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Come abbiamo da poco appreso, gli psicologi sono passati sotto l’alta vigilanza del Ministero della Salute, cambiamento salutato da molti come una grande conquista.

Il mutamento ha i suoi pro e i suoi contro; probabilmente per valutare sia i primi sia i secondi sarà necessario lasciare passare del tempo per scoprire come andranno  realmente le cose.

Ciò su cui vorrei soffermarmi ora, però, sono le possibili conseguenze che questo potrebbe avere sull’obbligo della formazione continua per gli psicologi non convenzionati con il SSN.

Ad oggi – è bene chiarirlo- non vige ancora l’obbligo dell’ECM per chi non abbia stipulato i contratti di cui sopra; ma è chiaro che siamo tutti in attesa di possibili (non sicuri, ma altamente probabili) cambiamenti in tal senso. Allora, sarà necessario interrogarsi sull’utilità di rientrare tutti in massa sotto l’ala della grande mamma “ECM”.

Una contrarietà a tale sistema, è evidente, non nasce certo dalla non condivisione del principio per cui sia fondamentale un aggiornamento continuo e una crescita culturale-scientifica che è inevitabile per chi voglia operare seriamente in un campo così complesso. Tale formazione continua, attuabile attraverso i più diversi mezzi (non solo, perciò, convegni, ma anche esperienze lavorative, analisi personale per chi opera in determinati ambiti, supervisioni e co-visioni, gruppi di studio e condivisione nei diversi campi, ecc., ecc.) è un’esigenza che ciascun professionista dovrebbe sentire sorgere da dentro, da un suo desiderio nonché da un’etica del suo agire professionale che si spera interiorizzata. Il sistema ECM, invece, chiede che tale etica sia imposta dall’esterno.

In sé e per sé potrebbe essere anche una visione corretta, tutto sommato, nel momento in cui sappiamo – perché lo sappiamo, non viviamo nel Paese delle Meraviglie di Alice – che non tutti i professionisti ritengono necessario accrescere con regolarità le loro conoscenze sul campo in cui operano – accontentandosi delle nozioni base ottenute attraverso il percorso di studi ufficiali e legalmente richiesto (questo avviene in qualsiasi settore lavorativo) – e che lo Stato debba tutelare  la salute dei suoi cittadini prevenendo il rischio che essi si affidino a persone non sufficientemente preparate. Il fatto che esistano criteri condivisi e certificabili di qualità non dovrebbe essere certo visto come un male, in una società che si pregia (a volte a torto, ma questo è un altro discorso) di definirsi “evoluta”.

Tale discorso, però, se ci basiamo sulla logica dell’esigenza etica ed interna, nonché sulla necessità di criteri riconosciuti e condivisi, non richiede (e non dovrebbe ammettere) in alcun modo che dietro a una certificazione di qualità di un percorso formativo si abbia un costo e un giro di denaro.

In un sistema veramente interessato alla qualità si dovrebbe rendere disponibile, innanzi tutto, un agente dispensatore di crediti veramente serio e capace di individuare la reale validità degli eventi formativi (pur con le statisticamente possibili ed accettabili probabilità di errare, qualche volta). In seconda battuta, poi, tali strutture dovrebbero rendere possibile questa valutazione senza il pagamento di somme che, da una parte, fungono da deterrente per chi non ha le possibilità di versarle, dall’altra finiscono inevitabilmente per ricadere ulteriormente sulle tasche dei partecipanti.

In un’organizzazione simile qualunque ente formativo richiederebbe una valutazione, perché sarebbe solo a suo vantaggio e gli utenti professionisti potrebbero liberamente scegliere gli eventi che più gli interessano, nei campi più svariati, sentendosi liberi di accumulare crediti seguendo i percorsi che ritengono più qualificanti per la propria professione e settore di intervento.

Questo, però, attualmente non succede e il sistema ECM rischia di essere (o è già) un sistema in cui girano dei soldi che, in quanto tale, tende a fare una selezione. Ma non sulla base della qualità, bensì delle società che possono permettersi di pagare dazio.

In questo modo, il giovane psicologo che – tutti ben sappiamo – non può permettersi di iscriversi a un numero infinito di convegni, perché sarebbe troppo costoso, si trova a dover scegliere non fra l’intera offerta formativa, bensì fra quella che mette a disposizione gli ECM.

Purtroppo, non sempre questa corrisponde a quella più qualificante. Non solo: anche quando questa lo sia, potrebbe non essere la più economica possibile fra le varie offerte disponibili in quel settore e ugualmente valide. La mia scelta, perciò, sia per limiti economici sia per quelli temporali (perché formarsi non solo costa, ma richiede anche tempo e quello disponibile non è inesauribile, come sappiamo) dovrà ricadere all’interno di una gamma più o meno ristretta che mi permetta di acquisire il punteggio sufficiente. A questo punto, i soldi e il tempo a disposizione saranno esauriti e io sarò obbligato a rinunciare, ad esempio, a quel seminario a 100 km dalla mia città (quindi costoso in termini di spese e tempi investiti), gratuito e dello stesso livello qualitativo, se non superiore, dell’altro che sono stato costretto a scegliere perché accreditato.

Il sistema attuale, anche con tutta la buona volontà, non può che diventare quindi una mercificazione della conoscenza, nel momento in cui si chiede di pagare per ottenere ciò che è considerabile come una certificazione di qualità che aiuterà a dirottare utenti su un’iniziativa piuttosto che su un’altra priva di tale marchio (ma non per questo meno utile). E nel momento in cui si ottiene questo, è inevitabile che la selezione da parte degli utenti non sia più libera di basarsi sulla qualità, bensì costretta a irrigidirsi su un cumulo di punti necessari per continuare ad operare.

Ma, la mercificazione della conoscenza e, ancor prima, della qualità da parte di uno Stato non tradisce il principio stesso che vorrebbe essere ispiratore dell’obbligatorietà degli ECM?

Chiara Santi