image_pdfimage_print

Siamo chiamati al referendum per modificare il nostro Codice Deontologico. La modifica dell’art. 21 sta suscitando tanto interesse, perché, se come noi auspichiamo vincesse il , si andrebbe ad intaccare gli interessi economici di alcuni (pochi) che, esperti in psicoterapia ma ignorando la psicologia, (s)vendono le tecniche e gli strumenti riservati allo psicologo addestrando e supportando chi non è psicologo (facendo credere che il counseling  non sia una tecnica di intervento e di sostegno psicologico).

Nascondendo la testa come gli struzzi, non sotto la sabbia ma sotto principi altisonanti, chi è contrario al  al referendum sull’art.21 afferma implicitamente che chiunque, dopo aver frequentato un corso privato a pagamento, può chiudersi in una stanza facendosi passare per “professionista” e “ascoltare un cliente” con problemi “emotivi, relazionali o decisionali”. Ma non sono forse questi problemi psicologici? I contrari alla revisione del nostro Codice Deontologico fanno finta di ignorare o ignorano che nel counseling c’è l’uso di strumenti psicologici, che il “colloquio” utilizza modelli o costrutti psicologici. Ignorando questo, tanto vale dire che Carl Rogers non era uno psicologo e che non scriveva di psicologia!

Perché votare sì

La vittoria del  al referendum modificherebbe l’art. 21 chiarendo che gli psicologi possono insegnare la psicologia (il sapere) ma non possono insegnare “l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di psicologo a persone estranee alla professione” (il saper fare).

Non potendo affrontare questi contenuti con i colleghi psicologi, ci si nasconde dietro ai grandi proclami che passano dall’invocazione di una generica libertà (o libertà di insegnamento) a concetti ancora più astratti, arrivando perfino a tirare in ballo in modo maldestro la nostra splendida Costituzione. Sicuramente è libero l’insegnamento dell’arte e della scienza (articolo 33), ma lo stesso articolo afferma anche che “è prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”.

AltraPsicologia da quando ha un solo rappresentante al Consiglio Nazionale si è impegnata per la tutela della nostra professione, arrivando a proporre la modifica dell’art. 21.

La nostra posizione favorevole al SÌ è chiara e giustificata da un principio di realtà che contrasta nettamente tutte le spiegazioni teoriche di chi non vuole questa modifica.

1. Come prescritto dalla nostra Costituzione, in Italia c’è una Legge (56/89) che vincola la professione di psicologo all’iscrizione all’Ordine, limitando l’uso di strumenti psicologici esclusivamente a chi è iscritto. Quindi, è una battaglia per la legalità.

2. In Italia gli psicologi sono tanti, forse troppi. Vi è già ampia disponibilità di servizi psicologici che comprendono servizi di counseling. Non servono altri pseudoprofessionisti che possono trovare spazio solo in virtù del loro costo inferiore dovuto alla minor preparazione. Saper comprendere i nessi e le differenze tra patologia, disturbo, malessere e fastidio è fondamentale; per saper fare questo ci vuole una maggiore preparazione.

3. Insegnando strumenti e tecniche a terzi si svalorizza la professione di psicologo limitando il sostegno psicologico/counseling  all’apprendimento della sola tecnica, quasi non fosse un intervento di prevenzione per il benessere e la salute della persona.

4. L’ambito psicologico dovrebbe essere chiaro a tutti gli psicologi, eppure chi forma counselor non psicologi fa riferimento alla mancanza di definizione degli “strumenti psicologici”, come se questi colleghi ignorassero quello che fanno nei loro studi e si aspettassero che sia qualcun altro a dirglielo, magari un giudice!

5. Infine, nonostante le particolarità del mercato del lavoro in Italia, vi è il continuo confronto con l’“estero”, come se il sistema economico e di accesso ai servizi fosse identico in tutto il mondo. In particolare, chi forma counselor non psicologi con il termine “estero”, si riferisce ai paesi anglosassoni, cioè gli stessi che hanno già tutto liberalizzato. Sarebbe come chiedere di togliere l’obbligo dell’uso del casco in Italia perché nella maggior parte degli Stati Uniti non è obbligatorio. Anzi, per essere più coerenti con il confronto dovremmo non indossare il casco in barba alla legge, raccontando che non andiamo in moto ma su un mezzo di trasporto a due ruote con il motore a scoppio che lo fa muovere.

I pochi scrupoli di pochi

La posizione di chi contrasta il al referendum è comprensibile per chi ha un interesse economico nella formazione ai counselor non psicologi. Quello che invece fa maggiormente indignare sono tutti quelli che pretendono di fare politica professionale, facendo finta di non prendere posizione, nascondendo la testa sotto la sabbia dei grandi ragionamenti teorici. In realtà, dietro a questa ipocrita neutralità si nasconde il timore di inimicarsi qualche scuola di specializzazione o qualche collega influente che potrebbe tornargli utile la prossima tornata elettorale. Non si rendono conto che così stanno dalla parte di chi forma counselor non psicologi, di chi vuole far scivolare la psicologia verso le “quattro chiacchere” che aiutano.

Gli stessi soggetti affermano che “è male punire ma è meglio solo promuoverci”. D’accordo, la formazione è necessaria, ma non sufficiente.

Un esempio concreto

Solo per fare un esempio, non solo subisce un danno lo psicologo che ha perso il lavoro nella scuola superiore perché la sua attività è stata data ad un counselor non psicologo, ma il danno maggiore lo subisce la scuola stessa. Quando il counselor non psicologo non riconoscerà una psicosi precoce o un abuso rimosso, allora ci vorrà lo psicologo per riparare al danno. Perché la tutela della professione non può essere solo “promozione” ma anche evitare che capitino danni peggiori (prevenire), cosa che la nostra Costituzione ha compreso in modo chiaro, vincolando l’abilitazione all’esercizio professionale.