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Lavoro e precariato

Il Canto della Cicogna

Maternità e professione ai tempi della crisi (di pensiero)

Federico Zanon

Il problema di conciliare vita familiare e professionale non è certamente esclusivo della nostra categoria; ma essere per l’80% donne implica che questo problema sia necessariamente in primo piano.

Un uomo tende a sottovalutare quanto accade quando gravidanza e maternità interrompono la continuità della carriera professionale, perchè nel nostro caso la nascita di un figlio è un evento che influenza il lavoro, ma non lo interrompe. Nel caso delle colleghe, la situazione è invece radicalmente diversa.

Essere consiglieri di un Ordine regionale espone al contatto di situazione personali di colleghe e colleghi che, in modo ufficiale o non ufficiale, si rivolgono all’istituzione o a chi ne è parte. In questo primo anno trascorso come consigliere dell’Ordine Veneto ho avuto l’occasione di incontrare alcune colleghe che, dopo la gravidanza e la maternità, hanno vissuto la perdita del lavoro, l’esclusione da aziende ed enti in cui hanno lavorato per anni con profitto e soddisfazione.

Altrapsicologia nasce per affrontare i cardini scricchiolanti della nostra professione: la mancanza di trasparenza delle istituzioni, la stagnazione del modello sanitario applicato con prepotenza ed invidiabile cecità ad un mestiere dalla vocazione straordinariamente ampia, e la questione occupazionale che colpisce soprattutto i liberi professionisti, spesso vittime di contratti-capestro, di ricatti, di contratti a mansione fasulla.

Il sistema della contrattualistica privata del lavoro si presta ad una molteplicità di tattiche di allontanamento di un dipendente, anche se titolare di contratti sicuri (come il tempo indeterminato): di fatto, è sempre possibile per l’azienda convincere il dipendente ad andarsene, con le buone o con le cattive maniere. Un dato di fatto su cui si potrebbero scrivere trattati, ma su cui non voglio addentrarmi in questa sede.

Vorrei invece andare alla fonte, e cioè alla scelta aziendale di allontanare una professionista con cui esiste un rapporto dimostrabile di fiducia e collaborazione, di lunga durata e proficuo, quando l’unica variabile che interviene è la gravidanza e la maternità.

Si dirà che spesso ci sono ragioni pregresse, rapporti già incrinati, ma ad essere sincero nelle situazioni che ho avuto modo di conoscere da vicino sento di escludere questi fattori, e di attribuire la singolare scelta aziendale alla nuova condizione di madre delle colleghe.

Mi risulta singolare specialmente per una professione come la nostra, che non vive di meri strumenti tecnici ma anche di strumenti personali ed esperienziali. Una professione che si arricchisce nella ricchezza di esperienze di chi la pratica, che nell’apertura alla dimensione esistenziale dell’avere figli trova sicuramente uno spessore di significati nuovo e diverso.

Se questo è vero per chi diventa padre, credo lo sia in misura ancora maggiore per chi diventa madre. Ed è per questo che trovo limitata la scelta di aziende ed istituzioni di adottare una politica di scoraggiamento della permanenza delle colleghe diventate madri nel proprio organico, specialmente nell’ambito della clinica e dell’assistenza alle persone con problematiche psicologiche che si riflettono sulla genitorialità.

Ritengo che strategie aziendali di penalizzazione delle professioniste madri affondino le loro radici in una deriva generale, che colpisce anche la nostra professione, in cui i lavoratori sono considerati come parti intercambiabili di un meccanismo che funziona al di là della qualità delle persone che lo compongono. Una mentalità lontana da una autentica logica della qualità, in cui si è persa l’attenzione alla bontà del lavoro e governa la riduzione in senso assoluto delle spese, intesa nel modo più gretto e semplicistico come taglio degli investimenti, piuttosto che come aumento del loro rendimento fino al livello ottimale.

Risulta allora più chiaro (e non trovo altre spiegazioni) il motivo per cui diverse colleghe vengono convinte a lasciare i propri incarichi appena diventate madri: non si considera l’aumento di qualità e nel lavoro che deriva proprio dall’aver conosciuto direttamente la dimensione della genitorialità, ma soltanto la diminuzione della disponibilità assoluta, la riduzione della flessibilità nella collocazione del “pezzo”, il problema del tempo dedicato visto soltanto nella logica del “più ne compro e meno costa”.

L’augurio è che queste storie personali si rivelino a lieto fine per le colleghe, permettendo loro di spendersi in enti e aziende che sappiano apprezzare il valore aggiunto dell’esperienza della maternità, che segna non già una riduzione della capacità lavorativa, ma semmai il pieno raggiungimento della maturità esperienziale, umana e professionale.