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La “fase due” nella Psicoterapia

 

Sergio Anastasia, Pietro Roberto Goisis

 

 

 

Premessa.

 

Stiamo andando nella direzione di cosiddette fasi 2, 2 avanzata e possibilmente 3, in cui con ogni probabilità dovremo organizzare le attività di psicoterapeuti in convivenza con il virus.

Ci ritroveremo ad affrontare quesiti su quando e come torneremo lavorare nei setting a noi più abituali: quali precauzioni dovremo o vorremo applicare in un’ottica protettiva per noi e i nostri pazienti? Cosa sarà cambiato e cosa cambierà nelle relazioni effettive e psichiche all’interno della stanza di terapia?

Come reagiremo alle situazioni critiche, come quando ad esempio un paziente, per varie ragioni, potrebbe chiederci di proseguire a distanza? Come gestiremo la situazione con coloro che con le mutate condizioni ambientali che dovremo affrontare non vorranno proseguire le terapie in corso? Potrebbe succedere? Per quali ragioni?

Come tratteremo le difficoltà economiche che molti pazienti ci porteranno?

Quale impatto avranno le questioni economiche globali e personali dei terapeuti?

Quali ripercussioni avrà tutto ciò nelle generazioni più giovani di pazienti, ma anche di professionisti in via di formazione?

Ci dovremo confrontare con nuove forme di disagio?

Queste sono soltanto alcune delle innumerevoli domande che l’attenuazione delle situazioni di emergenza porrà a tutti gli psicoterapeuti e che in parte ci hanno già coinvolto agli albori della pandemia.

Crediamo che come comunità di professionisti dovremmo rimanere interessati, riflettere e confrontarci con le novità che la situazione eccezionale ci presenta, passo dopo passo. Spesso in maniera imprevedibile.

Sappiamo che esistono colleghi per i quali nulla deve cambiare neppure di fronte all’emergenza e per i quali l’unico interesse fondamentale è la difesa e la protezione dell’ortodossia del “metodo” psicoanalitico.

Il nostro punto di vista, invece, è che l’insegnamento principale che abbiamo tratto dai nostri maestri sia stato la necessità di rimanere in relazione, nonostante la caduta di alcuni parametri del setting e delle tradizionali barriere professionali della neutralità e dell’assenza di giudizio.

Per poter far fronte all’emergenza è stato necessario rimanere flessibili e capaci di “essere con”, pur mantenendo un’identità soggettiva e professionale ben definita.

Possiamo affermare senza troppa enfasi che se il Coronavirus ha rischiato e rischia di far soffrire, ammalare e morire molti essere umani, alla stessa stregua ha rischiato di “uccidere” anche la stessa psicoanalisi e le psicoterapie minandone la possibilità stessa di continuare a essere esercitata.

Ci sono voluti cure, accorgimenti e adattamenti finalizzati in primo luogo alla sopravvivenza e poi al mantenimento di un assetto terapeutico per poter continuare a “restare umani”.

Con questo lavoro vorremmo contribuire a questo difficile compito, cui siamo stati e saremo chiamati tutti.

 

Verso un setting flessibile.

 

Con la pandemia, il virtuale entra nel reale non solo attraverso le questioni collegate al mondo del cyberspazio, ma anche e soprattutto attraverso il tema dell’interconnessione tra i soggetti, tutti collegati – nessuno escluso – da un’unica condizione globale.

La collettività diventa parte integrante dell’esperienza psichica di terapeuti e di pazienti, attraverso il paradosso di un distanziamento fisico. Non utilizzeremo il concetto comunemente inteso di distanziamento sociale, perché, in realtà, è la prossimità sociale – l’essere parte di un tutto, sintonizzati su uno stesso comune bisogno – l’elemento su cui la pandemia ha interrogato la società, pur allontanando i soggetti fisicamente gli uni dagli altri.

Tutti ci siamo dovuti interrogare su questi temi, in un modo rivoluzionario: non più possedendone distaccata conoscenza, ma attraversando – inesperti gli uni e gli altri – questa esperienza in maniera diretta e drammatica. La consapevolezza di quanto il nostro essere incida sugli altri e viceversa, fino alla stessa sopravvivenza, è un qualcosa su cui tutti ci siamo dovuti confrontare. Senza filtri, né difese.

Il Cov-Sars2 ha imposto a tutti una presa di consapevolezza di aspetti più duri e indigesti della realtà, che in nome di un’ottimistica euforia, il soggetto moderno si era abituato a proiettare all’esterno, attribuendoli ad altri. Potendosi sentire, prima dell’avvento del virus, immuni, forti, invulnerabili, immortali.

Prendere consapevolezza della propria primitiva barbarie, dei propri istinti, del proprio egoismo, dei propri bisogni è stato inevitabile, attraverso la frustrazione che il lockdown ha imposto in maniera trasversale. Così tutti si sono dovuti confrontare con il pericolo di poter essere in qualche modo, non solo vittime, ma anche possibili untori del contagio.

Le fasi di convivenza con il virus, sono fasi di necessario confronto con queste tematiche, senza scotomizzazioni, rifiuti e negazioni che, invece, abbiamo già visto mettere in atto da una moltitudine di soggetti che hanno teorizzato complotti, o rivendicato diritti negati.

Il rinnovato setting che immaginiamo per le fasi avanzate della pandemia, allora dovrà essere organizzato per fronteggiare possibili fughe del pensiero. Sarà necessario pensare, ad esempio, se la richiesta del paziente di proseguire on-line sia una protezione da inutili rischi, o quanto non sia sintomo di un possibile arroccamento difensivo, da una maggiore presa di contatto, un ritiro o un disinvestimento.

Dobbiamo pensare a queste condizioni, allorquando potrebbe essere necessario ricorrere a nuovi periodi di chiusura.

Vorremmo provare a oggettivare le decisioni relative alle nuove forme di necessaria regolamentazione, quali i dispositivi di protezione in stanza, il lavaggio di mani e l’assenza di contatto fisico.

E anche comprendere quanto le categorie e le strutture teoriche del terapeuta non siano il corrispettivo di norme impersonali e super-egoiche, utilizzate come scudo rispetto al necessario contatto con aree più difficili, primitive e oscure scatenate dai fantasmi del possibile contagio.

Sarà necessario porre questa distinzione, qualora dovessero accendersi nuovi focolai di infezione e diventasse necessario ricorrere nuovamente a decisioni drastiche sulla chiusura degli studi, o banalmente sulla regolamentazione degli accessi. Individuando categorie a rischio, situazioni che richiedono particolari considerazioni, come persone che presentano sintomi di raffreddamento (come è successo ai principi della pandemia e che non possiamo escludere risucceda), o piuttosto che devono percorrere lunghi tragitti con i mezzi pubblici per recarsi fino in studio. Ci si dovrà di nuovo porre il problema di pazienti anziani, o dei loro conviventi. Pazienti di famiglie monogenitoriali che, in caso di malattia, vedrebbero i figli in condizioni di abbandono.

Quale sarà la necessaria tenuta psichica dei terapeuti per l’elaborazione del complesso intreccio emotivo-affettivo scatenato dalla situazione? Quali i fattori in gioco, per l’assunzione di scelte e di responsabilità?

Come supportare i colleghi più giovani e in formazione, nell’utilizzare la teoria e la tecnica da una parte e le norme comportamentali regolamentate dalla Legge dall’altra?

Come far fronte alle diversità delle condizioni cliniche che busseranno alla porta?

Già agli inizi si poneva il problema dell’etica del come comportarsi in tutte queste situazioni: non solo il cosa dire e non dire, il cosa interpretare e cosa invece considerare come esclusivamente un “fatto reale”, prima ancora che psichico.

Persino il cosa pensare è ora un oggetto di considerazione morale che implica il coinvolgimento di un sistema rappresentativo e di giudizio, assolutamente soggettivo. Un vedere i fenomeni sotto la lente di un giudizio diverso, probabilmente distonico rispetto al passato.

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, tutte queste domande hanno avuto, a suo tempo, risposta solo in après coup. Esattamente come la medicina degli infettivologi.

Oggi, invece sappiamo che gli elementi in gioco possono essere svariati e, in qualche modo, preventivabili.

Prendiamo qualche esempio:

 

  • I saluti

 

I modi di interagire, di rivolgersi gli uni agli altri, di dirsi le cose, di avere degli scambi, inevitabilmente cambiano, perché cambiano le informazioni che possediamo e i sistemi di valutazione.

Ogni nostro singolo gesto rappresenta una precisa simbologia e contenuto. Come apriamo una porta, come salutiamo le persone quando entrano e escono, dove posiamo le nostre mani durante i colloqui, come tossiamo e starnutiamo, a che distanza stiamo (chi l’aveva mai misurata prima?).

Riprenderemo a giocare affettuosamente con il nostro sé-corporeo nella stanza, o guarderemo l’altra persona come un “corpo sanitario”, da valutare, giudicare, monitorare?

Stesso discorso per le sue scelte, per come siederà, per la sua prossemica.

Ci si trova nuovamente, così come all’incipit della pandemia, a dover pensare a quanto il soggetto sia attrezzato (fisicamente?) per far fronte all’emergenza, a quanto distante abiti, a che vita sociale abbia, chi frequenti, con chi abiti. Una sorta di “visita obiettiva” dominata da elementi (sensoriali?) assolutamente impercettibili e soggettivi.

 

 

  • Il distanziamento fisico[1] e le procedure di disinfezione

 

Dovremo porci il problema se il paziente sia a conoscenza dei meccanismi di possibile contagio e del livello di diffusione del contagio stesso.

Dovremo gestire nel colloquio e nell’area di transizione elementi come l’areazione, le precauzioni igieniche (ci troveremo a doverci ricordare se abbiamo compiuto, o meno, una prassi di disinfezione), ma anche il distanziamento fisico. Potremmo dover pensare di ridurre il tempo di permanenza, magari anche soltanto in aree comuni. Pensare all’utilizzo di mascherine, o altrimenti di distanziatori trasparenti.

Come il paziente percepirà le une o le altre?

Come aiuteremo l’altro a comprendere che il nostro distanziamento (non) sia un bisogno di proteggerci?

L’altro potrebbe pensare che il suo terapeuta lo percepisca come un pericolo, o piuttosto che lo voglia proteggere perché fragile ai suoi occhi. Potrebbe percepire protezione, ma ahinoi, anche il suo contrario, ovvero il rifiuto.

Quale significato dare alla necessaria procedura di lavaggio (condiviso?) delle mani, o alla differente gestione dello spazio?

Quali diventeranno i fattori di misurabilità di tutti questi elementi del reale, che si impongono nel setting?

 

  • Il setting interno del terapeuta

 

Oltre ai fattori concreti, occorre confrontarci anche con i risvolti che tutto ciò avrà sul mondo interno del terapeuta e quanto le sue esperienze e il suo sistema di valori le influenzi e le determini.

Siamo abituati a confrontarci con i nostri pensieri in seduta, alcuni sono spiacevoli, altri sono belli. In genere tendiamo ad attribuirli ai nostri interlocutori che ce li “mettono dentro”, grazie alla tenuta di un setting reale e interno del terapeuta che si è costruito attraverso il training, le supervisioni e l’esperienza clinica con i pazienti.

Ora i pensieri sono attraversati da esperienze senso percettive differenti. Il concetto di cura stessa, da sempre correlata al contatto e alla vicinanza, è ora il suo esatto contrario. Il voler proteggere l’altro, impone la distanza, l’assenza di interrelazione corporea, o comunque differente da quella cui siamo stati a lungo abituati.

Il terapeuta, a meno di non essere identificato con il medico che cura, utilizzando i relativi presidi chirurgici, è esso stesso potenzialmente fragile.

Come possiamo garantire che l’inserimento di barriere, distanze, cambiamenti più o meno concreti, più o meno strutturali non divenga esso stesso un elemento patogeno, o invece una barriera di protezione dalla contaminazione di questi?

 

Nuove forme di disagio. Nuove forme di cura?

 

La pandemia ha fatto crollare l’ideale dell’individuo sovrano e indipendente che ha caratterizzato il ventesimo secolo e il primo ventennio del ventunesimo.

Il soggetto si trova dinanzi agli aspetti di inter-dipendenza che caratterizzano il suo essere nel mondo, a prescindere dalla propria volontà.

Egli è vulnerabile e l’etica con cui si muove diviene l’unica modalità possibile, con cui poter investire attivamente lo spazio delle relazioni.

Il “chi sono”, diviene parte di un “chi siamo”, portatore di quella fragilità che per secoli è stata relegata ai più deboli.

In questo ci pare di poter quindi dire che il terapeuta che si pone con una visione che nega la propria fragilità e la propria inter-dipendenza, in nome di un’ortodossia assoluta, in realtà impedisce al paziente la possibilità di fare un buon esame di realtà.

Entrare in contatto con le penose esperienze vissute da tutti in questa pandemia, richiede la capacità di non ritrarsi dinanzi a condizioni più primitive, folli e cocenti, legate alla malattia e alla morte.

Esperienze che pongono paziente e terapeuta insieme di fronte al proprio senso di inadeguatezza.

In un contesto come quello della pandemia, la difficoltà per il terapeuta che vede di persona il paziente è nei pericoli derivati dalla difficoltà di integrare aspetti di sé e dell’altro contemporaneamente compenetrati.

Sappiamo come la possibilità stessa della sopravvivenza dell’individuo esposto al fattore virale, sia quello di poter organizzare le sue difese, una volta messo a contatto con l’agente infettante.

Il dosaggio della carica virale cui si è esposti è, infatti, cruciale.

Teoria e metodo, così come l’arroccamento difensivo sull’impossibilità di pensare alla costruzione di setting flessibili, rischia di formare una gabbia che impedisce i processi di trasformazione e il necessario incontro con i vissuti angoscianti del paziente, da cui la quarantena imposta lo ha allontanato.

E, allora, parlare di sé, dei propri vissuti, condividendo possibilità, perplessità, conoscenze, non è forse l’unica via possibile per consentire l’emergere di vissuti sopiti dietro mesi di ritiro imposto?

Il rimanere in relazione, nonostante la caduta di alcuni parametri del setting e delle tradizionali barriere professionali, forse richiede anche di sapersi muovere al di là della neutralità, in nome dell’ “essere con” il paziente.

D’altra parte, è impossibile non parlare di sé, delle proprie scelte, della propria etica personale, che guida le nostre scelte e le nostre modalità di inter-agire in questa situazione di inevitabile con-vivenza con il virus.

 

Trovare un posto alla paura.

 

Sarebbe da ipocriti negare che riprendere a visitare di persona non esponga terapeuta e paziente al vissuto comune della paura. D’altra parte, è oramai chiaro il meccanismo del contagio e sappiamo quanto sia direttamente proporzionale alla “permanenza” personale in uno spazio/tempo circoscritto.

Quando prima parlavamo del rischio per la psicoterapia di poter essere uccisa dal virus, intendevamo esattamente questo. La psicoterapia si basa proprio su meccanismi di introiezione, di identificazione e di contaminazione (emotiva). Gli stessi e identici vettori utilizzati dal virus per contaminare.

La convivenza col virus sollecita un differente equilibrio interiore, in cui i fattori in gioco si rimescolano tra loro, generando nuove dissonanze e possibili distorsioni.

Vi è un pericolo connesso a reticoli estremamente complessi di informazionidifferenti da gestire: psichiche (per le quali dovremmo essere sufficientemente attrezzati), percettivo-sensoriali (comunque legate alla soggettività del terapeuta), sanitarie, socio-economiche e, non ultime, relative alla gestione del rischio. Rispetto a queste ultime, vi è purtroppo una scarsa attitudine a ragionare come collettività, se non in un’ottica difensiva e di conservazione, pur sapendo che – soprattutto in queste circostanze – la responsabilità è al contempo individuale di ciascuno, ma anche diffusa e condivisa tra tutti gli attori in gioco.

È dunque inevitabile che in questo nuovo equilibrio entri in stanza la paura, di cui il terapeuta deve necessariamente tener conto, perché non diventi possibile elemento di (ulteriore?) contagio.

 

Conclusioni.

 

I temi sinora espressi sono, dunque, alla base delle regole che abbiamo immaginato possano essere condivise per la regolamentazione della fase di necessaria convivenza con questo virus, che non sapremo quanto durerà, ma che comunque ci impone di considerare questa eventualità, con cui mai prima ci si era dovuti confrontare.

Un decalogo che rispetta un modo di essere che abbiamo condiviso e pensato, a partire dai quesiti che finora abbiamo osservato.

Un decalogo che, a differenza di quelli ai quali siamo abituati da Mosè in poi, vuole essere un percorso di riflessione, di pensiero e di confronto, più che di prescrizione e di “norma”. Come dovrebbe essere sempre un percorso psicoterapeutico.

 

  • Dove tenere le sedute. Forse in maniera troppo temeraria o semplicistica molti di noi hanno pensato che si trattava solo di attendere il “via libera” dei Decreti Governativi per poter riprendere l’attività professionale in presenza negli studi. L’abbiamo pensato noi come terapeuti, l’hanno pensato i nostri pazienti, sia quelli che hanno scelto di continuare le terapie online, sia quelli che hanno preferito “attendere” la ripresa della cosiddetta normalità. All’avvicinarsi del 4/5/2020, inizio della Fase 2, il quadro generale sembra essere cambiato. I pazienti, in primo luogo, per lo meno la maggior parte di loro, ci ha detto o fatto capire chiaramente di non avere alcuna fretta di tornare in studio. (“Dottore, funziona bene anche così”, “Non so come fare con i figli”, “In effetti non me la sento mica tanto di prendere i mezzi”, “Forse sono più tranquillo così…”). Gli stessi terapeuti, pur con nostalgia per i loro studi, si sono progressivamente accorti anche loro di star bene dove stanno. Ed è piuttosto frequente ascoltarli mentre affermano con decisione “Io riprenderò a lavorare in studio non prima di settembre”. Non crediamo sia solo un problema di sicurezza o di paura, seppur importante, quello che li muove. È possibile che, dopo le iniziali e frettolose previsioni (“Due/tre settimane e ritorniamo in studio…”), ognuno di noi abbia trovato una sorta di assetto tra l’abitudine e il noto attraverso la quale lasciare il setting online diventi faticoso come effettuare dei cambiamenti? Le stesse resistenze al cambiamento, ora in senso inverso, che forse hanno reso difficile per alcuni terapeuti e alcuni pazienti il passaggio alle sedute online.

 

  • Mascherine sì, mascherine no. È probabile che le difficoltà nel ritorno al lavoro in studio siano correlate al tema delle misure di distanziamento. Molti pazienti e terapeuti l’hanno affermato con decisione: “Piuttosto che indossare la mascherina durante le sedute, preferisco continuare online!”. In effetti, l’esperienza di “incontro” tra personaggi mascherati (per strada o in luoghi chiusi) che ognuno di noi ha fatto durante questi mesi ci ha fatto comprendere quanto sia importante la dimensione visiva e sensoriale nei processi di riconoscimento reciproco e quanto il solo sguardo, per quanto fondamentale, non ci permetta di soddisfare in piene le nostre necessità relative all’incontro. E non di sole mascherine si tratta. Tra procedure di arrivo allo studio, sanificazione pre-, post- e durante la giornata, condivisione degli spazi comuni (ingresso, sala d’attesa, corridoi, servizi igienici), gel igienizzanti, distanze ottimali, guanti, visiere protettive, schermi trasparenti su scrivanie o tra poltrone. Per non parlare di termoscanner o calzari.

 

  • I saluti. Qualunque sia stato il nostro rituale di inizio e fine seduta, le nuove regole e necessità sanitarie ci obbligano ad una pratica di innovazione e creatività. Gesti della mano, contatti con i gomiti, sorrisi, movimenti delle braccia, mimiche più o meno esplicite dei corpi, basta che si rispettino le norme del cosiddetto distanziamento fisico. Chiederemo ai pazienti “come sta?”? e ci porranno anche loro in presenza una domanda analoga? Misureremo la febbre, come consigliato dalle norme?

 

  • Il distanziamento. Le linee guida sanitarie sono al riguardo molto chiare. Come applicarle dentro i nostri studi diventa un po’ più complicato. Senza attivare misurazioni ossessive di centimetri tra le poltrone e percentuali d’alcool nelle soluzioni disinfettanti utilizzate, in ogni caso dovremo anche noi garantire il pieno rispetto delle norme. Ci sono persone che sulla difficoltà al cambiamento hanno costruito il proprio malessere. Dovranno accettare una condizione differente e realizzare di non essere gli unici a frequentare lo studio. Ci viene in aiuto il concetto del “buon padre di famiglia”? Come si comporterebbe per proteggere il proprio nucleo, senza proibire esperienze vitali? A questo proposito ci sono adolescenti che in questo periodo di vita post quarantena, ma senza libertà, hanno spostato la conflittualità con i genitori proprio sul tema del “cosa posso fare e del voglio uscire”.
  • E con i bambini? Come ci regoleremo con quelli al di sotto dei 6 anni, per i quali non è obbligatorio l’utilizzo della mascherina? E per quelli più grandi con problematiche comportamentali? Come reagiranno al distanziamento fisico, alla mancanza di contatto con il terapeuta?

 

  • In merito al setting interno. Alla luce del fatto che la convivenza col virus espone al concetto di corresponsabilità tra paziente e curante, ci domandiamo: chi è responsabile e decide il setting di lavoro? Pensiamo che mai come in questa fase 2 sarà indispensabile garantire al paziente la scelta del come proseguire la terapia. Ipotizziamo la realtà di un terapeuta che decida di riaprire le porte del proprio studio. Egli potrà al massimo informare il suo interlocutore rispetto a questa possibilità, ma sarà solo e soltanto il paziente a indicare, di volta e in volta, quale sia il suo bisogno (tornare in studio, proseguire le sedute on-line, provare l’uno e l’altro). E noi accoglierlo e rispettarlo. Siamo pronti per questo cambiamento?

Se in questo periodo abbiamo imparato ad aggiungere ai nostri rituali di incontro la classica domanda “mi sente? mi vede?” seguita spesso dal reciproco “come sta?”, pensiamo che l’attenzione reciproca ai nostri stati d’animo e alla nostra salute, a partire da oggi, possa riguardarci stabilmente nel futuro delle nostre relazioni terapeutiche.

 

  • La self disclosure. Aggiungiamo, infine, un elemento che davvero contraddistingue la particolarità di questa situazione è relativo allo stile relazionale dentro le sedute: indipendentemente dalle condizioni attuali o pregresse di salute/malattia del terapeuta – e dalla sua legittima scelta rispetto alla condivisione o meno di tali condizioni – è difficile davvero pensare che l’attuale momento di profonda condivisione e di fisiologica reciprocità, non abbia anche in futuro delle ricadute. Sarà davvero possibile riprendere come se niente fosse? Senza considerare che per mesi, attraverso le videochat, le persone sono entrate nelle nostre case e noi nelle loro? Senza pensare che abbiamo pensato loro, tenendo comunque sempre bene a mente la nostra situazione di salute e dei nostri familiari e che abbiamo così implicitamente legato i nostri destini ai loro, in una sorta di comune vicinanza. È per questo che non vogliamo parlare di distanziamento sociale. Perché in realtà, la lontananza fisica ha corrisposto in realtà a un diverso (talvolta più sottile), modo di essere, di cui necessariamente dovremo tenere conto.

 

Siamo consapevoli, infine, che questa sorta di “decalogo” non esaurisca in alcun modo le infinite sfaccettature di elementi in gioco, presenti nella stanza e nella fantasia dei partecipanti alla relazione. Ma vuole essere, come ci siamo detti, un contributo al pensiero, in un’ottica di comunità scientifica, ma anche di memoria storica di un periodo che, sappiamo bene, influenzerà i prossimi decenni della nostra vita umana e professionale.

 

 

[1] Abbiamo volutamente scelto in termine di distanziamento “fisico”, al posto di quello “sociale” contenuto nei Decreti e nel linguaggio comune. Non è un lapsus. Pensiamo che la vera misura sociale alla quale siamo esposti in questa pandemia sia rappresentata dalla necessità, capacità e sofferenza relativa alla misurazione e accettazione o meno di tale distanza fisica. Il presente ci interroga, ad esempio, sul se e quando potremo di nuovo stringere la mano a un paziente o abbracciare un amico.