Psicologi e divulgazione sui social. Con quali criteri?

Di Nicole Adami e Alfredo Verde

I social sono la vetrina pubblica contemporanea che permette a molti colleghi di farsi conoscere, divulgare, esprimere pareri e opinioni su temi sociali e psicologici.

Si sta creando un Digital Professional Divide tra chi sa sfruttare le nuove tecnologie, promuovendosi attraverso i social, e chi invece non li utilizza.

Ma nessun marketing ben riuscito è garanzia di qualità.

La capacità di essere incisivi e avere follower sui social è legata alla conoscenza degli algoritmi e delle strategie di posizionamento. Non alla competenza e alla serietà professionale.

Osserviamo centinaia di post, reel, video accattivanti, acchiappalike, ma privi di riferimenti scientifici, che possono banalizzare alcuni sintomi, aumentando un senso di inadeguatezza e ansia in chi legge; oppure stigmatizzano alcuni disturbi mentali, in questi anni il narcisismo è in testa.

Disturbi spesso malamente intesi e soprattutto diagnosticati attraverso il relato di pazienti presunti/e vittime di tali soggetti.

E’ importante riflettere sugli effetti negativi di una divulgazione priva di bibliografia scientifica. Talvolta emerge una grossa confusione fra quanto può essere definito “scientifico”.

In un recente dibattito su un noto social, ad esempio, a un collega che le obiettava di non basarsi su “articoli” scientifici, un altro collega rispondeva che lui non si riferiva ad articoli, ma a libri (!).  E i libri cui si riferiva erano costituiti da… semplici riferimenti a nomi di prestigiosi colleghi stranieri, mescolati con nomi di meri divulgatori, spesso neppure psicologi, autori di agili volumetti che semplificano le diagnosi psicologiche e le fanno diventare etichette simili agli spilli che inchiodano le farfalle negli espositori.

Ma cosa è scientifico?

Tutto ciò che ha passato il vaglio della comunità scientifica, cioè articoli sottoposti a revisione anonima da parte di altri studiosi del settore, inseriti in riviste indicizzate e citate sui più noti motori di ricerca internazionali, come WebofScience, Scopus, Pubmed.

La scienza non si misura in like o followers, come alcuni colleghi credono, confondendo i social con l’Accademia di Stoccolma, ma in citazioni.

Perchè è importante che ci sia un riferimento alla ricerca scientifica?

Perchè l’argomento della psicologia riguarda soprattutto l’essere umano, i cui comportamenti e stati mentali possono venire letti e interpretati in modi diversi. In chiave filosofica, antropologica, religiosa, pedagogica, o in chiacchiere da bar.

Ma chi è psicologo deve ricordarsi che la sua professione rientra tra le professioni sanitarie, quindi deve necessariamente rifarsi a basi scientifiche.

Anche la psicologia clinica e la psicoterapia non sfuggono a queste regole; e anche la diagnosi psicologica quindi, che spesso deriva da intuizioni (tecnicamente da abduzioni nel senso di Charles Sanders Peirce, e cioè dalla sussunzione di un fatto osservato sotto un concetto noto) non sfugge al controllo attraverso la verifica con i criteri che derivano dalla ricerca. Convenzionali certamente, ma confermati tramite procedure di tipo induttivo/deduttivo tramite confronti tra campioni clinici e campioni di controllo.

La legge cosa dice? 

Le norme deontologiche che regolano la nostra professione affermano proprio quanto sopra abbiamo argomentato. Gli articoli 5,7,8 del Codice Deontologico degli psicologi sono fondamentali: ci ricordano che noi psicologi non possiamo diffondere semplici opinioni, teorie pressapochiste o esperienze personali spacciandole per psicologia.

Possiamo AVERE opinioni personali, abbiamo la libertà di esprimerle, ma dobbiamo SPECIFICARE che non c’è niente di scientifico o psicologico in quelle opinioni; oppure che si tratta di intuizioni (abduzioni) che hanno una validità scientifica ancora in discussione e comunque dubbia, e che richiederebbero ulteriore ricerca allo scopo di essere confermate.

Anche l’esperienza personale può contare (come evidenziano le storie di vita dei grandi innovatori della psicoterapia), ma deve condurre alle intuizioni e validazioni di cui sopra.

Quanto privato nella vita pubblica online?

Si nota di frequente una commistione sui social tra la vita privata e la professione. L’utilizzo di immagini riconoscibili dei figli, oppure cronache di vita privata, che ruolo hanno nel marketing e nella costruzione della propria immagine professionale? Che effetto può avere sull’utenza che legge?

La riflessione sulle self disclosures, ovvero le autoaperture e l’esposizione della vita privata dello psicologo all’interno degli interventi psicoterapeutici, che tuttora è molto praticata a livello scientifico, andrebbe discussa e ponderata nel mondo social.

La metariflessione sul mondo social

Spesso chi vende consulenza agli psicologi per aumentare i propri followers sui social pare non conoscere il codice deontologico, e trascurare gli aspetti metariflessivi e relazionali che caratterizzano in modo specifico la nostra professione.

I social sono mezzi potenti che, se usati bene, possono contribuire alla diffusione di una cultura della salute mentale.

Alla luce di tutto ciò, è indispensabile che parta da noi psicologi una riflessione ampia sull’uso professionale dei social!

Ma mancano linee guida ufficiali da parte degli Ordini, mancano ricerche sugli effetti della divulgazione psicologica tramite social. Abbiamo un documento sulla digitalizzazione della professione. Ma non offre linee guida.

Allora da dove iniziare?

Possiamo iniziare a dirci che i consigli “psicologici” snocciolati a sconosciuti in chat pubbliche, senza conoscere la situazione complessiva delle persone, sono pericolosi e non hanno nulla di terapeutico.

Oppure che i reel in cui si offrono i “5 magici trucchi per capire se stai con un narcisista” sono non scientifici e violano il codice deontologico.

Che non si può fare diagnosi su un social, in particolare su terze persone.

Che sparare giudizi facili contro le cattive abitudini o contro categorie generiche come “i genitori”, “gli insegnanti” o “la società” utilizzando reel e canzoncine, non ha niente di professionale.

Che l’ansia non la sconfiggi in 3 mosse, quando è davvero ansia patologica.

Che non esiste alcun trucco per far durare a lungo una relazione o raggiungere l’orgasmo perfetto.

Insomma, dobbiamo iniziare a distinguere tra il marketing aggressivo e la professionalità: è possibile creare modalità accattivanti per catturare l’attenzione dei fruitori, senza perdere serietà, credibilità e soprattutto scientificità! Gli algoritmi non aiutano in questo, ma la qualità paga.

Infine una provocazione.

L’utenza non è scema.

Gli utenti ci osservano, osservano come ci poniamo, con che toni, con che stile, con che linguaggio. Stanno imparando a mettere in discussione le nostre affermazioni e a chiedere fonti e riferimenti.

La divulgazione scientifica seria fortunatamente si sta ampliando sui social, e con lei una maggiore consapevolezza delle persone. Di conseguenza la competenza psicologica media nella popolazione sta aumentando.

Se l’obiettivo di questo marketing social “populista e alla buona” è un ritorno in lavoro concreto, ovvero un aumento dei pazienti e un maggior numero di richieste di consulenza, allora la leggerezza e l’opinionismo sono un volano che rende solo nel breve termine.

Mentre la serietà, la scientificità, la correttezza, che non sono sinonimo di pesantezza ma di professionalità, pagano nel lungo periodo e nel passaparola reale.

Nel frattempo, attendiamo con ansia che gli ordini di competenza ci forniscano linee guida redatte con accuratezza e nel confronto con la comunità professionale, e ci indirizzino a utilizzare i social in modo conforme ai criteri della buona divulgazione.

 

Nicole Adami
Alfredo Verde