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L’ICD-11, il sistema di classificazione nosografico dell’OMS ha confermato, nella release del settembre del 2020, una definitiva esclusione della sindrome di alienazione parentale, facendo seguito all’analoga presa di posizione del DSM-5.

Contemporaneamente, una parte della psicologia, quella che si occupa più da vicino di minori in situazioni di rischio, sembra insorgere: alcuni per lodare, come incassassero una vittoria, altri per lamentare una grave carenza. Cosa succede?


BREVE STORIA DELLA SINDROME DI ALIENAZIONE PARENTALE

Il concetto di “alienazione parentale” fu introdotto per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner con il nome di Sindrome da Alienazione Parentale (PAS, dalla formula in inglese).
Secondo Gardner questa sindrome sarebbe costituita da una “programmazione” di uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) che porterebbe i figli a dimostrare avversione e rifiuto verso l’altro genitore (“genitore alienato”).

Sono passati 35 anni. Il mondo è cambiato. Gardner ha avuto l’indiscutibile merito storico di sottolineare una particolare circostanza, rilevante sul piano sistemico e del rischio psicopatologico, riguardante minori in situazioni di separazione conflittuale.
Esistono minori, sembra dirci Gardner, che rifiutano, senza motivazioni condivisibili, un genitore.

Tuttavia, complice forse anche l’humus culturale della psichiatria statunitense degli anni ‘80, Gardner commette da subito due errori esiziali.

Uno. L’alienazione è un costrutto sistemico, che riguarda e coinvolge una triade formata da almeno un figlio e i suoi due genitori. E’ nel gioco relazionale delle parti che si iscrive la peculiarità di questa condizione, il che non permette di individuare un solo soggetto portatore della candidata nuova patologia.

Se è una malattia, chi ne è affetto?

Due. La PAS prevede la programmazione del bambino come induzione, ovvero come atto consapevole da parte del genitore alienante (quella che chiama la “campagna di denigrazione”), che esclude però paradossalmente il quadro che si riscontra invece più di frequente nella clinica attuale, in cui l’identificazione del minore con il genitore convivente è un atto inconsapevole. L’identificazione è un movimento inconscio in cui l’esclusione del genitore alienato può bene avvenire come un fatto sostanzialmente automatico, escludendo una dimensione diretta di colpa, legata a un’azione specifica e programmata.

LA STORIA SUCCESSIVA

Nei successivi 35 anni, ovvero fino a oggi, quegli aspetti problematici, considerati forse eccessivamente pragmatici, colpevolizzanti e poco scientifici, quando non chiaramente ideologici, fanno scaturire intorno alla PAS due veri e propri partiti, che potremmo sintetizzare come partito dei padri e partito delle madri, custodi di istanze chiaramente individuabili come ideologiche, ovvero orientate a sostenere una tesi ovvero un’altra.

I “partiti” sono oggi chiaramente individuabili in alcune “famiglie culturali” che sostengono due differenti posizioni che possiamo così riassumere, pur consapevoli di essere un po’ naif:

– le realtà a favore dei padri, in Italia tendenzialmente sostenute politicamente dei partiti più conservatori, sono a favore della PAS (ma si può essere “a favore” di una patologia?). Gli stessi gruppi tendono a vedere con scetticismo le denunce e le accuse di violenza intrafamiliare, ravvisandone una troppo frequente funzione strumentale. È una posizione fortemente rappresentata dalle associazioni dei padri separati, che da sempre si battono per una maggiore “uguaglianza” nelle decisioni sull’affidamento e il collocamento di minori, che incidono su decisioni economiche riguardanti gli assegni di mantenimento a favore dell’ex coniuge e dei figli;
– le realtà a favore delle madri, d’altro canto spesso negano l’esistenza stessa dei fenomeni di alienazione, che pure si riscontrano spesso nella clinica delle separazioni conflittuali, come fenomeno del tutto inesistente. Le realtà pro-madri sono sostenute naturalmente da realtà riconducibili culturalmente a nuove forme di femminismo, che trovano un loro rispecchiamento naturale nei centri antiviolenza, realtà pure importantissime nel contrastare i fenomeni di violenza intra familiare. Questo secondo partito si può considerare oggi prevalente, specie considerando le importanti innovazioni giuridiche che si sono succedute negli ultimi 10 anni a tutela delle donne.

L’esistenza di queste due posizioni, sostanzialmente entrambe ugualmente ideologiche, costituisce un evidente impedimento a un’analisi scientifica, seria e imparziale, del fenomeno dell’alienazione parentale inteso come immotivato rifiuto di un genitore da parte di un minore. 
È purtroppo anche troppo frequente che i consulenti tecnici d’ufficio svolgano le proprie funzioni sulla base di convincimenti ideologici, che conferiscono allora al lavoro un’impronta sostanzialmente pregiudiziale ideologica, ovvero in grado di orientare la percezione e le conclusioni in una o nell’altra direzione.

Ne avevamo parlato già qui (https://www.altrapsicologia.it/articoli/verificazionismo-ovvero-il-virus-della-psicologia-giuridica/).

UN’ESCLUSIONE MOTIVATA?
La giurisprudenza di merito, spesso riflesso della cultura di una società, vive l’ambivalenza della comunità scientifica sul fenomeno del rifiuto immotivato di un genitore in situazioni di separazione conflittuale con preoccupato imbarazzo e un senso di crescente scetticismo sull’effettiva affidabilità dei propri consulenti e in generale dello strumento delle consulenze e delle perizie.
Ne derivano sentenze che, nell’essere talora difformi, riflettono questo imbarazzo nei confronti della scienza, che sembra essere stata di poco aiuto.

Chi scrive saluta l’esclusione della PAS dall’ICD 11 con ambivalenza.

Da un lato è un fatto naturale e dovuto ai vizi di forma che contraddistinguevano il costrutto fin dal momento della sua prima creazione.
L’aspetto positivo della faccenda è l’avere sedato per sempre l’idea odiosa che la PAS possa diventare uno strumento nelle mani di gruppi ideologizzati, magari pericolosi negazionisti delle frequenti forme di violenza intra familiare. L’imposizione coatta di convivenza anche laddove sia evidente un vissuto di violenza, ovvero l’eventuale coartazione, presentata come una forma di terapia di minori che rifiutano un genitore e a cui viene imposto di frequentarlo per forza, minacciando magari il collocamento in comunità, ovvero considerare che il rifiuto di un genitore sia sempre motivato, sono forme di miopia e di violenza istituzionale, figlie di una o dell’altra ideologia.

Rimane tuttavia la realtà di bambini anche piccoli e di adolescenti che rifiutano anche solo di incontrare il proprio padre o, più raramente, la madre.
Ne ricordo uno, adolescente, che motivava la sua scelta di non vedere più il padre perché gli incontri di quest’ultimo con la nuova compagna lo rendevano “sporco” ai suoi occhi. Un altro aveva giustificato la scelta di chiudere per sempre i rapporti con il proprio genitore perché era stato sgridato per avere fatto cadere una lattina di coca cola.

Non conosco tecnici del settore che si sognerebbero di negare la realtà del rifiuto immotivato di un genitore come fenomeno psicologico, clinico: è una realtà che si incontra spesso nelle consulenze tecniche riguardanti i figli di separazioni conflittuali.
Mi sono formato l’idea, negli anni, che un rifiuto immotivato di incontrare un genitore sia spesso inconsapevolmente motivato dall’identificazione con l’altro genitore, spesso una madre, amata e magari percepita come fragile o maltrattata.

Una realtà che oggi rischia di rimanere al di fuori, e ingiustamente, di qualsiasi ricerca e dibattito scientifico, bollata per sempre come “questione politica”, mera ideologia.