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Voglio raccontarvi una storia; è una storia un po’ lunga, ma credo che valga la pena di ascoltarla, perché illumina un pezzo della nostra realtà di cui molti, psicologi e non, sono del tutto all’oscuro, perché sfida alcuni principi fondamentali nei quali, come psicologi, ci hanno educato a credere e presenta molte sorprese, che forse la renderanno un po’ sgradevole, ma sicuramente non noiosa.

Prologo

Non credo di essere un ingenuo, eppure fino a qualche mese fa ero uno psicologo ed uno psicoterapeuta in formazione con poche ma solide certezze: ero convinto che per fare una professione nella quale si mettono le mani nei pensieri, nelle emozioni e nelle relazioni delle persone fosse necessario possedere una solida competenza, costruita in lunghi anni di studio ed esperienze personali; ero altrettanto sicuro – perché così mi era stato insegnato – che a garantire che chi esercita tale professione possegga le competenze necessarie e si assuma la responsabilità degli atti che compie ci fossero una Legge dello Stato – la Legge 56 del 18 febbraio 1989 –, un Codice Deontologico – quello degli Psicologi Italiani – ed un Ordine Professionale impegnato a vigilare ed a prendere i dovuti provvedimenti contro eventuali violazioni.

Avendo lavorato a lungo per i Servizi Sociali, ero a conoscenza dell’esistenza dei così detti “counselors”, ma credevo che fossero educatori professionali o assistenti sociali con una lunga esperienza professionale che avevano conseguito questo titolo al termine di un corso di formazione finalizzato ad accrescere le loro competenze operative in specifici ambiti del lavoro che già svolgevano. Lo credevo perché tali erano quelli che fino a quel momento avevo conosciuto.

Quindi, seppure vivevo con una certa frustrazione l’estrema difficoltà di realizzarmi nella professione dopo aver conseguito una laurea, fatto il mio anno di tirocinio, sostenuto l’esame di stato, aver prestato svariati anni di frequenza volontaria in svariati servizi ed avere quasi concluso un corso di specializzazione con il relativo tirocinio, ero tuttavia sostenuto dalla convinzione che questa fosse la lunga e faticosa strada che chiunque avesse voluto lavorare nell’ambito della psicologia clinica dovesse percorrere.

Purtroppo questa mia serena visione di una parte del mondo ha iniziato ad incrinarsi a partire da un evento al quale, inizialmente, non ho attribuito gran peso e nell’arco di un paio di mesi si è radicalmente trasformata, aprendomi uno scenario affatto diverso.

Atto I
Credevo fosse…, e invece era un counsellor

Una mattina di inizio estate mi sono trovato nell’incresciosa condizione di accompagnare una persona cara al Pronto Soccorso; mentre me ne stavo lì seduto ad attendere che la visitassero, sulla bacheca dove di solito vengono affisse le locandine dei corsi di formazione per il personale sanitario ne ho notata una che pubblicizzava una “Scuola di Counseling Relazionale”. Non so dire che cosa abbia maggiormente attratto la mia attenzione, se l’accostamento fra i termini “counseling” e “relazionale” il quale, dato che sono in formazione come terapeuta familiare ad orientamento relazionale-sistemico, mi ha immediatamente provocato un intenso fastidio, oppure l’aspetto spudoratamente pubblicitario della locandina, con quelle tesserine di puzzle che sanno tanto di società di consulenza aziendale; comunque in quel momento ero però preso da ben altre preoccupazioni e la cosa è finita lì.

Nei giorni seguenti mi sono però trovato di fronte all’evidenza che la medesima locandina, insieme ad una brochure molto simile, erano stati capillarmente diffusi in diversi ambienti di quello stesso ospedale e di quello di una città vicina, in molte scuole superiori, in diversi locali pubblici, ecc… Mi sono quindi preso la briga di leggere con maggiore attenzione di cosa si trattasse.

Con toni enfatici il volantino pubblicizzava l’apertura di una “Scuola di Counseling Relazionale”, sede per la nostra provincia della “Libera Università del Counseling”, insieme all’attività libero professionale del suo “referente”. Sorpresa delle sorprese, la scuola non avrebbe avuto sede nel capoluogo della provincia, ma nel paesino di meno di duemila anime dove risiedo, presso i locali di una casa di riposo privata! La partecipazione ai corsi della scuola – così recitava il volantino – avrebbe permesso l’avviamento alla libera professione di “counselor” con apertura della partita IVA e l’iscrizione alle associazioni di categoria.

In un attimo sono stato assalito da mille domande. Come poteva quella che già a prima vista capivo essere un’organizzazione privata, definirsi “Università”? Una simile denominazione non rischiava di risultare ingannevole per gli studenti delle scuole superiori presso le quali il volantino era stato affisso? Cos’era questa «nuova professione» del «counselor relazionale» che, stando a quanto diceva il volantino, avrebbe dovuto rispondere «ai bisogni diffusi di disagio e difficoltà nelle relazioni interpersonali»? Nonostante la costruzione sgrammaticata della frase facesse sembrare che la gente avesse bisogno del disagio e delle difficoltà, se questa «nuova professione» intendeva occuparsi di disagi emotivi e relazionali «individuali, di coppia, familiari e delle organizzazioni», mi sembrava un po’ troppo simile a quella dello psicologo, se non a quella dello psicoterapeuta relazionale. Già questo sarebbe bastato a spingermi ad approfondire le mie ricerche, tuttavia un altro elemento ha immediatamente attratto la mia attenzione: il “referente” della scuola si presentava come un professionista di lunga esperienza, ma semplicemente con nome e cognome, senza anteporre il titolo di “dottore” che come minimo mi sarei aspettato, data la natura degli insegnamenti della scuola e le posizioni di «docente» e «referente» che questa persona in essa ricopriva.

Ho così iniziato la mia ricerca visitando il sito web di questo signore, il quale, fra suggestive immagini di tramonti e paesaggi naturali in mirabile stile NewAge, conditi di aforismi sentimentali spacciati per spunti di riflessione, presentava la professione del «counselor relazionale», il proprio curriculum vitae et studiorum, e la propria attività consulenziale. Vi risparmio tutta una serie di “amenità” che vi ho trovato per soffermarmi su tre punti che mi hanno colpito in modo particolare:

1. Nella definire la “professione di counselor” questo signore si guardava bene dal fare qualsiasi riferimento alla figura dello psicologo, che citava una sola volta, accorpandolo d’emblée allo psicoterapeuta per sostenere che entrambi lavorano esclusivamente con persone affette da «malattia mentale» e che cercano di «curarle» mediante un «cambiamento profondo della persona» – presumo che volesse intendere “della personalità”, ma probabilmente già questo termine esulava dal vocabolario professionale di questo “docente e referente” di lunga esperienza.
A parte l’evidente necessità per questo signore come per qualsiasi altro “counselor” di ignorare la figura dello psicologo per dissimulare la palese somiglianza fra il lavoro che si propongono di fare con quello di quest’ultimo, sono rimasto letteralmente sconcertato dal fatto che una persona che sostiene di avere la competenza per lavorare in un’ottica relazionale potesse fare affermazioni che ripropongono lo squallido e discriminante stereotipo che suddivide l’umanità in “normali” e “malati mentali”, nonché servirsi di tale stereotipo al fine di promuovere il proprio lavoro, perché è evidente che se si riesce a convincere la gente che dallo psicologo e dallo psicoterapeuta ci vanno solo i “malati mentali” e che, appena varcheranno la soglia del loro studio, questi li rivolteranno come calzini facendoli diventare altro da quello che sono, tutti preferiranno andare dal “counselor”, che si occupa dei “normali” aiutandoli a risolvere i loro “problemini relazionali”.

2. All’interno del sito il nostro “counselor” presentava anche, con una sincerità che devo riconoscergli, le propria autobiografia, facendoci sapere che ha ripetutamente iniziato ed interrotto gli studi universitari senza conseguire alcun titolo di laurea, che per gran parte della sua vita ha svolto una professione tecnica di area sanitaria, ma che nulla ha a che fare con la psicologia e si è poi interessato di varie forme di pensiero e pratiche orientali; solo di recente si è diplomato “counselor” dopo aver seguito – per sei anni! – l’apposito corso triennale presso un istituto che gestisce anche una scuola di psicoterapia riconosciuta dal MURST. Ha così realizzato, alle soglie dei sessant’anni, il suo «sogno» di lavorare nell’ambito delle relazioni umane aprendo uno “studio di counseling”, anzi, due.

3. Presentando il percorso formativo per diventare “counselor professionisti” questo signore insisteva ripetutamente sul fatto che esso richiede che l’allievo si sottoponga ad una psicoterapia, come se questa fosse una specie di garanzia riguardo alla “salute mentale” del futuro counselor, e si spingeva fino al punto di farci sapere il nome della sua “psicoterapeuta” ed attuale “supervisore”, la quale, effettuando una semplice ricerca nell’Albo degli Psicologi risulta effettivamente essere una psicologa iscritta all’Ordine degli Psicologi del Lazio ex art.34[1], ma non risulta essere abilitata all’esercizio dell’attività psicoterapeutica!!!
Per essere sincero questa constatazione non mi ha stupito più di tanto, perché, dato lo scarso rispetto che i “counselors” mostrano nei confronti dei titoli professionali legalmente riconosciuti ed il gran guazzabuglio che fanno a tutti i livelli, mi pare il minimo. Ciò non toglie che se l’essersi sottoposti ad una psicoterapia è uno degli obblighi formativi che le scuole impongono a chi frequenta un “corso di counseling” per ottenere il diploma, stando ai fatti, quello di questo signore risulterebbe invalidato!

Fra le altre “amenità” del sito ho trovato un link che avrebbe dovuto rimandarmi ad un “codice deontologico”, ma in realtà apriva una pagina vuota; su questo punto avrei successivamente fatto una scoperta sconcertante visitando il sito web della FAIP, alla quale il nostro “counselor” diceva di essere iscritto.

Purtroppo, molte delle cose che ho voluto raccontarvi non avrete più l’occasione di verificarle di persona, perché il sito di questo “counselor” ha recentemente subito un restyling globale, che gli ha conferito un aspetto un po’ più “professionale”, riducendo il numero di farfalle, tramonti e aforismi, ma soprattutto eliminando i contenuti più “scomodi”. Del resto, il seguito della mia ricerca sul mondo del counseling sarebbe stato costellato da numerose, inquietanti sorprese, non ultima quella che il frequente aggiornamento dei siti web, con scomparsa dei contenuti azzardati e “compromettenti” sta diventando una costante, soprattutto in questi ultimi tempi nei quali la FAIP si sta facendo in quattro per ottenere il riconoscimento legale della “professione di counselor”!

A questo punto spero che vi state chiedendo: «Che cos’è e cos’è la FAIP?» e soprattutto: «Eh? Che cosa sta cercando di fare?!?!!!», perché significherebbe che sono riuscito ad incuriosirvi e, spero, ad allarmarvi almeno un po’. Ma non voglio rovinarvi il finale, perciò se avrete la pazienza di aspettare, nella prossima puntata vi racconterò prima un altro pezzo di storia e poi pian piano arriveremo anche a questo…

Dr. Massimiliano Gàbboli
psicologo