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Unobravo, Psicologi4you, Serenis, e poi le big come BetterUp, Calm, Ginger, Lyra Health, e migliaia di altre.

Si stimano 20.000 app di mental health nel mondo.

A qualcuno proprio non piacciono, specialmente in Italia, dove sono arrivate da poco.

In questo articolo proverò ad approfondire luci ed ombre di questo nuovo modo di fare psicologia.

LO CHIAMANO MENTALTECH

Il mercato delle app e delle piattaforme di psicologia, il Mentaltech, è in fortissima crescita.

È così promettente da essere diventato appetibile per investimenti importanti da parte del mondo della finanza.

Livongo ha ricevuto 18,5 miliardi di dollari di investimenti. BetterHelp è parte di un gruppo quotato in borsa.

In Italia, Unobravo ha ricevuto 17 milioni di euro dal fondo Insight Partners, con la partecipazione di Cassa Depositi e Prestiti, che è la società con cui lo Stato Italiano sostiene le aziende promettenti.

Il numero di clienti cresce ad un ritmo altissimo.

Siamo di fronte ad un fenomeno che non è solo della psicologia, ma è sociale, finanziario, economico.

COSA OFFRONO LE APP E LE PIATTAFORME?

I servizi sono i più vari: dalle informazioni di auto-aiuto, alle chat di sostegno, fino a veri e propri percorsi online con psicologi.

Le piattaforme che offrono percorsi psicologici online garantiscono spesso tariffe inferiori del 20-30% rispetto al mercato tradizionale.

Ma queste app e piattaforme offrono un servizio anche ai professionisti che vi collaborano.

I colleghi con cui ho parlato trovano particolarmente interessante il flusso garantito di pazienti, la semplificazione amministrativa (si fattura periodicamente alla piattaforma), la possibilità di scegliere come, quando e dove lavorare, il tutoraggio e la supervisione, l’eliminazione del problema degli insoluti.

Tutto questo abbatte drasticamente alcuni costi, rischi e oneri per il professionista.

In cambio, le piattaforme trattengono una commissione per il servizio, spesso direttamente dalla parcella versata loro dal cliente.

Funzionano insomma come dei poliambulatori virtuali, anche in termini di commissioni, ma con la differenza di raggiungere una platea più ampia di quella locale.

LA CONCORRENZA ‘SLEALE’

Una concreta preoccupazione di alcuni psicologi è che le piattaforme producano una sorta di concorrenza ‘sleale’ a chi opera in modo tradizionale, lavorando individualmente nel proprio studio fisico e occupandosi di tutta l’amministrazione e la promozione.

È un rischio possibile: le piattaforme applicano economie di scala e lavorano a tariffe inferiori al mercato tradizionale.

Ma va considerata l’ipotesi che si rivolgano ad un target diverso.

Le piattaforme spesso offrono un servizio abbastanza standardizzato, con una possibilità limitata di scegliere il professionista e percorsi solo online.

Non è una formula per tutti.

Molti clienti preferiranno sempre il setting tradizionale, lo psicologo scelto personalmente, la presenza in carne e ossa, il rito di recarsi in un luogo fisico, l’intimità del rapporto in presenza.

I target potrebbero essere molto diversi.

E offrendo formule nuove, il mentaltech potrebbe creare nuova domanda invece che distrarre quella del mercato tradizionale.

In altre parole, va considerata la possibilità che questi nuovi modi di fare psicologia non vadano a sottrarre clientela a chi opera in modo tradizionale, ma allarghino la platea dei fruitori della nostra professione.

LA DIGNITÀ DELLE TARIFFE

Le tariffe praticate ai pazienti dalle piattaforme sono molto discusse.

Una parte degli psicologi le ritiene troppo basse.

Se ne fa un problema di dignità della professione.

E anche i compensi riversati ai professionisti, intorno ai 30 euro/ora, da alcuni vengono giudicati troppo bassi e poco dignitosi.

Qualcuno parla addirittura di sfruttamento di manodopera qualificata a basso costo.

Ma questi compensi sarebbero bassi rispetto a cosa?

I metri di paragone possono essere diversi.

I compensi delle piattaforme, se paragonati alle tariffe da studio professionale, sono certamente bassi.

Ma sono invece allineati ai compensi erogati ai professionisti in alcuni contesti strutturati.

Ad esempio i contratti di lavoro autonomo nelle ASL prevedono compensi lordi di 25-30 euro/ora.

Così come le tariffe riversate dai poliambulatori, sottratte le spese di gestione.

Anche molte comunità terapeutiche autorizzate e accreditate, per via delle tariffe regionali, offrono compensi intorno ai 25 € l’ora per le collaborazioni continuative con un certo monte ore settimanale.

Occorre situare la collaborazione con le piattaforme nel contesto di un’attività strutturata.

Le piattaforme, al pari dei poliambulatori, offrono uno spazio, un indotto di clienti, e si occupano di una parte della gestione sollevando il professionista da oneri di tempo e spese amministrative.

Garantiscono inoltre, al pari dei contratti continuativi con le Asl, una certa continuità di flusso economico.

Se ne può fare certamente un problema di dignità delle tariffe.

Ma occorre pesare adeguatamente il valore del servizio ricevuto dal professionista in termini economici.

E tenere conto che qualunque discorso sulla dignità delle tariffe dovrebbe investire tutti i contesti che le praticano, non soltanto le piattaforme.

Resta infine aperto il tema dell’equo compenso. La nuova normativa potrebbe infatti riguardare le piattaforme con fatturati importanti, ma il panorama applicativo è in via di definizione.

MERCIFICAZIONE O DEMOCRATIZZAZIONE?

Una delle accuse al Mentaltech è di ‘mercificare’ la professione.

La critica è di creare una sorta di discount della professione, in cui si perderebbe quell’artigianalità e quel valore aggiunto che sono tipici delle professioni intellettuali.

Ed effettivamente con il Mentaltech siamo molto lontani dal servizio sartoriale, dall’idea tradizionale del professionista con il suo studio privato, scelto accuratamente dal paziente con un’attenta ricerca.

Con le piattaforme spesso il professionista viene assegnato quasi d’ufficio, attraverso algoritmi che dovrebbero accoppiare il paziente con il suo terapeuta ideale.

Di fatto, che lo si voglia o no, il grado di scelta del paziente nelle piattaforme è più limitato rispetto al setting tradizionale.

Qualcuno è poi diffidente in generale sui percorsi online, e sull’opportunità di offrirli come unica modalità a prescindere dalle condizioni del paziente.

Anche questo è un limite delle piattaforme: il percorso online non viene proposto in base ad una valutazione di appropriatezza clinica, ma come condizione di default, per motivi sostanzialmente commerciali e organizzativi.

Questo aspetto delle piattaforme rappresenta senza dubbio un limite.

Trovo però abbastanza anacronistica la posizione di considerare negativamente i percorsi online.

Le professioni cambiano, anche in base ai cambiamenti tecnologici e alle condizioni sociali. E quella di psicologo non fa differenza.

All’ultimo anno di università, era il 1999, discutevamo sulle pericolose ricadute cliniche dell’uso degli SMS per gestire gli appuntamenti con i pazienti.

Oggi, solo vent’anni dopo, tutti usiamo mail o whatsapp e una discussione del genere suonerebbe ridicola.

Vedo però, nei giudizi troppo taglienti sulle piattaforme, anche il rischio di un giudizio negativo verso i pazienti.

In altre parole si rischia, qualificando le piattaforme come ‘psicologia cheap’, di qualificare anche la domanda del paziente come ‘domanda cheap’.

È un attimo arrivare a giudicare il fruitore delle piattaforme come paziente svogliato, superficiale, in cerca di soluzioni facili e servizi di bassa qualità.

Ed è un rischio da evitare.

A mio avviso la domanda del cittadino andrebbe sempre rispettata, a prescindere dal modo in cui si esprime.

Forse il successo di questi servizi è il segnale che il setting tradizionale non copre tutte le esigenze, o non è alla portata di tutti.

E questa ‘mercificazione’ potrebbe essere letta anche in positivo, come ‘democratizzazione’.

Il Mentaltech potrebbe rendere accessibile la psicologia a chi non avrebbe potuto permettersela.

IL PROBLEMA DEL CONTRATTO

Molti colleghi che lavorano per le piattaforme segnalano condizioni contrattuali gravose, a volte vessatorie.

D’altra parte i contratti sono più segreti del terzo segreto di Fatima, ed è quindi difficile verificare se le cose stanno davvero così.

Inoltre i contratti sono definiti dalle società che gestiscono le piattaforme, e imposti ai professionisti. Prendere o lasciare.

Contratti segreti, imposti dal contraente forte, non negoziati con i lavoratori.

Se accadesse in una fabbrica metalmeccanica gli operai bloccherebbero le macchine, e i giudici del lavoro farebbero irruzione con gli elicotteri.

Si dirà: ma qui è libera professione, lavoro autonomo!

Si, possiamo fingere che sia lavoro autonomo.

Ma qui c’è un committente forte, una struttura organizzata, e migliaia di lavoratori in posizione subordinata.

Per queste situazioni una quindicina d’anni si usava un nome evocativo: ‘false partite IVA’.

E si trasformavano i contratti in tempi indeterminati.

Più recentemente, su questi temi Di Maio ha costruito un pezzo della sua fortuna politica, con i contratti dei rider.

Senza arrivare alla lotta di classe e all’occupazione delle fabbriche, è ovvio che la crescita del numero di collaboratori porrà in modo sempre più insistente il problema dei contratti, della loro trasparenza e negoziazione.

Ogni professionista scontento è un potenziale contenzioso di diritto del lavoro.

Credo siano le difficoltà iniziali di un mercato immaturo, che ha mutuato prassi contrattuali da altri Paesi.

Trovo difficile che questa situazione possa durare a lungo.

Prima o poi le piattaforme dovranno fare disclosure sui contratti, e accettare di negoziarli collettivamente con i professionisti.

In fondo, anche questo è mercato.

LA CURA DEI TALENTI

Un tema collegato alla trasparenza dei contratti riguarda la cura dei talenti.

In un mercato sano, il professionista è un valore.

Un valore che devi saper attrarre e mantenere con te.

Le aziende migliori sono in concorrenza tra loro per reclutare i talenti migliori.

Ora, io ho provato a mettermi nel ruolo del professionista in cerca di opportunità, che deve confrontare l’offerta delle diverse piattaforme che trovare quella più confacente.

Impossibile. Non esistono informazioni pubbliche sui benefit riservati ai professionisti.

Non dico il dettaglio, ma almeno a grandi linee.

Il mercato delle piattaforme di oggi, poco trasparente, non permette al professionista di confrontare le offerte.

E mi chiedo come facciano le piattaforme, il cui business si basa sul lavoro dei professionisti, ad attrarre talenti selezionati.

Non voglio pensare che i professionisti vengano considerati ingranaggi, tutti uguali.

Voglio immaginare che siamo di fronte anche qui, ad una forma di immaturità di un mercato che deve ancora svilupparsi nel contesto italiano.

E che prima o poi le piattaforme cominceranno a considerare i professionisti come dei partner da attrarre, attraverso un’offerta vantaggiosa e trasparente.

IL PROBLEMA DEONTOLOGICO

Un problema connesso a quello contrattuale è quello deontologico.

Le condizioni organizzative delle piattaforme potrebbero entrare in conflitto con le norme del Codice Deontologico degli psicologi.

Ad esempio, l’imposizione del ‘Tu’ confidenziale con il paziente, il primo colloquio gratuito, o l’assegnazione obbligata dello psicologo e del paziente.

Ma altri ne potrebbero emergere.

La questione deontologica è di natura pubblicistica.

Non si può certo risolvere nel privato di un rapporto lavorativo di stampo commerciale.

Le questioni deontologiche non possono che entrare come elemento strutturale nella costruzione delle piattaforme.

E per farlo, le criticità deontologiche devono poter emergere in modo libero, trasparente, ed essere pubblicamente dibattute.

Cosa che oggi non sta avvenendo, anche per le clausole di riservatezza a cui i professionisti sono obbligati.

LA RESPONSABILITÀ CIVILE DELLA PIATTAFORMA

Un tema tutto da esplorare è poi la responsabilità civile delle piattaforme.

Le piattaforme non sono semplici cataloghi di professionisti, ma erogatori di servizi sanitari.

E il cittadino potrebbe ritenere, per un legittimo affidamento, che la piattaforma cui lui si rivolge, che gli procura il servizio professionale, e che lui paga direttamente, sia anche responsabile della qualità della prestazione stessa e di eventuali danni e disservizi.

Cosa succederebbe se, in base a questo legittimo affidamento, un cittadino decidesse di chiedere i danni alla piattaforma, e la piattaforma per evitarsi problemi concordasse un indennizzo stragiudiziale, rivalendosi poi sullo psicologo?

Questa non è fantascienza. La ripartizione di responsabilità fra strutture sanitarie e professionisti che vi operano è pane quotidiano in sanità.

Per questo, e per garantire sicurezza e responsabilità, il settore sanitario è fortemente regolamentato.

Come si collocano le app e le piattaforme in questo contesto?

Non sono vere e proprie strutture sanitarie, ma non sono neanche meri elenchi in stile Pagine Gialle.

Sono una via di mezzo. Stanno in un limbo. Ciascuna con un grado diverso di presenza nel rapporto fra paziente e professionista.

La loro natura, la loro collocazione nella rete dei servizi per la salute, e la loro quota di responsabilità restano temi da definire.

Ovviamente è da escludere qualunque soluzione pilatesca, che scarichi tutta la responsabilità sul professionista e sgravi totalmente la piattaforma.

Più probabilmente si tratterà di una via di mezzo, di una ripartizione.

Ma resta un tema aperto e inesplorato. Sarebbe utile ragionarci prima che un contenzioso per responsabilità professionale lo faccia esplodere.

SANITÀ PUBBLICA

Infine un tema più politico, che riguarda il rapporto fra sanità pubblica e privata.

La psicologia inizia ad essere riconosciuta come un servizio essenziale, che lo Stato dovrebbe offrire.

E proprio ora si diffondono questi servizi di psicologia altamente accessibili ed economici.

Non voglio drammatizzare.

Ma la sanità pubblica non cerca di conquistare mercato. Piuttosto il contrario: quando la sanità privata si allarga, la sanità pubblica arretra.

Il rischio è che i cittadini si rivolgano alle nuove soluzioni facili ed economiche del mercato privato, anziché rivendicare il loro diritto a ricevere assistenza psicologica dallo Stato.

Ed è un fattore politico di cui tenere conto, anche come comunità professionale.

CONSIDERAZIONI FINALI

Il mentaltech non sembra un fenomeno che si possa fermare.

Esiste, ha successo, aumenta costantemente il suo volume di prestazioni.

Pare rispondere a dei bisogni che forse la psicologia tradizionale non interpreta fino in fondo.

Tuttavia il suo sviluppo in Italia presenta alcuni importanti problemi contrattuali, deontologici, economici, politici, e reputazionali.

Sono problemi che andrebbero fatti emergere.

Ma la sensazione è che i diretti interessati – piattaforme e professionisti – al momento siano molto reticenti ad affrontarli apertamente.

D’altra parte, una fetta di comunità professionale ha una posizione di rifiuto perfino eccessiva, pregiudiziale. E anche questo non aiuta.

Credo che l’azione da fare, come comunità, sia di prendere atto che questi nuovi modi di fare professione non possono essere denegati o liquidati come psicologia di bassa lega.

Vanno accolti, rispettati, compresi nelle loro modalità e nel valore che possono creare.

E vanno fatte emergere le loro criticità, affinché diventino oggetto di dibattito, pensiero, e risoluzione.

Ne guadagneremmo tutti.