La recente polemica sulla campagna promozionale promossa da Chilly in collaborazione con UnoBravo (qui un approfondimento) ha riacceso i riflettori sui colleghi e le colleghe che decidono di offrire i propri servizi tramite le piattaforme.
Questi colleghi vengono additati ora come complici delle derive più negative della professione, ora come inetti interessati solo a lucrare, ora come professionisti deboli costretti dal sistema malato ad accettare condizioni di lavoro inique.
Personalmente crediamo che la situazione vada considerata in modo meno moralistico, più concreto e soprattutto più rispettoso di colleghi e colleghe che cercano legittimamente di svolgere la professione che hanno scelto.
QUANTI PSICOLOGI LAVORANO CON LE PIATTAFORME?
È difficile saperlo, perché manca un dato univoco.
Quale che sia la stima corretta, si tratta sicuramente di almeno qualche migliaio di persone.
Non abbiamo nemmeno chiare le loro caratteristiche: sono davvero giovani in difficoltà, disposti ad accettare condizioni vessatorie pur di lavorare? Oppure sono professionisti come tutti noi, che scelgono di integrare la propria attività con la collaborazione con le piattaforme?
Sarebbe interessante poter avere anche un profilo demografico più dettagliato, per meglio comprendere esigenze, condizioni, prospettive.
QUANTO SI GUADAGNA LAVORANDO PER UNA PIATTAFORMA?
Anche questo è un dato difficile da sapere, che si può solo ricostruire.
Le principali aziende del settore sembrano richiedere un impegno minimo intorno alle 10 ore a settimana, con incentivi nel caso di più ore dedicate al lavoro sulla piattaforma.
Ipotizzando un impegno di 25 ore a settimana e un compenso di 30/h per il professionista, lavorando per una piattaforma si potrebbero quindi guadagnare circa 3mila euro al mese, un compenso annuo lordo di 36mila euro, circa il doppio del reddito medio della categoria (18.420 euro del 2022).
Al guadagno costituito dal compenso andrebbero però aggiunti i benefit del lavoro con le piattaforme: invii, gestione dell’incasso, semplificazione amministrativa della fatturazione, risparmio sulle spese dello studio fisico, formazione, lavoro in ambiente strutturato.
Le piattaforme offrono infatti un service completo, assolvendo funzioni che altrimenti sarebbero a carico dello psicologo e rappresenterebbero un costo.
È TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA?
Il vantaggio immediato del lavorare per una piattaforma è che questa solleva il professionista dalle tipiche incombenze “collaterali” connesse alla libera professione, garantendo un flusso costante di pazienti e relativo riscontro economico.
A questi vantaggi corrispondono però anche alcuni svantaggi.
Interessi dell’azienda, autonomia professionale, tutela dell’utenza. Le piattaforme offrono, in maniera indiscriminata, sedute unicamente online. Lo fanno non in base all’appropriatezza clinica di tale setting, ma perché hanno organizzato così il loro modello di business.
Adottano spesso un marketing estremamente aggressivo, teso ad intercettare la più larga platea di clienti possibile e ad indurre un bisogno di cura che però è anche un interesse per il profitto dell’azienda.
Tali campagne di marketing impongono un posizionamento e un’immagine per lo psicologo che investe anche i lavoratori delle piattaforme ed è deciso a prescindere da loro.
In quasi nessuna delle campagne pubblicitarie è specificato con chiarezza che si tratta di una prestazione sanitaria, con limiti e possibili controindicazioni.
Questo mette il professionista tra l’incudine e il martello degli interessi dell’azienda per cui lavora e il dovere etico e deontologico di tutelare la propria autonomia professionale e fare la scelta migliore per la salute del paziente.
Molto professionista, poco libero. Quando un libero professionista decide di proporre una collaborazione, contratta prezzo della prestazione, orari, obiettivi, altre condizioni accessorie.
Nel caso della collaborazione con una piattaforma, l’azienda impone del tutto le proprie condizioni, prendere o lasciare.
È evidente lo sbilanciamento tra il contraente forte e il collaboratore in posizione subordinata, che si trova non solo a non avere alcuna voce in capitolo sulle proprie condizioni di lavoro, ma è pure esposto in solitudine a tutte le eventuali controversie legali o deontologiche, in assenza di qualsivoglia tutela da parte dell’azienda.
QUALI AZIONI PER IL FUTURO?
Le piattaforme hanno avuto una crescita repentina e deregolamentata in pochissimi anni. E come capita spesso, stanno iniziando le prime controversie sociali.
L’incidente Chilly-Uno Bravo è solo un’avvisaglia, se il settore continuerà a crescere in modo selvaggio e disregolato assisteremo sicuramente ad altri casi, ed è anche probabile che prima o poi emergano controversie tra lavoratori e aziende.
Occorrono quindi soluzioni di sistema, orientate dal driver primario della tutela della salute collettiva.
Ma non c’è tutela della salute collettiva se non c’è tutela dei professionisti della salute. Al momento la gestione dei professionisti delle piattaforme è in mano, di fatto, alle aziende stesse, e non esiste ad oggi alcuna forma di contrattazione collettiva.
Tuttavia non potrà essere per sempre così. La stessa Unione Europea sta lavorando ad una serie di provvedimenti volti a costruire una cornice di maggiore tutela per i lavoratori delle piattaforme digitali.
L’obiettivo è quello di determinare correttamente la situazione occupazionale delle persone che lavorano mediante piattaforme digitali e tutelarle.
Sarà fondamentale monitorare queste evoluzioni normative, anche da parte delle istituzioni di categoria, quali Ordini e sindacati, ciascuno per le proprie competenze.
CONCLUSIONI
Le piattaforme offrono opportunità di lavoro e semplificazione gestionale per i professionisti, e sono sicuramente un’opportunità in più di accesso alle cure psicologiche per i cittadini.
Emergono però criticità legate all’autonomia di clienti e professionisti, alla qualità delle cure e alla tutela dei diritti dei lavoratori.
È evidente che l’attuale scenario richiede una regolamentazione più equilibrata e un maggiore riconoscimento delle esigenze sia degli utenti sia dei professionisti.
È evidente che la regolamentazione del mercato è necessaria.
Altrettanto evidente che debba essere perseguita attraverso una concertazione con tutte le parti coinvolte, fra cui soprattutto i professionisti delle piattaforme, nostri colleghi e colleghe.
Tommaso Ciulli
Ada Moscarella