Referendum C.D.: più ambiguità e incertezza col nuovo articolo 8

Fra le occasioni mancate di questa revisione del Codice Deontologico, quella relativa all’art. 8 è forse la più deludente, perché la modifica che ci viene proposta è peggiorativa: introduce infatti un ulteriore elemento di ambiguità e di incertezza in un testo che già in partenza si presentava confuso e di difficile interpretazione e applicazione.

Il testo originario è il seguente:
“Lo psicologo contrasta l’esercizio abusivo della professione come definita dagli articoli 1 e 3 della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, e segnala al Consiglio dell’Ordine i casi di abusivismo o di usurpazione di titolo di cui viene a conoscenza. Parimenti, utilizza il proprio titolo professionale esclusivamente per attività ad esso pertinenti, e non avalla con esso attività ingannevoli o abusive”.

Il testo enuncia un principio, ma non dice esattamente a quale condotta sono tenuti/e psicologi e psicologhe, e in quali circostanze.
Già si poneva quindi il problema di cosa significhi in concreto «i casi di abusivismo e di usurpazione di titolo di cui viene a conoscenza», espressioni riferite a fattispecie diversissime che stanno nella stessa frase.

L’usurpazione di titolo è un fatto: se io non sono autorizzato/a all’esercizio della professione di psicologo, e pubblicamente (sui social, con una targa sulla porta, sui biglietti da visita, con delle affissioni) mi spaccio per esserlo, commetto un abuso (e un reato) facile da dimostrare, perché la prova o è materiale e lampante o non lo è.

L’abusivismo dell’esercizio professionale (reato grave, punito dal Codice Penale con la detenzione fino a tre anni e con multe fino a € 50.000) è molto più difficile da individuare e da provare.

Vediamo in breve quali potrebbero essere i criteri in base ai quali lo/la psicologo/a potrebbe farsi l’idea che un soggetto, esterno alla professione, la eserciti abusivamente.

Qui, diversamente dall’abuso di titolo, non c’è mai la prova documentale: si tratta sempre di elementi indiziari o di prove testimoniali.
Facciamo qualche esempio.

Il parrucchiere, mentre sistema la piega alla cliente, ne ascolta le confidenze relative alla sua vita coniugale e le dà interessanti consigli su come affrontarne le difficoltà: è sicuramente presente una forma seppure ingenua di “ascolto attivo”, di sostegno emozionale, di “alleanza d’aiuto”, ma il contesto non è istituito con una finalità consulenziale.
Così come non esercita abusivamente la professione psicologica un amico che ne consola un altro disperato perché la fidanzata lo ha lasciato.
Esercita abusivamente, invece, chi costruisce un contesto finalizzato all’esplorazione e alla valutazione di stati della vita mentale, e su questi interviene nella forma del colloquio (integrata o meno dall’uso di tecniche o esercizi specifici), fornendo azione non occasionale o informale di prevenzione, sostegno, abilitazione e riabilitazione che investono le emozioni, i processi cognitivi, le abilità o disabilità psicologiche di una persona che si pone spontaneamente e consapevolmente quale cliente.

Questo del tutto a prescindere dall’elemento economico: su questo la giurisprudenza penale è chiara, l’esercizio abusivo si configura anche con un solo atto e a titolo gratuito.

Insomma, nell’esercizio abusivo c’è un’intenzione precisa e per la sua realizzazione viene organizzato un vero e proprio setting. Non importa se a questo viene dato un titolo diverso, e la copertura di una denominazione anglofona che “suona bene”: counselor, coach, trainer, mentor, con la relativa aggettivazione di comodo “esistenziale”, “relazionale”, “mentale” e simili. (Ogni termine con la radice “psi” ovviamente viene evitato con cura).

L’art. 8 ha in teoria la duplice funzione di indurre gli psicologi e le psicologhe a farsi “sentinelle” contro l’esercizio abusivo della professione, e di avvertire che non possono collaborare in nessun modo alla formazione di soggetti potenzialmente abusanti: non solo mediante l’insegnamento (come prevede in modo inequivoco l’art. 21), ma anche ricoprendo incarichi amministrativi, di tutoring, supervisione etc.

Appare infatti evidente che, quando un soggetto sprovvisto di laurea in Psicologia investe tempo e denaro per formarsi come counselor o simili pseudo-professioni, il suo intento è di entrare nel mercato per rispondere in modo improprio tecnicamente e illegale sotto il profilo giuridico, a domande di intervento psicologico.
Come giudicare lo psicologo o la psicologa che asseconda questo percorso, incoraggia e sostiene questa formazione, ne legittima surrettiziamente la qualifica? Non solo qui vi è la mancata vigilanza contro l’abusivismo, ma vi è la complicità, l’istigazione, il concorso morale oltre che operativo.

Ecco allora che l’art. 8 del Codice Deontologico nasce, in origine, anche per stigmatizzare ogni possibile collusione, passiva e omissiva, ma soprattutto attiva, delle psicologhe e degli psicologi con l’abusivismo professionale.

Vediamo ora, evidenziata in corsivo, la “brillante innovazione” che modifica il testo dell’art. 8:
“La psicologa e lo psicologo contrastano l’esercizio abusivo della professione come definita dagli articoli 1 e 3 della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, e segnalano al Consiglio dell’Ordine i presunti casi di abusivismo o di usurpazione di titolo di cui vengono a conoscenza”.

Aggiungere ora al testo l’aggettivo “presunti” che contributo interpretativo, che chiarificazione fornisce? Introduce, piuttosto, un ulteriore elemento dubitativo e una inutile, anzi potenzialmente dannosa complicazione sotto il profilo procedurale, quando si dovrà giudicare la condotta di qualche collega che non abbia “presunto” l’esercizio abusivo della professione da parte di qualche counselor, coach, mentor o altro, quando era invece il momento di farlo.

È doveroso constatare dunque la futilità dell’aggettivo “presunti”, aggiunto al testo senza specificare a quale soggetto debba andare in capo il presumere: allo/a psicologo/a?, all’Autorità Giudiziaria?, agli organismi disciplinari dell’Ordine? Per forza, diremmo noi, allo/a psicologo/a, dato che, quando l’Autorità Giudiziaria o gli organismi disciplinari dell’Ordine siano già in possesso della ipotetica notitia criminis, non ricorrerebbe la necessità che l’iscritto/a si attivi per la segnalazione. E quale dovrebbe essere, infine, il criterio da seguire per l’azione disciplinare se – per pura insipienza, svagatezza, disattenzione, indecisione… – lo/a psicologo/a non “presumesse”. Come dimostrare, al caso, che “avrebbe dovuto presumere”?

Insomma, un articolo già problematico e di difficile applicazione – e per altro un articolo strategico, fondamentale per la difesa della professione dall’abusivismo – è stato pasticciato senza costrutto e, immaginiamo, senza consapevolezza.
A volte, si direbbe, l’ansia di fare comunque qualcosa, di esibire comunque dinamismo, di piazzare comunque una bandierina, fa premio sulla motivazione achievement che suggerirebbe di chiedersi prima di tutto quale obiettivo si vuole raggiungere, e in subordine come. E in mancanza di questa capacità, l’atteggiamento più virtuoso non sarebbe invece, piuttosto che creare confusione, non fare proprio niente e lasciare le cose come stanno?