Voglio raccontarvi una storia; è una storia un po’ lunga, ma credo che valga la pena di ascoltarla, perché illumina un pezzo della nostra realtà di cui molti, psicologi e non, sono del tutto all’oscuro, perché sfida alcuni principi fondamentali nei quali, come psicologi, ci hanno educato a credere e presenta molte sorprese, che forse la renderanno un po’ sgradevole, ma sicuramente non noiosa.
Prologo
Non credo di essere un ingenuo, eppure fino a qualche mese fa ero uno psicologo ed uno psicoterapeuta in formazione con poche ma solide certezze: ero convinto che per fare una professione nella quale si mettono le mani nei pensieri, nelle emozioni e nelle relazioni delle persone fosse necessario possedere una solida competenza, costruita in lunghi anni di studio ed esperienze personali; ero altrettanto sicuro – perché così mi era stato insegnato – che a garantire che chi esercita tale professione possegga le competenze necessarie e si assuma la responsabilità degli atti che compie ci fossero una Legge dello Stato – la Legge 56 del 18 febbraio 1989 –, un Codice Deontologico – quello degli Psicologi Italiani – ed un Ordine Professionale impegnato a vigilare ed a prendere i dovuti provvedimenti contro eventuali violazioni.
Avendo lavorato a lungo per i Servizi Sociali, ero a conoscenza dell’esistenza dei così detti “counselors”, ma credevo che fossero educatori professionali o assistenti sociali con una lunga esperienza professionale che avevano conseguito questo titolo al termine di un corso di formazione finalizzato ad accrescere le loro competenze operative in specifici ambiti del lavoro che già svolgevano. Lo credevo perché tali erano quelli che fino a quel momento avevo conosciuto.
Quindi, seppure vivevo con una certa frustrazione l’estrema difficoltà di realizzarmi nella professione dopo aver conseguito una laurea, fatto il mio anno di tirocinio, sostenuto l’esame di stato, aver prestato svariati anni di frequenza volontaria in svariati servizi ed avere quasi concluso un corso di specializzazione con il relativo tirocinio, ero tuttavia sostenuto dalla convinzione che questa fosse la lunga e faticosa strada che chiunque avesse voluto lavorare nell’ambito della psicologia clinica dovesse percorrere.
Purtroppo questa mia serena visione di una parte del mondo ha iniziato ad incrinarsi a partire da un evento al quale, inizialmente, non ho attribuito gran peso e nell’arco di un paio di mesi si è radicalmente trasformata, aprendomi uno scenario affatto diverso.
Atto I
Credevo fosse…, e invece era un counsellor
Una mattina di inizio estate mi sono trovato nell’incresciosa condizione di accompagnare una persona cara al Pronto Soccorso; mentre me ne stavo lì seduto ad attendere che la visitassero, sulla bacheca dove di solito vengono affisse le locandine dei corsi di formazione per il personale sanitario ne ho notata una che pubblicizzava una “Scuola di Counseling Relazionale”. Non so dire che cosa abbia maggiormente attratto la mia attenzione, se l’accostamento fra i termini “counseling” e “relazionale” il quale, dato che sono in formazione come terapeuta familiare ad orientamento relazionale-sistemico, mi ha immediatamente provocato un intenso fastidio, oppure l’aspetto spudoratamente pubblicitario della locandina, con quelle tesserine di puzzle che sanno tanto di società di consulenza aziendale; comunque in quel momento ero però preso da ben altre preoccupazioni e la cosa è finita lì.
Nei giorni seguenti mi sono però trovato di fronte all’evidenza che la medesima locandina, insieme ad una brochure molto simile, erano stati capillarmente diffusi in diversi ambienti di quello stesso ospedale e di quello di una città vicina, in molte scuole superiori, in diversi locali pubblici, ecc… Mi sono quindi preso la briga di leggere con maggiore attenzione di cosa si trattasse.
Con toni enfatici il volantino pubblicizzava l’apertura di una “Scuola di Counseling Relazionale”, sede per la nostra provincia della “Libera Università del Counseling”, insieme all’attività libero professionale del suo “referente”. Sorpresa delle sorprese, la scuola non avrebbe avuto sede nel capoluogo della provincia, ma nel paesino di meno di duemila anime dove risiedo, presso i locali di una casa di riposo privata! La partecipazione ai corsi della scuola – così recitava il volantino – avrebbe permesso l’avviamento alla libera professione di “counselor” con apertura della partita IVA e l’iscrizione alle associazioni di categoria.
In un attimo sono stato assalito da mille domande. Come poteva quella che già a prima vista capivo essere un’organizzazione privata, definirsi “Università”? Una simile denominazione non rischiava di risultare ingannevole per gli studenti delle scuole superiori presso le quali il volantino era stato affisso? Cos’era questa «nuova professione» del «counselor relazionale» che, stando a quanto diceva il volantino, avrebbe dovuto rispondere «ai bisogni diffusi di disagio e difficoltà nelle relazioni interpersonali»? Nonostante la costruzione sgrammaticata della frase facesse sembrare che la gente avesse bisogno del disagio e delle difficoltà, se questa «nuova professione» intendeva occuparsi di disagi emotivi e relazionali «individuali, di coppia, familiari e delle organizzazioni», mi sembrava un po’ troppo simile a quella dello psicologo, se non a quella dello psicoterapeuta relazionale. Già questo sarebbe bastato a spingermi ad approfondire le mie ricerche, tuttavia un altro elemento ha immediatamente attratto la mia attenzione: il “referente” della scuola si presentava come un professionista di lunga esperienza, ma semplicemente con nome e cognome, senza anteporre il titolo di “dottore” che come minimo mi sarei aspettato, data la natura degli insegnamenti della scuola e le posizioni di «docente» e «referente» che questa persona in essa ricopriva.
Ho così iniziato la mia ricerca visitando il sito web di questo signore, il quale, fra suggestive immagini di tramonti e paesaggi naturali in mirabile stile NewAge, conditi di aforismi sentimentali spacciati per spunti di riflessione, presentava la professione del «counselor relazionale», il proprio curriculum vitae et studiorum, e la propria attività consulenziale. Vi risparmio tutta una serie di “amenità” che vi ho trovato per soffermarmi su tre punti che mi hanno colpito in modo particolare:
1. Nella definire la “professione di counselor” questo signore si guardava bene dal fare qualsiasi riferimento alla figura dello psicologo, che citava una sola volta, accorpandolo d’emblée allo psicoterapeuta per sostenere che entrambi lavorano esclusivamente con persone affette da «malattia mentale» e che cercano di «curarle» mediante un «cambiamento profondo della persona» – presumo che volesse intendere “della personalità”, ma probabilmente già questo termine esulava dal vocabolario professionale di questo “docente e referente” di lunga esperienza.
A parte l’evidente necessità per questo signore come per qualsiasi altro “counselor” di ignorare la figura dello psicologo per dissimulare la palese somiglianza fra il lavoro che si propongono di fare con quello di quest’ultimo, sono rimasto letteralmente sconcertato dal fatto che una persona che sostiene di avere la competenza per lavorare in un’ottica relazionale potesse fare affermazioni che ripropongono lo squallido e discriminante stereotipo che suddivide l’umanità in “normali” e “malati mentali”, nonché servirsi di tale stereotipo al fine di promuovere il proprio lavoro, perché è evidente che se si riesce a convincere la gente che dallo psicologo e dallo psicoterapeuta ci vanno solo i “malati mentali” e che, appena varcheranno la soglia del loro studio, questi li rivolteranno come calzini facendoli diventare altro da quello che sono, tutti preferiranno andare dal “counselor”, che si occupa dei “normali” aiutandoli a risolvere i loro “problemini relazionali”.
2. All’interno del sito il nostro “counselor” presentava anche, con una sincerità che devo riconoscergli, le propria autobiografia, facendoci sapere che ha ripetutamente iniziato ed interrotto gli studi universitari senza conseguire alcun titolo di laurea, che per gran parte della sua vita ha svolto una professione tecnica di area sanitaria, ma che nulla ha a che fare con la psicologia e si è poi interessato di varie forme di pensiero e pratiche orientali; solo di recente si è diplomato “counselor” dopo aver seguito – per sei anni! – l’apposito corso triennale presso un istituto che gestisce anche una scuola di psicoterapia riconosciuta dal MURST. Ha così realizzato, alle soglie dei sessant’anni, il suo «sogno» di lavorare nell’ambito delle relazioni umane aprendo uno “studio di counseling”, anzi, due.
3. Presentando il percorso formativo per diventare “counselor professionisti” questo signore insisteva ripetutamente sul fatto che esso richiede che l’allievo si sottoponga ad una psicoterapia, come se questa fosse una specie di garanzia riguardo alla “salute mentale” del futuro counselor, e si spingeva fino al punto di farci sapere il nome della sua “psicoterapeuta” ed attuale “supervisore”, la quale, effettuando una semplice ricerca nell’Albo degli Psicologi risulta effettivamente essere una psicologa iscritta all’Ordine degli Psicologi del Lazio ex art.34[1], ma non risulta essere abilitata all’esercizio dell’attività psicoterapeutica!!!
Per essere sincero questa constatazione non mi ha stupito più di tanto, perché, dato lo scarso rispetto che i “counselors” mostrano nei confronti dei titoli professionali legalmente riconosciuti ed il gran guazzabuglio che fanno a tutti i livelli, mi pare il minimo. Ciò non toglie che se l’essersi sottoposti ad una psicoterapia è uno degli obblighi formativi che le scuole impongono a chi frequenta un “corso di counseling” per ottenere il diploma, stando ai fatti, quello di questo signore risulterebbe invalidato!
Fra le altre “amenità” del sito ho trovato un link che avrebbe dovuto rimandarmi ad un “codice deontologico”, ma in realtà apriva una pagina vuota; su questo punto avrei successivamente fatto una scoperta sconcertante visitando il sito web della FAIP, alla quale il nostro “counselor” diceva di essere iscritto.
Purtroppo, molte delle cose che ho voluto raccontarvi non avrete più l’occasione di verificarle di persona, perché il sito di questo “counselor” ha recentemente subito un restyling globale, che gli ha conferito un aspetto un po’ più “professionale”, riducendo il numero di farfalle, tramonti e aforismi, ma soprattutto eliminando i contenuti più “scomodi”. Del resto, il seguito della mia ricerca sul mondo del counseling sarebbe stato costellato da numerose, inquietanti sorprese, non ultima quella che il frequente aggiornamento dei siti web, con scomparsa dei contenuti azzardati e “compromettenti” sta diventando una costante, soprattutto in questi ultimi tempi nei quali la FAIP si sta facendo in quattro per ottenere il riconoscimento legale della “professione di counselor”!
A questo punto spero che vi state chiedendo: «Che cos’è e cos’è la FAIP?» e soprattutto: «Eh? Che cosa sta cercando di fare?!?!!!», perché significherebbe che sono riuscito ad incuriosirvi e, spero, ad allarmarvi almeno un po’. Ma non voglio rovinarvi il finale, perciò se avrete la pazienza di aspettare, nella prossima puntata vi racconterò prima un altro pezzo di storia e poi pian piano arriveremo anche a questo…
Dr. Massimiliano Gàbboli
psicologo
Mi sembra siano spariti tutti i commenti precedenti
Pare anche a me…pessimo upload di wordpress. Il cambio di piattaforma determinerà forse la fine della democrazia espressiva, punto di forza di AP?
Il precedente sito web era gestito da un programma scritto in ASP su db Access, e per di più con codice criptato, mentre WordPress è in php su db mysql, e ciò rende abbastanza complesso ricreare un’intera struttura e ri-legare i commenti…
La migrazione dei contenuti è stata fatta ad olio di gomito ed ha comportato un grande sforzo da parte di tutto lo staff. Reinserire anche i commenti nei rispettivi articoli era impossibile
Quindi SI, ripartiamo senza commenti e questo all’inizio è parecchio brutto. Ma è anche vero che WordPress è molto più usabile, favorisce la partecipazione, ha un sacco di funzionalità in più e si integrerà molto con il social web.
Insomma, questo grande sforzo lo abbiamo fatto proprio nell’ottica di favorire l’espressione e la circolazione di informazioni. Mi appare quindi curiosa la presa di posizione di Luca, sulla base di cosa tra l’altro ;o)
Siamo in rodaggio, diamo un minimo di tempo al tutto e poi vedrete che le potenzialità dell’attuale software sono ben maggiori!
Buona serata
nicola
Migliora la partecipazione? Diciamo che i commenti si wp sono moderati, e filtrerete tutto ora…
Ciao Luca, a me non hanno mai censurato un commento. E se non censurano i miei… 🙂 puoi star tranquillo.
Caro Valleri,
è vero che non abbiamo l’abitudine di censurare i commenti, ma non ne approfittare… Altrapsicologia non è una vetrina di cui abusare. Il discorso vale per te e per chiunque, ovviamente.
Ciao Massimiliano potrei anch’io raccontarti un sacco di cose interessanti sul “mondo” che hai scoperto e non per sentito dire ma dal “vivo”.
Intanto, se già non l’hai fatto, leggi questo interessante blog vecchio ormai di 3 anni ma assai illuminante.
http://www.orientamento.it/blog/viewcomment.php?post_id=44.
Ciao Franca, ti ringrazio per la segnalazione. Non conoscevo questo blog e leggendolo ho potuto constatare come molte delle informazioni distorte e/o false che ho letto sulle brochures e sui siti web di alcune “scuole di counselling” durante la mia recente ricerca, e sulle quali in questo articolo come nei successivi ho sorvolato per carenza di spazio, siano ampiamente discusse da anni ed in alcuni casi siano state smentite o chiarite al di là di ogni ragionevole dubbio, senza che i diretti interessati abbiano però dato il minimo segno di recepire le rettifiche, né aver modificato la propria condotta in merito.
Leggendo certe affermazioni anche a me è capitato di chiedermi: «ma questi ci sono o ci fanno?». Se “ci sono” è un bel guaio, perché abbiamo a che fare con qualcuno che o davvero “non ci arriva” oppure, piuttosto che accettare la realtà, preferisce credere a ciò che meglio soddisferebbe i suoi desideri. Se, invece, “ci fanno” è anche peggio, perché, allora diventa evidente che mentono consapevolmente per attirare allievi nelle loro “scuole” e riscuotere i relativi guadagni, confidando nel fatto che a forza di accrescere il numero di chi li segue potranno poi servirsene per fare pressione al fine di ottenere un qualche riconoscimento legale.
Credo che la tua esperienza “dal vivo” all’interno di una “scuola di counselling” potrebbe fornire un utile contributo alla comprensione della situazione, anche se ci tengo a sottolineare che quanto ho scritto non si fonda sul “sentito dire”, ma sull’attenta considerazione di quanto ho personalmente letto sulle brochures e sui siti web delle persone e delle organizzazioni di cui parlo, e quindi da loro stesse dichiarato. Se avessi voluto fondarmi sul “sentito dire” ci sarebbe stato ben di più, ma non ritengo corretto, né intellettualmente né eticamente, riportare la vox populi.
La nostra associazione (AssoCounseling) chiede a gran voce che si arrivi ad una regolamentazione dell’attività di counseling, proprio per “sfrondare” questo variegato e variopinto universo da coloro che, dietro il termine counseling, nascondono attività che con il counseling non hanno niente a che fare (si va dall’astrocounseling, al trance-dance counseling, a chi più ne ha più ne metta).
Come ho già spiegato più volte, questa situazione è assai più dannosa per i counselor seri che per gli psicologi. Questi ultimi, anzi, ne traggono beneficio perché si sentono autorizzati a fare di tutta l’erba un fascio (tutti i counselor sono cialtroni, tutti i counselor sono abusivi, tutti i counselor etc.).
Perché gli psicologi, però, non ci sostengono in questo? Vedo solo due possibilità:
1. Gli psicologi sono TUTTI davvero convinti che il counseling debba essere necessariamente un’attività riservata per Legge allo psicologo.
2. A qualcuno fa evidentemente comodo che la situazione rimanga “grigia”.
Rispetto al punto primo so per esperienza diretta che non tutti gli psicologi la pensano così. Gli stessi Tribunali, nel giudicare eventuali reati di esercizio abusivo, valutano di volta in volta l’atto compiuto dal counselor. Ovvero: nessun Tribunale ha mai detto che esercitare il counseling equivalga tout-court ad esercitare abusivamente la professione di psicologo. Hanno semmai valutato singoli comportamenti di singoli soggetti che hanno portato a singole condanne. Così come in altri casi hanno portato a singole assoluzioni.
Rispetto al punto 2 non so francamente cosa pensare.
Mi si potrebbe obiettare che il vantaggio ce l’hanno quelle scuole gestite da psicologi che insegnano counseling. Se da una parte è vero che molte scuole di formazione in counseling sono gestite da psicologi, è pur vero che sempre più scuole sono gestite da counselor. Allo stesso modo (e a mio avviso correttamente) sempre più scuole stanno affidando docenze specifiche in counseling a counselor, lasciando agli psicologi l’insegnamento delle così dette materie propedeutiche.
Il fenomeno è tuttavia complesso e, a mio avviso, degno di essere discusso, dibattuto, studiato, etc.
Purtroppo da parte dell’Ordine degli psicologi non c’è questa volontà. La posizione ufficiale è (più o meno): siete tutti abusivi, stop. Ora è evidente che, se manca un qualunque tipo di riconoscimento, non è possibile procedere a nessun dibattito. Molti Ordini – assumendo secondo me un comportamento un po’ infantile – non vogliono neppure interfacciarsi con le associazioni di categoria dei counselor, quasi per paura che il semplice dialogo (ascolto quanto meno le tue ragioni) possa costituire un riconoscimento implicito.
Quando un ente o un organismo rappresenta X persone, non si può far finta che non esista ignorandolo. Questo è proprio un errore di prassi “politica”.
E un altro errore è quello di accumunare tutti sotto lo stesso tetto: non tutte le associazioni sono uguali. Prima di gettare fango in maniera indiscriminata bisogna documentarsi, leggere, informarsi, etc.
Altro errore: ritenere di risolvere il problema affidando tutto ai Tribunali. Non sarebbe più logico (e maturo) che fossero i rappresentanti delle due categorie a confrontarsi? Quanto meno in prima battuta… ad arrivare in Tribunale si è sempre in tempo.
Concludendo (e mi scuso per la lunghezza del post): la nostra associazione è aperta al confronto, non ritiene affatto che la categoria degli psicologi sia una nostra nemica, e anzi ritiene che sarebbe auspicabile trovare delle sinergie.
Sinergie che, di fatto, già avvengono: già ora in AssoCounseling ci sono molti psicologi iscritti. E anche molti medici. Due categorie che non hanno certo bisogno di essere iscritte da noi per esercitare il counseling. Molti progetti vengono portati avanti insieme. Ci sono studi associati che vedono un lavoro di rete tra counselor, psicologi, neuropsichiatri, psicoterapeuti, etc. Molti counselor inviano clienti agli psicologi quando si rendono conto che la domanda reale non è di counseling, ma di terapia o altro.
Dunque? La domanda è sempre la stessa: perché non se ne può parlare?
Quando saremo in grado di identificare le differenze tra psicologia e counseling allora gli psicologi potranno riconoscere che esiste una professione di aiuto che esula da quanto indicato dalla Legge istitutiva della professione di psicologo.
Al momento ho visto solo argomentazioni riguardanti la differenza tra counseling e psicoterapia, intendendo che la psicologia sia tutta lì.
Comunque, il counselling può essere di supporto per altre professionalità (infermieri, assistenti sociali ecc…) ma non credo che riesca a rientrare come una professione a sè evitando di sovrapporsi alle competenze psicologiche.
Infine lo psicologo è in grado di riconoscere o sospettare patologie, mentre il counselor potrebbe non accorgesene e creare dei danni al cliente.
Non è lo psicologo che deve dimostrare che il counseling invade il proprio operato, ma è il counselor che ci deve dimostrare di non sovrapporsi allo psicologo.
Veramente questo è contrario alla presunzione di innocenza, che è la base del nostro sistema giudiziario: chi accusa deve dimostrare la colpevolezza dell’accusato, non viceversa. Aggiungo che se i counselor potranno continuare ad avere insegnamenti qualificati da psicologi e psicoterapeuti esperti in psicopatologia, allora potranno sapere quando e quali casi inviare ad altre competenze, altrimenti sì che potranno credere di poter trattare di tutto. La nuova “carta etica” finirà per impedire questo.
Penso anch’io. Finchè i formatori dei counselor saranno psicologi e psicoterapeuti “regolari” sarà difficile far loro una guerra totale…cosa imparano da psicologi e psicoterapeuti se non le competenze che questi per primi hanno? alla fine è tutto una questione “giuridica”, ma non di sostanza
Ciao Massimiliano,
anch’io da tempo nutro un pò di perplessità per come si sta ponendo e integrando la figura del counselor nel panorama occupazionale (già ridotto all’osso per noi). La cosa che spesso mi ha infastidito è che le stesse scuole private di specializzazione in psicoterapia attivino dei corsi di counseling (aperti a chiunque “paghi la retta”) creando ancor più confusione a chi non ha il tempo, l’interesse o la necessità di approfondire la differenza di competenze che intercorre fra uno psicologo, uno psicoterapeuta e un counselor. Preciso che, lavorando in una struttura pubblica di tipo ospedaliero, sono convinta che le competenze di counseling dovrebbero essere parte imprescindibile nella formazione del personale medico, paramedico e tecnico, in quanto dovrebbero consentire un ampliamento delle possibilità di entrare in relazione con l'”altro” (il paziente), contestualizzandone la storia di malattia nella storia personale. A questo proposito ho saputo con piacere che negli attuali programmi di formazione per i medici di medicina generale sono previste delle lezioni di counseling.
Recentemente, però, ho avuto un colloquio con un responsabile di uno studio associato di medicina generale, al quale avrei voluto proporre un qualche tipo di collaborazione. Il medico si è dimostrato molto disponibile e interessato, mi ha accennato ad alcune esperienze pregresse con una collega psicologa e al tentativo, purtroppo, fallito di integrare tale figura professionale nell’offerta dello studio di cui era il responsabile, fondamentalmente a causa della mancanza di fondi (“?!”) e del tempo necessario a proporre un progetto adeguato. Negli ultimi tempi ha avviato una collaborazione con i direttori di una scuola privata in psicoterapia (riconosciuta dal MURST), al fine di realizzare il progetto di inserimento di una figura professionale di tipo non medico nell’ambulatorio e mi ha detto che l’idea sarebbe quella di inserire dei counselor, formati presso quello stesso istituto.
E’ vero che probabilmente il progetto che mi ha accennato il medico sull’integrazione della figura dello psicologo nello studio richiedesse delle competenze di counseling, ma quello che non sono riuscita a capire è il motivo per cui questi direttori anzichè rivederne e ridefinirne gli obiettivi hanno semplicemente proposto dei counselor. Io, che sono in corso di specializzazione (e sicuramente non ho la loro esperienza nè la loro reputazione), ho detto al medico che a mio parere il counseling dovrebbe essere fatto dal medico stesso, mentre uno psicologo si occupa di altro.
Sinceramente però questa cosa mi ha fatto riflettere, credo che sia necessaria una ridefinizione delle competenze del counselor e dello psicologo se se ne vuole riconoscere la professionalità, oppure che ci si muova per evitare il proliferare di corsi e master di dubbia utilità sul mercato del lavoro.
Io onestamente non ho nulla contro i counselor, anzi alcuni miei carissimi amici educatori hanno fatto il corso e li stimo moltissimo.
Premesso il mio pensiero (probabilmente ingenuo e semplicistico), ho l’impressione che stiamo andando incontro a una continua frammentazione delle professioni che alla fin fine apprendono le stesse tecniche di riabilitazione e sostegno psicologico.
Potrei fare tanti esempi concreti ma non voglio apparire noioso…
Non capisco perchè se uno studia gli stessi argomenti in una scuola di counselor diventa counselor se uno li studia in Servizio Sociale diventa Ass. Sociale, poi educatore, terapista occupazionale, tecnico della riabilitazione psichiatrica e altre belle cose e poi ci si trova a dibattere su cosa può fare uno e cosa può fare l’altro e sugli spazi di lavoro concessi. Non sarebbe meglio accorpare più professioni che si occupano di salute psicologica sotto l’unico nome di psicologo?
Io ho diversi amici che, psicologi, fanno gli educatori (quando va bene!) e che non solo sono degni di stima come persone, ma professionisti competenti, com’è ampiamente comprovato dall’efficacia che esprimono nel lavoro e nei tirocini di specializzazione (lunghi e gratuiti). Precari, sottopagati e frustrati dalla disparità fra la loro competenza ed il ruolo in cui si trovano relegati, devono anche sopportare che l’ente per cui lavorano commissioni corsi di formazione, gruppi di sostegno e supervisioni (!!!) a “counsellors” che vengono talvolta presentati come luminari, ma che in concreto risultano quantomeno “inconsistenti”, sia sotto il profilo delle conoscenze che dal punto di vista operativo.
Secondo me è sbagliato ammettere nelle scuole di counselor chi ha solo il diploma di scuola superiore. Credo sia necessaria una formazione di base che, nella scuola di counseling che io conosco per esempio, manca perché si trasmettono conoscenze già mediate dall’indirizzo della scuola e dal suo direttore e collaboratori.
Come ho già avuto modo di dire altrove, il linguaggio usato spesso è direttivo, assoluto, già “scelto”. “Essere counselor” come si legge in molti siti di scuole ( per la maggioranza dirette da psicologi, ma guarda un pò) ha valore se ci si forma un pensiero autonomo, auto-determinato e auto-cosciente al di là delle singole conoscenze e pratiche. E’ facile assumere il pensiero del “guru” della propria scuola di riferimento e voler far convergere la verità a tutti i costiin quel pensiero. D’altro canto l’università è rimasta solo teorica…
per non citare poi i criminologi, che spesso si spacciano per psicologi non avendo alcun titolo in questo senso, e al buio delle carceri, anche in grandi città, fanno colloqui di tipo psicologico a loro avviso, non informando i soggetti,detenuti, che li scambiano per psi.
Io ammetterei ai corsi di counseling solo laureati triennali. Nelle discipline più diverse certo: psicologia, sociologia, filosofia, pedagogia…. non capisco cosa ci sia di male nel diventare counselor aziendale per un laureato in economia aziendale, ad esempio…lavora con i manager, ad esempio…non vedo la frizione con lo psicologo clinico o lo psicoterapeuta…non capisco.
Io credo che non se ne può più. Basta. Adesso bisogna iniziare a fare le cose in modo deciso, e parlo di me in prima persona. sono stanco, all’età di 36 anni con titoli in tasca ,Psicologo,Psicoterapeuta e vari corsi e corsetti, migliaia di EURO spesi e rimandi di ogni-dove per promuovere e accrescere la mia professione e la mia cultura adesso dico BASTA. Non me la prendo con chi vuole lavorare e trova le scorciatoie per farlo, evidentemente c’è gente onesta e altra disonesta ovunque, non me la prendo con i counsellors o affini che prendono fette di mercato mentre a noi continuano a dirci di mettersi la pettorina da crocerossini. Loro (i conunsellors) fanno il loro lavoro (non ancora regolamentato) , alcuni onestamente, altri no, come in tutte le professioni. Me la prendo più che altro con chi da anni ci prende in giro, con quella gente che gli vende i corsi, i master e li mette sul mercato quando ancora oggi mi sento dire dalle persone che non sanno la differenza tra uno psicologo uno psicoterapeuta, uno psichiatra e uno psicoanalista! Me la prendo sempre con quella gente che ha il sedere al caldo e non tutela 10 anni di studi e sacrifici, 10 anni! mica uno! gente che per ogni cosa che ti interesserebbe approfondire nel tuo campo ti chiede di farti il master da 3.500 euro. BASTA, non ce la faccio più, se continua così tra un corso e l’altro mi ritroverò ad andare in pensione con un bilancio otttimisticamente in pareggio! Credo che bisogna seguire alcuni degli spunti che vengono forniti da Nicola Piccinini, io ho letto alcuni suoi e-book e ho riscontrato molte convergenze con il mio pensiero. Bisogna mettersi nell’ottica di PROMUOVERE la nostra professione, anche e soprattutto direi nel PRIVATO, perchè è la strada che da anche l’immagine di quello che effettivamente sei, un professionista! e non un ragazzotto di bottega che viene trattato come un inserviente nell’ultimo degli ospedali Italiani! basta con la visione del crocerossino! Lavoriamo nel sociale? bene ma siamo anche professionisti della salute mentale o no? da una parte ci sono i counsellors, coaching, naturopati ed altri, dall’altra ci sono i medici (psichiatri e non) e NOI?! nel mezzo a fare i crocerossini a 7,50 Euro l’ora! dopo 10 anni di studio! NO GRAZIE.
Io credo che la cosa migliore sia ammettere alle scuole di counseling i laureati triennali nelle diverse discipline: psicologia, filosofia, lettere, sociologia…ve lo immaginate un laureato in economia che si specializza in counseling aziendale come formatore/couselor di manager per il percorso di carriera, ad esempio? farebbe faville, ve lo assicuro. Togliamoci dalla mente counseling=clinica (per quello ci sono già moltissime figure)
Ottima analisi morris. definire gli psicologhi schiacciati tra medici psichiatri e nuove figure quali coach, counselor e altri professionisti aggressivi orientati al mercato senza regolamnentazione è un ottimo punto di partenza, perchè è la realtà.
psicologo + psicoterapeuta + corsi vari per avere nulla, o poco, in cambio? Vuole dire essere stati fregati. Quello si. E’ amaro, ma è la verità.
Salve Luca, io inquadrerei il tutto in un contesto diverso. Prima di tutto troverei un accordo su cosa intendiamo per “regolamentazione”. Se si intende l’istituzione di un Ordine (o un collegio, un albo, etc.) sono ben felice di non essere regolamentato. Differentemente, se con regolamentazione si intende la validazione e l’accettazione di regole, sarei felicissimo di diventare un professionista “regolamentato”. Ma purtroppo, siccome il legislatore pare non voglia occuparsi di noi nonostante le nostre “pressioni”, abbiamo deciso di autoregolamentarci.
Secondo punto: francamente non mi ritengo aggressivo, nè orientato al mercato nel senso più deteriore del termine. “Sto” sul mercato, che significa “lavoro”.
Se provi per uscire un attimo dalla diatriba psicologo-counselor, vedrai che sul mercato ci stanno circa 3.000.000 di soggetti come noi (enologi, informatici, tributaristi, amministratori di condominio, etc.), a fronte del 1.500.000 circa di professionisti “regolamentati” (psicologi, avvocati, architetti, etc.).
Ricordo inoltre che sul “mercato” europeo (quello con cui anche tu sei chiamato a confrontarti perché nulla vieta ad uno psicologo bulgaro di venire in Italia) esistono due tipi di “regolamentazioni”, per così dire:
– la protezione del titolo
– la protezione della funzione
E l’una esclude l’altra, poiché altrimenti si vengono a creare monopoli e posizioni dominanti.
Ma la protezione delle funzione esiste solo laddove vi siano i così detti interessi generali da salvagurdare. Tradotto in soldoni: privilegio questo che spetta solo a medici ed avvocati poiché sono gli unici che rispondono a due diritti garantiti dalla Costituzione (più o meno in tutti i paesi europei, salvo rarissime eccezioni, tra cui l’Italia).
In tutto questo, continuo a chiedermi: perché l’Ordine degli psicologi non vuole dialogare? Far finta che il fenomeno non esista e lasciare il tutto alle sentenze dei Tribunali o alle nostre discussioni sui vari forum, non mi pare sia un comportamento responsabile.
Sbagliato, Tommaso.
La semplificazione è utile, ma a volte porta effetti paradossali. Sai bene che la realtà delle professioni ordinistiche (non solo medici ed avvocati) afferiscono a motivazioni ben più complesse.
Ma solo per limitarsi alla tua riflessione sui diritti tutelati dal legislatore in sede costituente, che prevedono appunto la limitazione di determinati esercizi professionali di pubblico interesse agli abilitati ex-esame di stato, quello della Salute comprende appunto anche quello del benessere psicologico e della salute mentale, area quindi espressamente tutelata e di pubblico interesse; e ad cui appunto i cosiddetti counsellors cercano di afferire senza averne titolo di abilitazione, istituto dalla Costituente per gli atti professionali di maggiore rilevanza relativi ai diritti fondamentali, ex. art.33 comma 5. L’art.33 citiamolo tutto, non solo il primo comma (anche se non ci fa comodo).
Ciao Ariberto. No, credo tu mi abbia frainteso. Io non mi riferivo affatto all’articolo 33 della Costituzione.
Il mio pensiero è molto semplice: siccome quasi tutte le Costituzioni garantiscono il diritto alla salute e il diritto alla difesa, logica vuole (ed infatti nel resto del mondo è quasi dappertutto così) che siano i medici e gli avvocati gli unici ad avere la massima protezione a tutela dell’utenza.
Quanto tu dici (ex art. 33) è cosa diversa: le ragioni che hanno spinto a tutelare fin dalla Costituzione alcune professioni, non hanno nel 2011 più ragion d’essere. E’ cambiato il mondo negli ultimi 60 anni, semplicemente questo. E dunque per me andrebbero aboliti tutti gli Ordini professionali ad eccezione di quello dei medici e degli avvocati.
Restano per me valide le così dette protezioni delle funzioni. Ovvero: indipendemente dall’esistenza o meno dell’Ordine degli ingegneri, va da sè che non tutti potranno firmare il progetto di costruzione del ponte sullo stretto di Messina.
Venendo invece all’altro punto: il counseling (quando non è nè psicologico nè medico) non si occupa affatto di salute mentale. Ed infatti la mia associazione, ad esempio, riconosce il counseling psicologico solo a chi è, oltre counselor, anche psicologo. Così come riconosce il counseling medico solo a chi è, oltre counselor, anche medico.
Gli psicologi pare si trovino bene ad essere diventati una professione satellite della medicina, dunque mi va assolutamente bene che vi vogliate occupare di “salute mentale”. A me non interessa.
Sul “benessere”, invece, andrei più cauto, visto che già almeno un paio di regioni (Toscana e Lombardia) hanno varato apposite Leggi che disciplinano le professioni che si occupano di benessere. Inteso in un’ottica globale, ovviamente.
Inoltre sta per essere depositata un’interessante sentenza dove si ribadisce, tra le altre cose, che il benessere psico-fisico di un individuo NON può essere esclusivo di una o più professioni regolamentate, ma patrimonio di chiunque vi ci voglia contribuire. La sentenza, per la cronaca, è l’assoluzione di 2 counselor denunciati dall’Ordine degli psicologi per esercizio abusivo.
Così, giusto per specificare il mio pensiero.
Risposta chiara e corretta secondo me, è soprattutto quanto sottolinea che il counseling è solo in pochi casi coinvolto nella salute mentale. Quello di cui non ci si riesce a capacitare è che la categoria “counseling” è molto più ampia di quella “psicologia”, soprattutto nel contesto italiano. E’ giustissimo che il counseling psicologico sia svolto da chi prima è psicologo abilitato (tipo me), quello medico da chi prima è medico, quello aziendale da chi ha una solida formazione organizzativa e ambito HR…insomma, a me pare che gli psicologi sfoghino la loro legittima frustrazione (nell’aver studiato per decenni in un mondo del lavoro dove arrancano e dove perdono sempre più rilevanza per incapacità loro di definire i loro servizi) sulle ultime categorie arrivate. Difendono cioè un orticello che fa ben poca verdura…ma almeno possono dire di avercelo! bella consolazione
Ciao Luca, hai centrato il segno! Infatti noi è così che ci muoviamo, valorizzando le competenze specifiche di un settore (aziendale, ospedaliero, scolastico, sanitario) e certificando quelle trasversali proprie al counseling.
Paradossalmente gli psicologi – secondo me – sono i primi a rimetterci dall’esistenza dell’Ordine professionale. Gli psicologi con competenze di counseling che sono iscritti ad AssoCounseling non lo fanno certo per loro tutela (essendo iscritti all’Ordine potrebbero fare quello che vogliono senza avere alcun tipo di problema), ma perché credono fortemente (anche) in un modello che va al di là di quello clinico in senso lato.
Tutta l’area umanistico-sociale non è rappresentata dalla psicologia professionale, questo è il punto.
Dal nostro punto di vista il problema è che, fino a quando il counseling non sarà regolamentato (dove, ripeto, per regolamentazione non intendo la costituzione di un Ordine – Dio ce ne scampi…) resteremo una categoria facilmente attaccabile perché nel nostro settore c’è di tutto. Da chi si forma in due mesi, a chi si occupa di astrologia, etc. Questo noi non lo vogliamo poiché riteniamo che prima ancora di screditare gli psicologi e la psicologia in generale, getti discredito sui cousnelor seri.
Ecco allora che non comprendo gli attacchi trasversali, quelli del tipo “colpisco nel mucchio”. Si facciamo degli attacchi specifici, puntuali e ti assicuro che gli psicologi troveranno in noi degli alleati a sostenere queste posizioni.
Purtroppo non abbiamo la forza (politica, istituzionale, contrattuale, etc.) di fare di più di quello che facciamo ovvero controllo, autoregolamentazione, canoni rigidi, innalzamento dei parametri di qualità, movimento di opinione, controinformazione, etc.
Ripeto: per noi gli psicologi non rappresentano una categoria nemica e, francamente, ritengo questa una guerra tra poveri…
Ecco, questo è il Punto. Il modello di professionalità e il modello di rappresentanza. Counseling è un insieme di pratiche TRASVERSALI alle competenze: è questo che gli psicologi non colgono, perchè usano concetti e categorie che i nuovi mercati del lavoro professionali hanno spazzato via da tempo. Solo che bisogna accorgersene.
E’ una questione socioculturale ancor prima che economica. Secondo me la cosa importante è che la pratica di counseling sia sempre oggettivata (c. psicologico, aziendale, orientativo, di carriera…) è chi lo pratica abbia una formazione adeguata alle spalle. Ripeto, secondo me la laurea triennale.
Lo sforzo delle organizzazioni come quella che tu rappresenti stanno facendo un lavoro prezioso per rendere più libera la società italiana.
Io comunque resto dell’idea, ovviamente personale, che sia solo una questione di tempo perchè anche il couseling abbia in Italia il riconoscimento di professione così come succede nella altre nazioni europee. L’Italia sconta un ritardo culturale nella legislazione di moltissimi ambiti, in primis quello del lavoro e delle professioni.
I pasticci sono all’ordine del giorno, basti pensare alla laurea triennale in psicologia, una aberrazione formativa.
L’importante è che passi il messaggio di una società social-liberale di mercato: diverse professionalità che competono per fornire servizi.
Anche perchè il counseling è giustamente criticato perchè non praticato da laureati; ma qui dentro vengono anche criticati i pedagogisti, che sono laureati e la cui laurea in ambito educativo/formativo/orientativo è ben più antica, e fondata, della psicologia. La formazione dell’uomo esiste da sempre, la sua psicologizzazione inizia strettamente con Freud. Quindi credo sia meglio stare calmini, perchè alla fine è tutto una questione di lobby professionali che si sfidano a colpi di rappresentati in parlamento, gruppi di pressione, partiti politici che proteggono, ideologie di fondo: nulla a che vedere con la cura e lo sviluppo delle persone.
Se vince il partito giusto, il Italia gli ordini saranno polverizzati con un decreto legge, e il momento si avvicina, semplicemente perchè ce lo chiede l’Europa.
http://ordiniprofessionali.wordpress.com/
Ci sono tanti counsellor “ignoranti” come ci sono numerosi psicologi e psicoterapeuti altrettanto “ignoranti”. Credo che queste siano professioni dove sia difficile garantire la qualità “tout court”; questa dipende molto da sensibilità, doti umane, grado culturale, curiosità, apertura, desiderio di crescita e ricerca, etc, etc. Certo dieci anni di formazione sono importanti, ma rappresentano (possono rappresentare) il risultato di un percorso totalmente diverso dal counselling.Tanto è vero che la nuova tendenza è quella del lavoro in équipe. Un counsellor non si sogna proprio di toccare e soprattutto cambiare le strutture profonde della personalità, tanto meno di accostarsi alla “patologia”. Appena tocca un dato diciamo così di possibile patologia, lo riconosce, se è preparato, e lo rimanda ad altre competenze. il suo lavoro è, diciamo, “interno”, è lavoro sulle risorse gia presenti che in momenti difficili non siamo in grado di scorgere come possibilità. Tutti possiamo attraversare momenti e periodi di crisi e il dolore è tale per tutti. Non vedo nessuna appropriazione indebita, nessuno steccato né incompatibilità. Grazie per l’opportunità.