LA PSICOLOGIA SCOLASTICA IN MANO A DILETTANTI

Da un fatto arrivato per caso nello studio di uno psicologo all’amara realtà dell’assistenza psicologica nelle scuole.

I FATTI

I genitori di una ragazza di 15 anni si rivolgono al mio studio per una consulenza. La domanda concerne un comportamento della figlia, la quale ha iniziato da qualche mese, in coincidenza con il passaggio alla classe prima di una scuola superiore, a praticarsi piccoli tagli sulle braccia con il taglierino.
I genitori riferiscono che anche molti compagni di scuola della figlia fanno lo stesso, e che tale comportamento farebbe parte di una microcultura detta “EMO”, una derivazione del Punk che prende il nome da un gruppo musicale.

Rilevo ai genitori che il problema consta di almeno due livelli: uno individuale e familiare, relativo al significato che il comportamento ha nell’economia psichica della loro figlia e dela famiglia; uno sociale e culturale, relativo alla diffusione del comportamento in una popolazione di minori, che condividono lo specifico luogo di una scuola che parrebbe la sede della socializzazione/affiliazione dei singoli alla microcultura.
Mentre del primo aspetto posso occuparmi io, a partire dalla richesta di consulenza dei genitori, del secondo aspetto ritengo si debba occupare l’istituzione al cui interno è diffuso il fenomeno in questione.

Offro quindi ai genitori le indicazioni per quanto mi compete come psicologo interpellato per l’occasione, ma rimando loro la necessità di segnalare la faccenda alla scuola, per permettere allo psicologo scolastico di attuare una presa in carico del versante sociale e collettivo del fenomeno.
La loro comprensibile esigenza di mantenere l’anonimato per non compromettere la relazione con la figlia, esita nella richiesta di occuparmi di segnalare quanto accade. Accetto, in qualità di psicologo che è venuto a conoscenza della situazione nel corso della propria attività professionale.

Scelgo in via preliminare la persona del dirigente scolastico e lo strumento del telefono. L’accoglienza riservatami dal dirigente scolastico è inizialmente sospettosa e scostante; quando riesco a chiarire nel dettaglio la mia posizione (ma cosa temeva?), spiegando che intendo soltanto segnalare che ciò di cui mi sto occupando in un caso secifico ha anche un versante sociale che investe la comunità-scuola, finalmente ottengo una distensione del mio interlocutore.
A questo punto, spiego che ho scelto di contattarlo in quanto dirigente, con l’obiettivo di potermi interfacciare con il collega psicologo che segue la scuola, allo scopo di informarlo di quanto di mia conoscenza e di rendergli nota la mia disponibilità a collaborare con lui, nei limiti ristretti del mio ruolo di consulente dei due genitori.

E qui arriva il bello: il dirigente dice che loro non hanno nessuno psicologo, ma hanno dei bravissimi insegnanti molto formati sul piano educativo che gestiscono il CIC, che lui attiverà immediatamente in quanto suoi fiduciari. Indi, mi chiede cosa devono osservare (Rispondo: se i ragazzi hanno dei tagli sulle braccia, e che altro?), quali sono le conseguenze di un tale comportamento (Rispondo: dipende molto da variabili familiari e individuali, ma mi pare che debbano saperlo meglio gli “esperti” che stanno al CIC), e infine a chi può eventualmente rivolgersi (Rispondo: ai colleghi dell’ASL o della NPI, i quali hanno mandato istituzionale per occuparsi di questo genere di cose, in assenza di uno psicologo specificamente delegato dalla scuola).

ALCUNE CONSIDERAZIONI

I genitori che seguo, a conoscenza dell’esistenza del CIC, non hanno voluto rivolgersi a questo sportello perché ne hanno rilevato i limiti strutturali. Da profani della materia, hanno individuato i tre punti più problematici:

1. Chi sta allo sportello non è competente per questioni così delicate, rispetto a cui l’unico professionista a cui è corretto rivolgersi è lo psicologo.
2. Chi sta allo sportello è coinvolto nella relazione e nell’ambiente in modo spurio, rivestendo sempre un doppio ruolo oltre a quello di consulente del CIC (insegnante, genitore o addirittura studente anziano).
3. Chi sta allo sportello, non avendo una afferenza professionale specifica, non è nemmeno specificamente vincolato ad una norma di riservatezza rispetto a cui uno psicologo obbedisce per stretto precetto deontologico, e rispetto alla cui violazione è direttamente ed esemplarmente punibile.

A queste considerazioni, provenienti da persone che esercitano tutt’altro lavoro nella vita ma mostrano più buon senso di molti funzionari e dirigenti del settore psi, aggiungo altre note di natura più tecnica:

1) In primo luogo, la presenza di comportamenti del tipo descritto, e che appartengono alla famiglia dei comportamenti potenzialmente problematici presenti fra i gruppi di adolescenti (consumo di sostanze, comportamenti stradali pericolosi, violenza, sessualità, etc…), andrebbe affrontata anche dal punto di vista specialistico dello psicologo, se non altro per individuare l’impatto patogeno in situazioni individuali fragili, e comunque per il rischio che la dinamica dei gruppi tenda a deriva ed estremizzazione del fenomeno.
2)  Il ruolo dello psicologo scolastico dovrebbe altresì essere preponderante nella presa in carico di segnalazioni dall’esterno, rispetto a cui un genitore o professionista che si trovi nella mia stessa posizione non trova interlocutori competenti a cui affidare un problema con risvolti nella comunità-scuola.
3) Un gruppo insegnanti/genitori/studenti che intende farsi carico di gestire uno sportello d’ascolto pone questioni relative alla competenza scientifica e professionale, all’adesione a norme deontologiche quali quella del segreto e della mancanza di commistioni dirette con l’interessato, infine alla responsabilità professionale.

Già, la responsabilità. Chi assume la responsabilità professionale del danno che può derivare da un eventuale comportamento inadeguato degli operatori di sportello?
Si configurano infatti i tre classici ordini di responsabilità:
– culpa in eligendo (nella scelta di chi doveva raccogliere tali segnali e occuparsene)
– culpa in vigilando (di chi doveva occuparsi di vigilare sull’operato degli operatori che si sono occupati dei segnali)
– responsabilità diretta rispetto al danno provocato da negligente condotta professionale.
Rispetto a tali profili di responsabilità, quanto è chiara la posizione dei CIC? È un argomento essenziale perché la chiara determinazione della responsabilità coincide con una chiara tutela dell’utente.

L’ORDINE DELL’EMILIA ROMAGNA E L’AZIONE ISTITUZIONALE

Al problema dei servizi di tipo psicologico nelle scuole gestiti da personale non adeguatamente formato, l’Ordine dell’Emilia Romagna ha risposto con una prima iniziativa a cui ha partecipato anche la dott.ssa Chiara Santi di AltraPsicologia, consigliere in carica attualmente.
L’Ordine dell’Emilia Romagna ha spedito a tutte le scuole della regione una lettera informativa rispetto al problema dell’abuso professionale nella psicologia scolastica, che pone questioni di ordine legale, di responsabilità e di corretto agire professionale.

L’azione istituzionale pare una questione non secondaria per almeno due ordini di ragioni:
− l’esercizio di attività di tipo psicologico, seppure fa genericamente parte di tutte le professionalità in cui la relazione è un aspetto predominante (insegnanti, medici, infermieri, educatori, etc.), è riservato per legge allo psicologo quando diventa complessa, con rilievo clinico, potenzialmente fonte di danno (in altre parole quando da generica diventa specialistica);
− l’esercizio di compiti di specifica natura psicologica, ad alto profilo tecnico, necessita di una competenza adeguata e di un professionista speficamente formato, per le conseguenze dannose che un problema psichico o comportamentale non riconosciuto o inadeguatamente trattato comporta.
− Infine, quale profilo di responsabilità professionale possono garantire tutti gli operatori che, di fronte ad un problema di ordine psicologico o psicologico-clinico, non avendone le competenze, non hanno saputo agire correttamente, configurando con tale errore delle conseguenze? Lo psicologo garantisce una assunzione di responsabilità adeguata al proprio ruolo, e ciò garantisce l’utente rispetto al danno che può derivare da un errore. Lo stesso non può dirsi di quanti, in virtù di un ruolo contiguo a quello dello psicologo, ne assumono attività e funzioni.

Sono temi questi che meriterebbero un’attenzione da parte dell’Ordine Regionale competente per territorio. In questo specifico caso, segnaleremo la situazione all’Ordine Veneto e terremo aggiornati i lettori sugli sviluppi.