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Una sentenza definitiva marca un deciso passo avanti contro l’esercizio abusivo della professione di Psicologo

E’ recente la notizia che il procedimento penale per esercizio abusivo della professione contro Francesco Massimo Abela, in cui l’Ordine Emilia-Romagna si è costituito parte civile, è arrivato a sentenza definitiva in quanto le decisioni del giudice in primo grado non sono state appellate.

Questo rappresenta un deciso passo avanti sia nella difesa della nostra professione sia in una più puntuale definizione dei termini operativi in cui essa si compendia.

Può sembrare strano (ma chi si interessa alle questioni della nostra professione lo sa bene, purtroppo) ma, a venti anni dalla sua istituzione, la professione di Psicologo in Italia è definita in maniera molto approssimativa dalle norme (l’articolo 1 della stessa legge 56/89 – che genericamente parla di “intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità” in verità non definisce quasi nulla in termini operativi). Questo dà la possibilità a tanti pseudo professionisti (e a veri e propri truffatori) di utilizzare competenze professionali che ci appartengono e farle proprie con poche possibilità che la legge possa poi dare ragione a noi Psicologi.

La professione di Psicologo, così genericamente delineata nelle sue funzioni essenziali, deve allora essere riempita di contenuti operativi. Da tempo AltraPsicologia chiede che gli Ordini si impegnino per rappresentare al legislatore i cosiddetti “atti tipici” della professione, quelle azioni cioè che qualificano essenzialmente l’attività dello Psicologo in quanto tale e che devono essere riservati esclusivamente agli Psicologi stessi. Finora, però, non si è visto nulla di concreto se non l’impegno sporadico, come nel caso dell’Ordine dell’Emilia Romagna che qui riportiamo, a perseguire legalmente coloro che, senza essere iscritti all’Albo, abusano degli atti operativi che caratterizzano la nostra professione.

In assenza di una migliore definizione legislativa, quindi, la puntualizzazione delle attività riservate esclusivamente agli Psicologi deve avvenire, mano a mano, attraverso le chiarificazioni che provengono dalle sentenze, laddove – come nel caso di cui stiamo parlando – delineino l’essenza del nostro lavoro e in cosa si differenzia da ciò che altri operatori (naturopati, counsellors, coaches, ecc.) sostengono essere il loro legittimo campo di attività. Per questo tale determinazione è un passo avanti sensibile. Dimostra come, nonostante il terreno in questo ambito sia piuttosto impervio e scivoloso, si possano vincere delle battaglie, qualora l’Ordine si impegni in tal senso.

Veniamo ai fatti: il 6 marzo 2007 veniva pronunciata la sentenza di condanna (ora diventata definitiva) per esercizio abusivo della professione di Psicologo del dott. Francesco Massimo Abela, contro cui l’Ordine dell’Emilia-Romagna si era costituito parte civile.

Il dott. Abela, laureato in filosofia, non iscritto né all’Albo degli Psicologi né a quello dei Medici, affermava di svolgere attività di naturopata. In realtà, sulla base delle testimonianze portate dall’accusa (ma, in parte, anche da delle dichiarazioni di alcuni testi presentati dalla stessa difesa), il giudice ha ritenuto che, per quanto i colloqui fossero di diversa natura (variando da persona a persona) essi riguardavano “soprattutto problemi inerenti i propri stati emotivi”, concludendo infine che si evinceva “come l’approccio del dott. Abela sconfinasse in buona parte in valutazioni, approfondimenti, indagini di natura prettamente psicologica”.

Nonostante lo svolgimento dell’attività di naturopata sia assolutamente lecita, nella sentenza viene ricordato che essa “non può certamente sconfinare nel compimento di atti tipici, propri e riservati ad altre professioni, come quelle del medico-chirurgo e dello psicologo”.

Per quanto il giudice rilevi anch’egli il deficit per cui la legge istitutiva della professione di Psicologo (la 56/1989) non descrive in modo analitico gli atti della professione soggetti a riserva, ha nondimeno ritenuto assolutamente condivisibili le osservazioni del consulente di parte civile, l’avvocato e psicologo Eugenio Calvi, laddove chiariva che devono intendersi “specifici di tale professione quei mezzi il cui uso si fonda sulla conoscenza dei processi psichici e che consistono essenzialmente nella osservazione, nel colloquio e nella somministrazione di test aventi lo scopo di individuare particolari aspetti del funzionamento psichico. Detti strumenti, poi, sono psicologici nella misura in cui hanno per finalità la conoscenza dei processi mentali dell’interlocutore, con l’utilizzo di schemi e teorie proprie delle scienze psicologiche”.

Un’osservazione che spesso viene fatta in difesa di chi è incolpato di esercitare abusivamente la nostra professione è quella che, non essendo gli imputati specificamente formati in tale ambito, in realtà non sarebbe possibile per loro applicare correttamente le tecniche psicologiche e, conseguentemente, gli interventi effettuati vanno più che altro annoverati sotto il generico termine di “consigli” più che di attività psicologica vera e propria.

D’altra parte, come qui fa giustamente rilevare il Giudice, “il reato è configurabile indipendentemente dalla correttezza e qualità degli atti tipici”; il che significa che, per essere imputati e condannati secondo l’art. 348 del nostro codice penale, non è necessario condurre in maniera corretta le attività specifiche di una professione, bensì compierne gli atti tipici, indipendentemente dal buon livello di interventi che vengono effettuati.

Nel nostro caso, una diagnosi o un intervento interpretativo o direttivo, che miri ad analizzare e intervenire sulle dinamiche psichiche è già da considerarsi atto tipico anche qualora la diagnosi o l’intervento fossero completamente sbagliati ed avulsi da un qualsivoglia fondamento scientifico. Come a dire che sono lo strumento e il metodo di indagine, più che la qualità con cui la stessa viene condotta, a determinare l’illiceità o meno del comportamento (esattamente come chi prescrive e somministra un farmaco senza essere medico incorre nel 348 c.p. indipendentemente dal fatto che abbia consigliato il medicinale adatto al problema oppure no).

Questa affermazione giurisprudenziale è fondamentale, perché applicabile in una molteplicità di situazioni in cui persone non iscritte all’Albo degli Psicologi mettono in atto azioni che “hanno per finalità la conoscenza dei processi mentali dell’interlocutore, con l’utilizzo di schemi e teorie proprie delle scienze psicologiche”

In questo specifico caso, tra l’altro, si è cercato di sviare l’attenzione facendo reggere la difesa sulla contestazione del fatto che il dott. Abela avesse mai praticato una forma di Psicoterapia; d’altra parte, è lo stesso giudice a rilevare un particolare che a volte sembra essere dimenticato persino da alcuni nostri colleghi i quali, per cultura o abitudine, tendono a far coincidere l’esercizio della nostra professione con l’esclusiva attività clinica e psicoterapeutica: l’imputato “ha nella sostanza impostato la propria difesa contestando di avere esercitato psicoterapia, ma trascurando che lo psicologo (non psicoterapeuta) per la ragione stessa dell’esistenza di detta professione (protetta), ha necessariamente un campo d’azione e competenze assai più vaste” e “va radicalmente escluso, dunque, che lo psicologo si occupi unicamente di psicopatologia”.

Non è, quindi, essenziale che una persona curi con metodi psicoterapeutici per incappare nel reato penale di cui sopra, ma è “sufficiente” che svolga attività di diagnosi e sostegno psicologico per poter essere ritenuto colpevole di esercizio abusivo della nostra professione.

Questa sentenza, quindi, si rivela importante soprattutto perché la decisione di condanna viene basata su valutazioni importanti in merito alle caratteristiche della nostra professione. Valutazioni che aiutano a dare una maggiore chiarezza e specificità al lavoro dello Psicologo anche dal punto di vista giuridico, colmando, almeno in parte, alcuni vuoti presenti nella Legge istitutiva della nostra professione.

La sentenza, infatti, riempie finalmente di maggiore senso l’articolo 1 della legge 56/89 nel momento in cui chiarisce come ciò che distingue uno Psicologo da un amico, prete o qualsivoglia figura che elargisce consigli e dà pacche sulle spalle è un’analisi conoscitiva che mira ad indagare i processi mentali sottesi alla situazione di malessere e il funzionamento psichico generale che porta a mantenere tale stato, opponendosi ad un possibile miglioramento.

Naturalmente, si considera che un collega faccia ciò con modalità scientifiche e adeguata formazione, mentre nel caso dell’abusivo ciò che conta non è la perizia o la scientificità con cui si approccia a tale metodo, quanto il fatto che lo utilizzi.

Di principio, si dà per scontato che chiunque abbia evitato di formarsi adeguatamente secondo percorsi che, per Legge, vengono ritenuti essenziali per lavorare in tali settori, non abbia poi le competenze adeguate per svolgere tale indagine appropriatamente e metta, così, seriamente a rischio la salute delle persone a cui si rivolge.