere garanzie sono date non tanto dalla verifica di un titolo formale e dall’iscrizione ad un Ordine, ma da ciò che – durante l’esercizio dell’attività – il professionista può garantire al cliente.
Non è che in termini assoluti l’Ordine non serva a niente, il problema è che non riesce a rinnovarsi. Se l’Ordine, al di là di eseguire una mera annotazione in un elenco, si occupasse di tutte quelle cose di cui si occupano le associazioni professionali, la musica cambierebbe.
Purtroppo la classe dirigente degli Ordini è identica alla classe dirigente dei politici: un referendum boccia il finanziamento pubblico ai partiti, e quelli si inventano il “rimborso elettorale”; allo stesso modo una Legge del 2007 abolisce le tariffe obbligatorie e molti Ordini le fanno rientrare dal codice deontologico (sì, è vero, la Legge non obbliga più, ma se secondo me la tariffa che proponi non va bene, ti apro un procedimento disciplinare per aver violato l’articolo riguardante il decoro e la dignità della professione…). Insomma… escono dalla porta per rientrare dalla finestra…
Come dirigente della più grande associazione italiana di counseling mi sta certamente a cuore il futuro della mia categoria professionale. Ma come cittadino e padre di due figli mi sta molto di più a cuore il futuro del mio paese e quello che sarò in grado di lasciare a chi verrà dopo.
Buon fine settimana
da ex-cliente di un counselor (bah!) a paziente di una psicoterapeuta. Il passaggio è stato sostanziale. L’ho vissuta sulla mia pelle, ne sto pagando le conseguenze e spero che i miei legali mi ridiano un pò di dignità e stima, cosa che il counselor mi ha completamente tolto. Il counselor per me può essere solo ed esclusivamente un valore aggiunto alla professione dello psicologo-psicoterapeuta, diversamente penso nasconda solo abusi psico-fisici. Modesta pinione di una vittima di un counselor.
Alla fine ci sarà solo un bel livellamento verso il basso. Gli psicologi di fatto stanno perdendo per tanti motivi la possibilità di porsi come una professione esclusiva – al pari di medici, avvocati e notai – così da far valere la propria posizione di rendita dal punto di vista economico. La responsabilità di questo va addebitata all’aver fatto salire sul carrozzone della psicologia chiunque. Le congiunture storiche e i cicli economici stanno facendo il resto, per cui è tardi per rimediare e la politica ordinistica difensiva appare tardiva e inefficace. Lo sfondamento verso il basso, attraverso le figure tipo counselor, sta facendo il resto, livellando di fatto il sapere e la professione a qualcosa di molto mediocre, come dimostrano tutte le ricerche sulla percezione e rappresentazione sociale dello psicologo. Il risultato sarà il posizionamento dello psicologo poco sopra l’astrologo o il ciarlatano, dove peraltro la credenza popolare di solito lo pone, con buona pace di quanti si sono dati da fare per sviluppare scientificamente questa disciplina.
ma un laureato alla triennale di psicologia può fare counseling,sono confusa
secondo me voi non sapete cos’è il counseling ….
non ce l’ho fatta a leggere tutti i vostri commenti, perdonatemi ma non ne posso più, questa è la nostra Italia, ho condiviso solo un commento e mi vengono i brividi, “una guerra tra poveri”, si una guerra, ma dove saremo diretti? psicologi, psicoterapeuti, counselor, pedagogisti, coach sociologi come me, competenze diverse che dovrebbero indirizzarsi in un approccio multidisciplinare per il bene della conoscenza, della cultura e come diceva Freud “l’unione fa la forza”.
Tutto questo per cosa? PER IL DIO DANARO, siamo sinceri, questi sono i valori veicolati in una società così individualista, io penso sia necessaria l’INTEGRAZIONE E NON LA DIVISIONE TRA LE DISCIPLINE……
Scusa Daniela….ma quali “competenze diverse”? Il problema è che sono tutte sovrapposte, inscindibili e in gran parte uguali! Questa è l’origine di tutti i problemi successivi. Basta cambiare una parola e, in base a quello, creare un’etichetta PROFESSIONALE: una professione dovrebbe essere una cosa seria, non alla mercè di un linguaggio impazzito come quello attuale nel nostro Paese, a tutti i livelli. Cosa c’entra il DIO DENARO: uno lavora per vivere! Basta con queste retoriche da 4 soldi. Saluti.
Discussione molto interessante.
Non ho letto tutti i commenti, ma da quello che ho visto mi pare che sfugga il reale centro del problema.
Non sono psicologo ne laureato in psicologia, ma avendo avuto a che fare per questioni personali con quella gentaglia che ama definirsi “counselor”, avendo partecipato ad una lezione di un corso (proprio per indagare sulla questione) ed essendomi informato in merito, mi pare sia il caso di dichiarare senza larghi giri di parole come stanno in realtà le cose.
Quelle che si ama definire “scuole di couseling” altro non sono in realtà che delle piccole sette, farcite di disperati persi nella ricerca di dare un qualche significato alla propria vita attraverso “l’aiuto agli altri”, che non si accorgono di essere stati accalappiati da altri disperati messi peggio di loro; raggirati e manipolati tramite tecniche da lavaggio del cervello e da venditori di fumo, tipo la cara PNL, spacciate come “tecniche di aiuto”.
Programmazione Neuro Linguistica, da qualcuno definita Programmazione Nazi Linguistica: ed ora capisco il perchè.
“Aiuto alle persone”? Buffonate e fumo negli occhio.
L’obiettivo reale? Farsi tanti tanti denari, oltre qualsiasi limite di deontologia, etica o qualsiasi altro modo vogliate definire i paletti di buon senso e sanità mentale che portano a non sfruttare gli altri.
Già, perchè la cosa ironica è questa, sono proprio i “couselor” e “formatori di couselor” che avrebbero più bisogno di farsi un giretto dallo psicologo/psicoterapeuta/psichiatra.
Queste “scuole” altro non sono che la “versione per poveri” di Scientology: esattamente come Scientology sfruttano tecniche psicologiche o pseudo tali per far leva su gente debole: una struttura a piramide dove nuovi adepti pieni di fervore si impegnano attivamente ad attirare altri nella ragnatela.
Questa è la realtà dei fatti, senza tirare in ballo “lotte tra proveri”, ordini professionali, difesa della professione ecc. ecc. ecc.
Il punto è che bisogna fermare gente con problemi e pericolosa, che si diverte a giochicchiare con il bisturi credendosi un grande chirurgo.
Purtroppo qui in italia siamo in ritardo anche per quanto riguarda la gestione dei ciarlatani.