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La sentenza TAR n. 13020/2015 sancisce che il disagio psichico è di competenza dello psicologo, ma oltre al disagio rimanda anche ad altri ambiti per la professione psicologica.

 

tarCosa dice la sentenza TAR? L’AssoCounseling ha definito l’attività dei propri associati, il counseling, come attività mirata al miglioramento della qualità di vita del cliente, offrendo uno spazio di ascolto nel quale rinforzare capacità di scelta o di cambiamento. Tale attività si sovrappone di fatto ad ambiti di intervento che sono di competenza psicologica (si pensi alla promozione dello delle potenzialità di crescita individuale, al miglioramento della gestione dello stress e della qualità di vita) e richiede quindi di essere svolta da psicologi. Il disagio psichico, infine, anche in contesti non clinici, presuppone una competenza diagnostica, non riconosciuta ai counselors, che rientra nelle competenze dello psicologo.

 

Oltre al disagio si parla quindi di altri ambiti, tesi alla promozione del benessere. Eppure sembra che questo secondo aspetto non sia stato molto considerato, l’attenzione è stata concentrata sui termini con cui la sentenza TAR si è espressa rispetto al disagio. Ciò a conferma del fatto che  l’unico ambito di applicazione per lo psicologo sembra essere quello della psicopatologia. Ma è proprio in un ambito “altro”, come quello trattato nella sentenza, che l’offerta psicologica può fare davvero la differenza rispetto ad altre professioni.

 

Perché è difficile pensare che lo psicologo non si occupa solo di prendersi cura del disagio? Non è un caso che molte figure altre rispetto allo psicologo, tra cui i counselor, finora abbiano potuto svolgere le nostre stesse mansioni ma senza avere le nostre competenze. Questo è accaduto probabilmente perché hanno saputo presentarsi con un prodotto, rispetto al quale si sono presentati come credibili, competenti, convinti di quello che proponevano, mentre la nostra categoria ha lasciato che questo accadesse perché, per molti, troppo presa a inseguire il titolo, e a volte il sogno, di essere e fare (solo) il terapeuta.

 

immagine primo articoloMa di sola psicoterapia non si vive. I dati raccolti da anni confermano quanto aveva già prefigurato Renzo Carli nei primi anni ’90: in Italia i terapeuti sono troppi rispetto al numero degli abitanti, molti di più rispetto a diversi altri paesi europei. La specializzazione della psicoterapia è sembrata e forse sembra tuttora per molti una scelta quasi obbligata, in assenza d’altro (di un lavoro ma anche di una formazione universitaria che faccia sentire “competenti”). Risultato? Molti psicologi-psicoterapeuti a zonzo e i vari counselor, coach e quant’altro che fioccano come neve. Perché?   

 

Perché “Coach” suona meglio di “psicologo”. “Coach” e “counselor” hanno più appeal dello “psicologo”. Suonano come più moderni, ma anche più positivi, più propositivi. Nell’immaginario comune lo psicologo è il professionista cui rivolgersi quando si è assaliti da un oscuro male non fisico che non si riesce meglio a definire, mentre il “coach”è il motivatore, colui che spinge a tirare fuori il meglio di sè, ad ottenere, magari, successo e felicità in poche semplici mosse.

 

E’ una questione di marketing quindi? Sì. La sentenza TAR è un giro di boa importante per la nostra categoria, ma ci ricorda anche per quanto tempo altre categorie hanno svolto il nostro lavoro senza averne le competenze. Questo dovrebbe esserci di monito. Se c’è una cosa che va riconosciuta a chi esercita di fatto la professione di psicologo, pur senza esserlo, è proprio la capacità di proporsi sul mercato con un’identità professionale (a volte discutibile, ma comunque definita) facendo emergere dei bisogni e proponendosi come adatti e competenti per soddisfare quei bisogni. Più marketing di così…

sceltaSe la nostra categoria non è riuscita a fare altrettanto è perché manca innanzitutto una forte identità professionale.  A maggior ragione ora che la recente sentenza TAR può fare da motore per la nostra professione c’è da chiedersi cosa farsene. Abbiamo le carte in regola per occuparci non solo dei disagio psichico, ma anche per proporre servizi tesi al miglioramento della qualità della vita. Sappiamo davvero cosa questo voglia dire? In altre parole, sappiamo davvero, almeno noi, cosa uno psicologo sa e può fare oltre alla psicoterapia? Sappiamo chi siamo? Abbiamo, almeno su alcuni punti, una visione comune e condivisa al nostro interno della nostra identità professionale? O pensiamo di “riprenderci ciò che è nostro” solo grazie ad una sentenza?

Solo se sappiamo “chi fa cosa” possiamo proporci di conseguenza sul mercato. Cioè pensare ad uno o più target specifici cui destinare i nostri servizi, pensare di realizzare un “marchio” che si possa associare facilmente ad un nostro servizio e, quindi, alla nostra categoria. Tutto questo richiama i concetti di “nicchia di mercato”, di “brand”, che rappresentano l’abc del marketing e di qualunque servizio o prodotto venga proposto ad un’utenza, quindi, anche di un nostro servizio. Se la sentenza ha funto da apripista ora la palla sta a noi, e abbiamo tutto l’interesse a giocare bene la nostra partita.