Referendum C. D.: Quel ‘di più’ che equivale al ‘meno’

Sapevamo bene che sul nostro Codice Deontologico, prima o poi, si sarebbe dovuto intervenire per tre questioni principali.

La prima. L’adeguamento alle disposizioni in materia di consenso informato dettate dalla legge 219/2017 tenendo conto del diritto alla valorizzazione delle capacità di comprensione e decisione della persona minore che deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute. Un adeguamento reso ancora più urgente dall’inserimento della psicologia tra le professioni sanitarie con la Legge 3/2018, la ‘Lorenzin’ per intenderci.

La seconda. La risoluzione del rischioso disallineamento con quanto prescritto dal Codice di Procedura Penale in tema di segreto professionale, principalmente nella formulazione dell’art.12 del Codice Deontologico in cui sembra che la rivelazione in giudizio del segreto professionale sia consentita esclusivamente in presenza di liberatoria da parte della persona interessata, dimenticando che l’art. 200 comma 2 lettera c) del Codice di Procedura Penale, consente al Giudice di ordinare al/alla professionista di testimoniare se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata.

La terza. La necessità di dotare il nostro Codice di una presentazione lessicale inclusiva (Il Codice Deontologico delle Psicologhe e degli Psicologi) e aggiornata, sostituendo termini ormai desueti come ad esempio ‘potestà genitoriale’.

Insomma tre questioni puntuali di adeguamento alle leggi vigenti e ad una forma inclusiva. Non un semplice intervento di maquillage, ma neanche un totale stravolgimento. Di certo un aggiornamento logico e necessario dopo quasi 25 anni da quel 16 febbraio 1998 in cui il nostro Codice entrò in vigore.

E invece, sorpresa!

Nel leggere la proposta da sottoporre a referendum, accanto agli aggiornamenti citati, ci ritroviamo di fronte interventi di trasformazione profonda che toccano punti nevralgici dell’impalcatura etica, che finiscono per depotenziare dispositivi importanti in materia di tutela, che introducono premesse di principio di cui non si comprendono bene le modalità di applicazione, che aprono un pericoloso spazio alla discrezionalità in tema di sanzioni disciplinari.

Vediamo alcuni esempi.

IL FONDAMENTO ETICO

Mi è capitato di recente di tenere degli incontri di approfondimento per futuri colleghi, tirocinanti in via di abilitazione. Ero solito iniziare questi laboratori con una riflessione: “Secondo voi qual è l’articolo più importante del nostro Codice Deontologico?”

Nelle risposte alcuni punteggiavano sugli articoli che regolamentano il segreto professionale (dall’art.11 al 17); altri si concentravano sulla consapevolezza dei limiti delle nostre competenze (art.37) e del nostro operato, come sancito ad esempio dall’art. 5 che ci ricorda di usare solo ed esclusivamente strumenti teorico-pratici che sappiamo maneggiare o come prescritto dall’art. 27 che impone allo psicologo la valutazione dell’interruzione del rapporto professionale qualora si ravvisi che il paziente non trae alcun beneficio dal trattamento; altri ancora si soffermavano sugli articoli che richiamano al rispetto dei principi di dignità, autonomia e autodeterminazione come nell’art.18  che ci ricorda di tutelare la libertà di scelta della persona rispetto al professionista a cui rivolgersi.

Alla fine del brainstorming facevo notare ai tirocinanti che nell’art. 4 dell’attuale Codice Deontologico sono sintetizzati tutti questi aspetti come norme generali, come principi da seguire e da applicare ad ogni situazione specifica. Del resto le norme generali servono proprio a questo, ad estendere i precetti a tutti i casi particolari che un articolato ovviamente non sempre può dettagliare.

L’attuale art.4

Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità.

Lo psicologo utilizza metodi e tecniche salvaguardando tali principi, e rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi.

Quando sorgono conflitti di interesse tra l’utente e l’istituzione presso cui lo psicologo opera, quest’ultimo deve esplicitare alle parti, con chiarezza, i termini delle proprie responsabilità ed i vincoli cui è professionalmente tenuto.

 In tutti i casi in cui il destinatario ed il committente dell’intervento di sostegno o di psicoterapia non coincidano, lo psicologo tutela prioritariamente il destinatario dell’intervento stesso.

Riservatezza, autonomia, dignità, autodeterminazione, limiti delle proprie responsabilità…insomma abbiamo tutto! L’art. 4 è una mirabile opera di sintesi dei doveri delle psicologhe e degli psicologi e al tempo stesso sancisce la connotazione laica della nostra professione (non possiamo in alcun modo imporre il nostro sistema di valori nel prestare il nostro lavoro), ci ricorda che nei casi in cui il committente non corrisponda all’utente siamo tenuti a tutelare prioritariamente il destinatario finale del nostro intervento e soprattutto si ispira alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’Assemblea Generale dell’Onu, scrivendo a chiare lettere che psicologhe e psicologi hanno il dovere di ripudiare tutte le forme di discriminazione.

L’art. 4 è la nostra presentazione alla società, ciò che ci definisce e ci rende riconoscibili, la nostra Carta di Identità.

Veniamo invece alla proposta che verrà sottoposta a referendum.

Articolo 4 – Principio del rispetto e della laicità

Già dal titolo si intuisce come gli estensori della proposta abbiano deciso di conservare solo due dei tanti e sacrosanti principi contenuti nell’articolo 4: il rispetto e la laicità, con buona pace di tutto il resto.

La psicologa e lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, forniscono all’individuo, al gruppo, all’istituzione o alla comunità, siano essi utenti o committenti, informazioni adeguate e comprensibili circa le proprie prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il grado e i limiti giuridici della riservatezza.

Ecco il primo taglia e incolla! Questa parte viene presa dall’attuale art. 24 (che riguarda il consenso informato) e viene spostata all’inizio del nuovo art. 4. Giusto per chiarire sin da subito che quello che attualmente è il fondamento etico del nostro Codice Deontologico, all’indomani del referendum (se confermato), potrebbe trasformarsi completamente in un’altra cosa.

Riconoscono le differenze individuali, di genere e culturali, promuovono inclusività, rispettano opinioni e credenze e si astengono dall’imporre il proprio sistema di valori.

Qui spariscono completamente i richiami alla dignità, all’autonomia, alla riservatezza, all’autodeterminazione! Sparisce l’esplicita ispirazione alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Non si dice più ‘Psicologhe e Psicologi NON discriminano; si preferisce piuttosto dire che psicologhe e psicologi rispettano le differenze e promuovono inclusività. Punto! E non è una semplice questione riassuntiva, non è neanche un modo per inglobare tutte le differenze individuali, è invece un rischioso cambio di paradigma.
A titolo esemplificativo, provate per un attimo a pensare quanto risulterebbe depotenziato l’art. 11 della Costituzione se anziché recitare “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…” si trasformasse in “L’Italia promuove la pace e la libertà degli altri popoli”. A prima vista una bella frase, ma nei fatti un tacito via libera a teorie come l’’esportazione della democrazia” o il diritto alla guerra preventiva per ottenere la pace, tanto care al vecchio G.W. Bush.

Tornando al Codice, siamo di fronte ad un cambio di connotati che lascia sullo sfondo il posizionamento chiaro della nostra comunità professionale sulle questioni inerenti i diritti. Un vero e proprio indebolimento di quel solido argine nei confronti di abomini umani prima che scientifici come ad esempio le terapie riparative.

La psicologa e lo psicologo utilizzano metodi, tecniche e strumenti che salvaguardano tali principi e rifiutano la collaborazione ad iniziative lesive degli stessi. Quando sorgono conflitti di interesse tra l’utente e l’istituzione presso cui la psicologa e lo psicologo operano, questi ultimi devono esplicitare alle parti, con chiarezza, i termini delle proprie responsabilità ed i vincoli cui sono professionalmente tenuti.

Prendiamo un po’ di fiato! Questa è l’unica parte che resiste maggiormente allo stravolgimento dell’attuale art.4. e (per fortuna) pur scomparendo il richiamo alla tutela prioritaria del destinatario dell’intervento, quest’ultimo viene almeno spostato all’interno del nuovo Art.32. – Prestazione richiesta da un committente.

UN ASSIST ALL’ABUSIVISMO.

Altra questione che merita approfondimento è l’intervento sull’art.21., uno dei cardini della lotta all’abusivismo, l’articolo che dice a chiare lettere che insegnare strumenti e tecniche a ‘non psicologi’ costituisce violazione deontologica grave.

Ebbene, gli estensori della proposta di modifica hanno pensato di eliminare dall’articolo 21 proprio quei dispositivi fondamentali per limitare il più possibile il proliferare dell’abusivismo.

Nella proposta di modifica si parla “…dell’uso di metodi, tecniche e di strumenti conoscitivi e di intervento propri della professione stessa” e non più di “…tutti gli strumenti e le tecniche conoscitive e di intervento relative ai processi psichici (relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali) basati sull’applicazione di principi, conoscenze, modelli o costrutti psicologici.”

Insomma tutto quello che è specifico della professione psicologica non viene più dettagliato e questa genericità può trasformarsi in un ottimo assist per i colleghi che hanno deciso di formare counselor, pedagogisti clinici, coach di ogni genere e altre “creature fantastiche”.

Ma cosa ancora più grave, dal nuovo art. 21 sparisce la seguente frase:

“Costituisce aggravante avallare con la propria opera professionale attività ingannevoli o abusive concorrendo all’attribuzione di qualifiche, attestati o inducendo a ritenersi autorizzati all’esercizio di attività caratteristiche dello psicologo”

e viene sostituita con:

“Costituisce aggravante il caso in cui l’insegnamento dei metodi, delle tecniche e degli strumenti specifici della professione psicologica abbia come obiettivo quello di precostituire possibili esercizi abusivi della professione”

Capite bene che se ad oggi, con il Codice attualmente in vigore, arriva in Commissione Deontologica una segnalazione a carico di un collega psicologo, formatore di pedagogisti clinici o di qualche fantasioso coach, il rilascio di attestati, qualifiche o la semplice presentazione del corso come un qualcosa di propedeutico all’intervento su processi relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali, costituiscono la ‘pistola fumante’ per procedere a sanzionare il collega stesso.

Un domani invece, con il nuovo art.21, il collega in questione potrebbe cavarsela dicendo semplicemente che i suoi insegnamenti non sono affatto finalizzati a “precostituire esercizi abusivi della professione” e che magari gli attestati che rilascia servono semplicemente per abbellire le camerette dei suoi allievi.

Insomma il nuovo 21 rende la strada verso la lotta all’abusivismo ancora più impervia e sottrae dalle mani della comunità professionale quegli strumenti faticosamente conquistati attraverso le diverse sentenze dei tribunali.

Un vero e proprio autogol.

QUALI LINEE GUIDA?

Facciamo un passetto avanti e dall’art. 21 passiamo al 22, l’articolo che in sostanza ci ricorda di non nuocere e di non utilizzare impropriamente i nostri strumenti professionali.

“Lo psicologo adotta condotte non lesive per le persone di cui si occupa professionalmente, e non utilizza il proprio ruolo ed i propri strumenti professionali per assicurare a sé o ad altri indebiti vantaggi.”

Nella proposta di revisione il testo originario dell’articolo viene conservato con l’aggiunta di una nuova disposizione

“…nelle attività sanitarie (la psicologa e lo psicologo) si attengono alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali…”

Ok, lo psicologa e psicologo sono un professionisti sanitari ed è bene che come tutti i professionisti sanitari si attengano a delle buone pratiche e a delle linee guida, ma di quali linee guida parliamo in questo caso?

Si fa riferimento forse a quelle elaborate dal Sistema Nazionale Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità come previsto dalla 24/2017 “Legge Gelli-Bianco”? E se si fa riferimento a queste linee guida perché non specificarlo? Forse specificarlo avrebbe significato imbrigliare il Codice in una rete di disposizioni che possono essere soggette a frequenti modifiche? E allora perché infilarsi in un ginepraio quando alla fine abbiamo già un articolo che ci ricorda di non nuocere?

L’inserimento di un riferimento generico a linee guida e buone prassi clinico-assistenziali rischia di trasformare questo articolo in un ricettacolo di segnalazioni strumentali e ci espone ad una rischiosa discrezionalità per ciò che concerne l’applicazione delle sanzioni, soprattutto all’interno di un contesto variegato come quello della psicologia dove i documenti di buone prassi abbondano e non sempre è facile definire il range dell’ufficialità.

IL VOTO

Andiamo alle conclusioni. Alla luce di queste riflessioni in che direzione orienterò il mio voto al referendum che si terrà on-line dal 21 al 25 settembre? – Semplice – direte voi – Voterai favorevole alle modifiche che ti convincono, agli adeguamenti che reputi necessari ed esprimerai il tuo voto contrario alle proposte di modifica che invece ritieni rischiose o addirittura dannose.

E invece no. Non si può fare.

Il quesito referendario, contrariamente a quanto successo in passato, questa volta chiede a psicologhe e psicologi di esprimersi sull’intero pacchetto! Il taglia e incolla di una serie di articoli, la ricaduta di alcune modifiche su altri dispositivi del Codice e lo spostamento di interi commi da un posto all’altro, ci mette nelle condizioni di dover approvare o respingere l’intero articolato.

Così nell’arrovellarmi sul da farsi, mi è tornata in mente una scena di mio nonno che con me bambino, intento a disegnare e poi a colorare coi pennarelli più accesi e ancora a calcare la mano sul foglio, mi disse “Alli voti ‘u cchiù e com’o menu” (A volte il ‘di più’ equivale al “meno”) come a dire “Non strafare, il troppo stroppia, il disegno è già abbastanza vivace ed è bello così. Se calchi ancora la mano, finisci per rovinare il tuo lavoro”.

È un po’ questa la sensazione che mi restituisce la proposta di modifica del Codice Deontologico. Come se dagli adeguamenti utili o necessari (vedi linguaggio inclusivo, consenso informato e obbligo di testimonianza) ci si sia voluti inoltrare in dei cambiamenti più profondi, ma in realtà si è deciso di colorare troppo il disegno finendo per stravolgere i connotati della nostra identità professionale.

E allora preferisco tenermi stretto l’attuale Codice, pur se imperfetto e non aggiornato. Magari metterò nella valigia degli attrezzi un Codice di Procedura Penale per ricordarmi che un giudice può comunque obbligarmi a testimoniare se reputa che il mio rifiuto sia infondato, una copia della Legge 219/2017 dove c’è scritto che il tempo della comunicazione è tempo di cura e dedicherò il giusto tempo e la giusta cura all’esposizione del consenso informato sia agli adulti che ai minori in relazione all’età e al grado di maturità, consapevole che il nostro Codice parlava già di consenso informato ancor prima della 219/2017 e ancor prima della ‘legge Lorenzin’ e poi probabilmente leggerò ogni singolo articolo declinandolo al femminile e al maschile in attesa di un nuovo disegno meno pasticciato.

Voterò con convinzione e liberamente NO.

Perché questa proposta di modifica rischia di perdersi per strada i diritti universali, parte integrante del fondamento etico del nostro codice.

Perché per mettere in campo azioni concrete di tutela bisogna avere in mano degli strumenti sempre più efficaci e qui invece rischiamo di depotenziarli.

Perché ciò che non è chiaro e definito lascia spazio alla discrezionalità, soprattutto in materia disciplinare.

Insomma voterò NO perché questo codice va svecchiato, ma non a queste condizioni, non a costo di snaturarci; il gioco non vale la candela.