L’odore dell’amante

Tommaso è un bambino di nove anni dai capelli ricci, gli occhi vivaci e i modi socievoli.
Quel giorno, però, nella stanza dietro lo specchio in cui si vede da una parte sola, aveva le occhiaie profonde e si sforzava di essere educato, nonostante l’espressione preoccupata.
Probabilmente non aveva dormito.
Per via di quell’emozione che è un misto di paura, rabbia, tristezza e voglia di sfogarsi.
Sapeva di incontrare la psicologa del tribunale.
Per la prima volta qualcuno a cui dire la verità.
Voleva raccontarle che a volte, quando il papà tornava a casa ubriaco, succedevano delle cose.
Voleva dirle che a volte, quando andava a letto, sentiva la mamma e papà che litigavano forte e si chiudeva le orecchie per cercare di non sentire le voci che si facevano sempre più alte e poi i rumori, delle volte.
Rumori che facevano paura, che facevano immaginare cosa succedeva di là. La sua mamma che piangeva.
Voleva raccontare tutto questo Tommaso alla psicologa, nominata dal giudice del tribunale, che stava dietro lo specchio. Ma era strano, perché lei non glielo lasciava proprio fare. Ogni volta che l’argomento diventava quello, lei interveniva e non lo lasciava parlare. Una, due, tre, quattro volte.

Alla fine, Tommaso ha rinunciato.
Ha rinunciato ed è tornato a casa, più triste di prima, con nel cuore la disperazione di chi ormai sa che nessuno farà mai nulla, che nessuno farà mai niente per quella cosa sbagliata, che nessuno lo ascolterà mai.

Quella stessa psicologa consulente del tribunale scrisse che “non aveva ritenuto di fare delle domande al ragazzo sul tema della violenza”.
I genitori di Tommaso non si potevano incontrare, perché la madre era protetta da un’ordinanza restrittiva che impediva all’uomo violento, con cui era stata, di avvicinarsi a meno di 400 m di distanza.
Ma la psicologa diceva che la paura, lei, se la doveva far passare. E quando lo diceva era severa. A un certo punto cominciò a dire anche che il Giudice (Civile) l’aveva autorizzata a contravvenire alle misure di sicurezza (stabilite dal Giudice Penale).
Strano! Lo disse a noi consulenti a voce, ce lo scrisse in una mail. Lo disse, lo scrisse, eppure era falso. Non le credetti e dissi alla mia cliente di non muoversi da casa. Delle cose incredibili che ho visto fare e sentito dire da quella collega se ne occuperà l’Ordine.

Ma quale motivazione l’animava? Per quale motivo una collega deve arrivare a mentire? Perché battersi a favore di chi esercita violenza, impegnarsi per umiliare le vittime? Sembra la storia di un eroe al contrario, di un’anima persa, oscura.
E poi, i concetti che usava e che ho preso immediatamente in antipatia. Collaborazione, genitore naturale, bigenitorialità, rischio di alienazione. Non ha mai usato la parola violenza.
Un arsenale già evidentemente collaudato, fatto di concetti mal interpretati ma forti e consolidati.

Nell’arsenale di questa psicologa mauvais c’è, sicuramente, anche il costrutto dell’alienazione.
Un concetto figlio di un oscuro psichiatra che morì suicida, certamente immerso nel pragmatismo americano degli anni 80 e forse nelle proprie personali frustrazioni.
Richard Gardner ebbe la ventura di osservare un fenomeno che, complice l’aumento delle separazioni, si osserverà, da allora a oggi, sempre più spesso. Nota che, in alcuni casi in cui una coppia con figli decide di separarsi, in una condizione di grande conflittualità, può accadere che un figlio rifiuti categoricamente di incontrare un genitore: di solito quello con cui ha il rapporto meno frequente, che, negli anni ’80, era quasi sempre il padre.

L’oscuro psichiatra fa due errori: primo, pensa e descrive una patologia come se si trattasse della malattia di una sola persona; invece è evidente che si tratta di qualcosa che riguardava un orizzonte più ampio, una dinamica tra tre persone, tutti coinvolti a filo doppio nella faccenda.
Secondo errore, suppone che vi sia più o meno sempre un’attività cosciente, consapevole e attiva di un genitore contro l’altro, una campagna di denigrazione, quasi un’attività “politica” di distruzione del genitore agli occhi del bambino. Immediatamente, la teoria dell’alienazione diventa una teoria etica, moralistica, che individua un colpevole e una vittima. Di solito una madre colpevole e un padre vittima. Diventa una faccenda di lotta di potere tra uomini e donne, un’etichetta che l’alienazione non si scollerà mai più.

Trent’anni più tardi siamo di fronte a Melissa, una ragazzina di undici anni, bella e vivace, che da grande vorrebbe fare l’attrice e che vive con il papà perché da un anno rifiuta categoricamente di vedere la madre. Di fronte ha un’altra psicologa, nominata da un altro giudice, rifiuta l’incontro congiunto con la madre perché, dice, dovrebbe fare il viaggio in auto con lei.
Interrogata dalla psicologa spiega che da quando la madre si è “rifatta una vita” lei “sente l’odore” del nuovo compagno, un odore che non sopporta e che è la principale motivazione del suo rifiuto della madre.

Ci troviamo forse di fronte ad una fase successiva della nostra storia. Oggi è infatti evidente che dietro la cosiddetta alienazione vi è il rifiuto di un genitore che ha usato violenza o che ha una personalità inadatta, o che non c’è mai stato nella vita di un bambino o che non è capace di esercitare le più elementari cure nei confronti del figlio. È un genitore che può e forse deve, in certi casi, essere evitato, a protezione del minore. Non è più tempo di psicologia malvagia. O di ideologia applicata la scienza. Esiste la convenzione di Istanbul, le norme del CSM, le relazioni della commissione femminicidio, le sentenze di Cassazione.

Tutti sono stanchi di sentire parlare di alienazione parentale come strumento per giustificare genitori violenti, e nessuno ha più alcuna intenzione di supportarla né tantomeno di approvarla.

Resta però un problema.
Quale? La domanda si pone per psicologhe e psicologi che non hanno alcuna posizione ideologica, né pro né contro i padri o le madri, né per l’uno né per l’altro.
Esiste una rimanenza di casi in cui dei bambini non vengono coinvolti da una campagna politica ma semplicemente si identificano con il genitore a cui sono più legati, con quello di cui si fidano, a cui vogliono più bene e che per questo fanno proprie delle istanze espulsive profondamente radicate nel modo di sentire di chi in quel momento sta rifiutando la relazione coniugale, genitale, affettiva tra due adulti?

Può darsi che un bambino si faccia carico di quello, che reciti il ruolo dell’adulto, che faccia il grande, che voglia essere un bravo bambino quando essere un bravo bambino implica per forza di cose mandare via colui che si è comportato male, colui che ha abbandonato, colui che ha tradito, colui che non è più un buon partner ma che non necessariamente doveva per forza essere un cattivo genitore.

In definitiva, esiste un rifiuto che possa considerarsi immotivato di un minore nei confronti di un genitore? Melissa, che sente l’odore dell’amante, che sente in quello il male della madre come se fosse lei stessa a essere stata tradita, cos’è? Cosa facciamo con lei?

Quanto spesso capita ai consulenti tecnici dei giudici che lavorano in casi di separazione conflittuale di incontrare situazioni di questo genere? Come si comportano?

Sono domande che sono rimaste sospese nel vuoto, a galleggiare nel limbo tra ciò che si vede e ciò che non può essere detto, ciò che non deve essere pensato, dei problemi ai quali non c’è risposta.