I Leps e la supervisione sottratta agli psicologi

Da qualche anno è in atto una complessiva riorganizzazione della rete dei servizi sociali che si occupano di disabilità, povertà, marginalità sociale e famiglie. Da ultimo, è stato avviato un piano complessivo di ridefinizione dei LEPS (Livelli Essenziali di Prestazione Sociale), che sono le prestazioni sociali minime che lo Stato deve garantire.

Si tratta di un piano finanziato con ben 1.450 milioni di euro complessivi: una cifra ingente.

All’interno di questo progetto complessivo, uno dei Livelli Essenziali individuati è la supervisione degli operatori dei servizi.

La supervisione è ritenuta così importante da dedicarvi un’intera linea di finanziamento da 42 milioni di euro.

SOLO PER ASSISTENTI SOCIALI
La prima osservazione è che tutto questo ricade soltanto sulla categoria degli assistenti sociali, seppur all’interno dei servizi sociali lavorino anche educatori e psicologi.
Il livello minimo obbligatorio garantito, infatti, è soltanto la supervisione agli Assistenti Sociali.
Tutti gli altri in coda, solo se avanzano tempo e soldi come riportato dai documenti esplicativi del servizio: “La supervisione mono-professionale di assistenti sociali è considerato il livello di base da garantire (…) in aggiunta, si può prevedere la supervisione mono-professionali degli altri professionisti presenti nel servizio”.

IL DOCUMENTO DELLA CABINA DI REGIA
Con Decreto n.5 del 15 febbraio 2022 è stato adottato l’Avviso pubblico n. 1/2022, nel quale si riporta (pt 5) che “l’attività a sostegno degli operatori sociali ha l’obiettivo di (…) prevenire il fenomeno del burn out, forma particolare di stress e stato di malessere…”.

Per organizzare al meglio questo processo di finanziamento è stata istituita una ‘Cabina di Regia nazionale’ che, con DD 232/2022, redige un documento di orientamento tecnico all’applicazione di questi LEPS.

Un’ampia premessa introduce la possibilità che le supervisioni nei servizi siano svolte da qualunque figura professionale. Per evitare di incorrere in una facile contestazione di esercizio abusivo di professione, la “supervisione psicologica” è distinta dalle altre forme di supervisione.

Un artifizio che però crolla quasi subito, quando il paragrafo che definisce “Obiettivi e finalità della supervisione professionale” parla di ridurre le condizioni di stress professionale da cui derivano fenomeni di burn out, raggiungimento del benessere lavorativo (…) elaborazione dei vissuti emotivi, autoriflessione…”.
Compito del supervisore dovrebbe essere “sostenere il professionista oltre che sul piano tecnico-metodologico, anche nella capacità di controllare i propri sentimenti” e “considerare i fattori che incidono sul burn out al fine di migliorare il benessere dell’operatore”.

QUALCOSA NON TORNA
Una facile e ovvia conclusione è che sia lo psicologo a doversi occupare di questa attività o almeno di questi elementi.
E invece, la Cabina di Regia definisce che la Supervisione Professionale dovrà essere svolta esclusivamente da un professionista appartenente alla medesima professione del gruppo di supervisionati.

Quindi un’equipe di assistenti sociali (mono professionale) potrà essere supervisionata solo da un assistente sociale, un’equipe di educatori da un educatore, e così via per tutto il panorama dei professionisti coinvolti nei servizi sociali territoriali.

Un’occasione persa appunto perché parliamo di lavoro e di opportunità per le centinaia di colleghi coinvolti e di risorse economiche che non possono più essere un’opportunità lavorativa.

Un danno per la tutela della nostra categoria, perché la supervisione, nonostante non sia propriamente un atto tipico dello psicologo, include tutte le attività caratterizzanti la nostra professione, e cioè l’ascolto, la definizione del problema e la valutazione, l’empowerment, il supporto al ruolo di cura e l’analisi delle dinamiche gruppali.

A maggior ragione, se gli obiettivi primari sono la prevenzione di uno stato di malessere e l’elaborazione dei vissuti emotivi, non è pensabile, né tantomeno tutelante non affidare questa attività ad uno psicologo.

Basterebbe citare la sentenza Moccia Cassazione 39339 del 2017, per ricordare che l’abuso professionale non si evidenzia solo nell’utilizzo “di una delle metodologie proprie della professione psicoterapeutica” ma anche quando “il fine dell’attività prestata è quello di modificare la sfera psichica del soggetto”, ovvero quando l’obiettivo è quello di passare da una condizione di malessere ad una di benessere.
Oppure la sentenza Cassazione 17702 del 2004 i cui si parla anche di “attività di dialogo volta a fornire consigli (…) in quanto certamente intimamente connessa alla professione di psicologo (…) soprattutto quando sia diretta alla guarigione di una condizione di malessere”.

Come professione avevamo tutte le carte, eppure, abbiamo lasciato che la Cabina di Regia decidesse i confini di un nostro intervento tipico, appiattendone i processi e le caratteristiche, sconfinando anche in un problema di tutela della professione: un documento ministeriale che nel tempo può diventare una pezza d’appoggio per ulteriori tentativi di sottrarci competenze e contesti di lavoro da parte di professionisti non psicologi.

UN SENTITO RINGRAZIAMENTO AL CNOP
Doveroso. Perché con un risultato così sbilanciato, si potrebbe pensare che questa partita se la siano giocata da soli gli Assistenti Sociali. E che se ci fosse stato qualche psicologo nella cabina di regia non sarebbe finita così.

Invece no. Perché una psicologa c’era, in rappresentanza del CNOP. Scelta, come è nello stile del CNOP, su base di appartenenza politica e non di competenza. Ma è la presidente di uno degli Ordini regionali. Ed è una di quelle che regge l’attuale maggioranza in CNOP.
E quindi il motivo della nomina è il solito: distribuire prebende per opportunità “politica” e non per competenza.

E gli effetti si vedono: un vero e proprio disastro di tutela della professione, di rappresentanza istituzionale, di relazione interprofessionale e di valutazione politica economica nazionale.