Cosa fanno gli Ordini per la mediazione familiare? Un’altra occasione mancata?

La nuova Legge 54/2006 sull’affido congiunto dei minori in caso di separazione dei genitori recita (http://www.senato.it/parlam/leggi/06054l.htm per consultare l’intero testo) nella parte 155-sexies, quella che ci riguarda più da vicino:

Art. 155-sexies. – (Poteri del giudice e ascolto del minore). Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento. “Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”.

La genericità del termine “esperti” lascia aperta ed indefinita la scelta della figura professionale a cui riferirsi. In particolare le coppie che non trovino accordi potrebbero avvalersi della figura del “mediatore familiare”.  Attualmente il titolo di mediatore familiare, pur non essendo tale professione regolata in alcun modo, sembra spettare a chi ha frequentato un master o un corso di specializzazione in mediazione familiare.

Ma a chi sono destinati e che tipo di formazione offrono tali corsi?

Prendiamo ad esempio due corsi, noti nell’area milanese, il master in mediazione familiare e comunitaria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (http://www3.unicatt.it/pls/unicatt/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=9685) e il corso di formazione in mediazione familiare dell’Associazione Gea (http://www.associazionegea.it/programma_formaz.htm).

Innanzitutto notiamo che la lunga lista dei possibili destinatari comprende svariate lauree. Il  Master dell’università Cattolica è aperto a laureati (vecchio ordinamento) nei corsi di psicologia, medicina, servizio sociale, giurisprudenza, pedagogia, sociologia, lettere e a coloro che sono in possesso della laurea specialistica in: psicologia, giurisprudenza, educazione degli adulti e sviluppo dei sistemi formativi, progettazione pedagogica e interventi socio educativi, consulenza pedagogica per la disabilità e la marginalità, scienze per le politiche sociali del III settore del servizio sociale, scienze sociali applicate (il corso del centro Gea prevede un elenco simile di destinatari, a cui aggiunge anche i laureati triennalisti).

Come ulteriore requisito per l’accesso al master, è richiesta un’esperienza lavorativa di almeno 2 anni nel campo dei servizi alla persona e delle relazioni familiari e comunitarie, nelle associazioni no profit, negli enti locali, ecc. Anche nel caso dell’Associazione Gea le iscrizioni alla formazione sono subordinate alla valutazione del curriculum professionale dei candidati.

Oltre al titolo di Master universitario, a seguito della revisione della propria pratica, viene rilasciato un certificato di idoneità all’esercizio della mediazione familiare secondo gli standard europei del Forum dei Centri di Formazione alla mediazione familiare e dalla Società Italiana di Mediazione Familiare.

Le competenze che è possibile apprendere attraverso la frequenza del master sono:

  • comprendere i bisogni relazionali emergenti nei diversi contesti;
  • acquisire competenze tecniche di negoziazione con coppie in crisi a seguito della separazione o divorzio per il raggiungimento di accordi stabili e reciprocamente accettabili tenendo conto dei bisogni di tutti i membri del gruppo familiare;
  • acquisire competenze tecniche di negoziazione con membri di famiglie allargate in occasione di conflitti tra generazioni per l’assunzione di responsabilità reciproche rispetto a minori o ad anziani.

Competenze simili sono previste anche del corso dell’associazione Gea, che le dettaglia:

  • offrire ai genitori in via di separazione un contesto strutturato in cui il mediatore possa sostenere i genitori nella gestione del conflitto potenziando le capacità di negoziare gli accordi;
  • prevenire il grave danno prodotto nei minori da una separazione che procede, come oggi in troppi casi avviene, all’insegna della divaricazione radicale, della cessazione di ogni dialogo tra le parti, della rinuncia da parte degli adulti al ruolo di protagonista della propria vicenda separativa;
  • tutelare e promuovere la crescita armonica del minore i cui genitori abbiano deciso di separarsi: vale a dire aiutare i genitori a formulare insieme un progetto di separazione che tenga conto dei bisogni fondamentali dei figli;
  • garantire ai figli la relazione affettiva ed educativa con i genitori aiutando questi ultimi nella ricerca delle soluzioni più adatte alla specificità della loro situazione e dei loro problemi.

Sintetizzando, le competenze fondamentali risultano essere: l’analisi dei bisogni; le competenze di negoziazione e gestione del conflitto e il sostegno alla genitorialità.

Pensando alle competenze specifiche della professione di psicologo, in particolare nel campo del lavoro con le coppie e le famiglie, sembra evidente che le capacità attribuite alla nuova figura di esperto in mediazione familiare possano essere viste come un approfondimento e una specializzazione di competenze più ampie già proprie dello psicologo. L’area professionale della mediazione familiare avrebbe quindi potuto essere un ambito di lavoro per psicologi con un’adeguata esperienza lavorativa con le coppie e le famiglie ed un’opportuna formazione sul campo legata alla conoscenza di alcuni aspetti giuridici pertinenti e di tecniche di negoziazione e gestione del conflitto.

Ancora una volta, invece, come nel caso del counseling, è nata una nuova figura professionale sulla base dell’esistenza di un percorso formativo. L’esperto in mediazione familiare si definisce per aver frequentato uno dei corsi e master che stanno fiorendo sempre più numerosi. E che, come accade per il counseling, sono spesso tenuti da psicologi.

Ci domandiamo infine cosa abbiano fatto fino ad oggi gli Ordini regionali e nazionale e ci auguriamo che i neo-insediati Ordini svolgano un’azione decisamente più incisiva e fattiva a tutela e promozione delle nostre professionalità e prerogative.




L’insegnamento della Psicologia come scienza in Italia

di Carlotta Longhi e Luigi D’Elia
 Sul numero di inizio 2006 dell’International Journal of Psychology [Volume 41, Number 1, Number 1/February 2006, pp. 42-50(9)] troviamo una monografia sull’istruzione universitaria di psicologia nel mondo. Si tratta di una panoramica internazionale che comprende molte nazioni: Australia, Brasile, Cina, Germania, Grecia, Iran, Filippine, Russia e USA, ed anche l’Italia. L’articolo che commentiamo è proprio quello sul nostro “belpaese” ed è a cura di Carlo Prandini (Università di Bologna) e Sherri McCarthy. (Università del Nord Arizona, Yuma, Arizona, USA).

Leggendo l’articolo colpisce la discrepanza tra i dati sull’insegnamento della psicologia in Italia presentati e commentati nella prima parte e la descrizione della situazione occupazionale degli psicologi nella seconda parte.
Dopo aver ricostruito la storia della psicologia e dell’insegnamento della stessa in Italia, gli autori approfondiscono l’attuale scenario, fotografando in dettaglio i percorsi universitari.

La crescita e la proliferazione dei corsi di laurea e delle facoltà di psicologia in Italia sono presentate come un segnale di positiva crescita della disciplina: “Se consideriamo il numero di articoli di psicologia in riviste internazionali che hanno come autori studiosi italiani, il numero di corsi di psicologia nelle università, e il numero di psicologi professionisti laureati come indicatori validi della crescita dell’insegnamento della psicologia, oggi l’Italia può essere posta allo stesso livello, in proporzione, degli altri paesi occidentali (…) In un paese con una superficie equivalente allo stato del Nevada negli USA e una popolazione di 56 milioni di persone, 26 università situate in 22 città offrono corsi di laurea in psicologia. Più di 50000 studenti sono attualmente (2006, n.d.r.) iscritti a questi corsi di laurea e ci sono attualmente più di 35000 professionisti psicologi in Italia, secondo i dati di Sarchielli e Fraccaroli (2002), pari a 0.6 per 1000 abitanti, una percentuale simile agli standard europei”.

Gli autori non sembrano tenere conto del rovescio della medaglia, costituito dall’enorme quantità di laureati che escono ogni anno dai corsi di laurea in psicologia, andando ad incrementare il fenomeno della cosiddetta pletora, che può essere considerato uno dei principali fattori della difficoltà occupazionali attuali degli psicologi. Inoltre, la nascita di numerosi corsi di laurea è presentato come un dato positivo a prescindere dal fatto che alcuni di questi corsi nascano in atenei che non possono garantire standard di qualità formativa e in contesti territoriali in cui è del tutto assente una tradizione sia di ricerca che di applicazione della psicologia. Si omette quindi il discorso relativo alle motivazioni della crescita esponenziale dei corsi di laurea in psicologia: non solo positivo radicamento della disciplina in Italia, ma anche creazione di posti di lavoro accademici senza considerazione della possibilità di assorbimento lavorativo delle persone che vengono formate.

Rispetto alla valutazione dell’insegnamento della psicologia in Italia, gli autori riportano dati estremamente positivi: “La valutazione generale degli studenti della qualità dei corsi è positiva. Secondo una ricerca di Perussia e Miglietta (1995), il 90% degli studenti ha espresso soddisfazione per i suoi studi, e il 92% ha apprezzato la preparazione offerta dalla facoltà”. Da notare innanzitutto che si tratta di dati antecedenti il 1995, quindi risalenti a più di 15 anni fa, ad un contesto oggi profondamente modificato: sia per la notevole proliferazione in questi ultimi 15 anni di corsi di laurea in psicologia sia perché in questo periodo è stata attuata la riforma dell’ordinamento degli studi universitari, con il passaggio da laurea quinquennale a laurea triennale più laurea specialistica. Tali cambiamenti hanno avuto notevoli ripercussioni sulla qualità della formazione: sarebbe pertanto utile riferirsi alla valutazione di studenti che vivono le condizioni odierne all’interno del sistema universitario.

Stupiscono ancora di più i dati riportati relativi all’occupazione dei laureati (fonte ISTAT 2003). Si specifica che si tratta di dati relativi ai laureati che lavorano nel campo specifico, quindi non stiamo parlando di occupati in generale, ma di quelle persone che sono inserite nel campo in cui si sono laureate. La percentuale relativa ai laureati in psicologia, a tre anni dalla laurea, è del 77.9%. il dato, che contrasta pienamente con la percezione quotidiana di ogni giovane psicologo, può essere ridimensionato pensando che si tratti di giovani professionisti che svolgono qualche attività in campo psicologico, anche per un numero estremamente ridotto di ore settimanali, a fianco di altre attività in campo non psicologico. La tendenza dei giovani psicologi a dedicarsi ad un elevato numero di attività al fine di garantirsi un’entrata economica adeguata può spiegare almeno in parte il dato, che dovrebbe essere a questo punto riformulato come “percentuale di laureati che fanno qualcosa anche in campo psicologico”. I dati sull’occupazione a tre anni dalla laurea sono comunque poco informativi se non accompagnati da ulteriori approfondimenti: basti considerare che la percentuale di laureati in medicina occupati nel campo specifico risulta essere del 20%, percentuale che può essere spiegabile solo se si ipotizza la non considerazione degli specializzandi come “occupati”.

Infine, l’ultimo dato presentato per la valutazione dell’insegnamento della psicologia in Italia è l’età media alla laurea, che non viene in alcun modo commentata, e risulta essere di 29-30 anni. Colpisce la discrepanza tra la valutazione elevatissima di soddisfazione relativa al corso di laurea da parte degli studenti a fronte di una durata degli studi pari a circa 10 anni.

Da questi dati, gli autori concludono comunque che: “Le informazioni sopra riportate suggeriscono che l’insegnamento della psicologia nelle università italiane sia relativamente soddisfacente e che possa continuare a svilupparsi in modo favorevole.”

In totale contrasto con queste considerazioni, nel paragrafo conclusivo sulle tendenze future, sono riportati una serie di dati allarmanti e ben conosciuti dagli psicologi italiani, sulla situazione occupazionale attuale.
Scopriamo infatti, che, nonostante le valutazioni ottime per la qualità dei corsi di laurea, “Una considerevole percentuale di studenti di psicologia frequenta il corso di laurea principalmente per interesse culturale, o per migliorare il proprio lavoro in un’altra attività lavorativa”.

In ogni caso, “Molti studenti che scelgono psicologia devono trovare lavoro in un campo differente. Non c’è equilibrio tra domanda e offerta al momento” e “negli ultimi 6 anni, il tasso di occupazione degli psicologi si è abbassato del 5.2%”.

Le ragioni sono, a parere degli autori, in parte legate ad una difficoltà più generale nella società italiana: “In Italia (…) trovare una professione adatta agli studi universitari è un problema diffuso. La popolazione tende ad avere un buon livello di istruzione, ma i posti di lavoro che richiedono un’istruzione superiore sono limitati”. Inoltre, ci sono motivazioni specifiche che riguardano la professione di psicologo: “questa difficoltà è peggiorata dal fatto che i servizi sociosanitari hanno riempito la maggior parte delle posizioni da psicologo durante gli anni ’80 e questi psicologi non sono ancora andati in pensione. Quindi, oltre che nella libera professione, ci sono pochi posti disponibili e, siccome l’offerta di psicologi è maggiore della domanda dei loro servizi nella pratica privata, molti si guadagnano da vivere in altri modi.”. Si riconosce quindi che l’offerta di psicologi è molto superiore alla domanda dei loro servizi, anche se, curiosamente, questo dato non viene messo in relazione con la questione dell’elevato numero di psicologi che si laureano ogni anno, e dell’enorme numero, in continua crescita, degli studenti che si iscrivono a psicologia.

La conclusione, dai toni che suonano francamente utopistici, è che “Una relazione più stretta tra la psicologia accademica e la società potrebbe essere utile. Potrebbe diventare una priorità degli psicologi accademici quella di rafforzare il ruolo e il numero dei professionisti nei servizi pubblici e sociali, specialmente nelle scuole. Questo probabilmente non risolverebbe il diffuso livello di disoccupazione tra i giovani laureati in psicologia, ma potrebbe servire a migliorare la qualità della vita in Italia”.

Non si capisce come gli accademici potrebbero rafforzare la presenza degli psicologi nei servizi pubblici, e soprattutto perché invece gli accademici non si concentrino su quello che potrebbero fare direttamente a vantaggio della professione, ovvero riflettere su che senso abbia continuare ad immatricolare e a laureare decine di migliaia di psicologi nel momento in cui la possibilità per loro di trovare un’occupazione sta diminuendo in modo drammatico.

In ogni caso, ci sembra che, questo articolo dimostri nelle conclusioni, ancora una volta, la drammaticità del distacco tra mondo accademico e mondo professionale, come uno dei tanti motivi della difficoltà delle giovani generazioni di laureati nel mondo del lavoro. La politica dei numeri (alti) contro la politica della qualità e della responsabilità, questo sembra essere il motto della formazione dello psicologo italiano; tutti (accademici e scuole postuniversitarie) si sentono in prima linea nel “titolarlo”, ma nessuno si assume la responsabilità di seguirne e verificarne la formazione in relazione all’inserimento fattivo e riconosciuto nel tessuto sociale. Con buona pace di tutti.




Che fine ha fatto la legge sulla psicologia scolastica?

Che fine ha fatto la legge sulla psicologia scolastica?

La domanda nasce dalla constatazione che, mentre qualche anno fa l’attenzione sembrava concentrata su un’imminente approvazione della legge, oggi se ne parla decisamente meno e paiono essersi perse le tracce dell’iter della legge in questione.

Approfondendo si scopre che dal 1997 ad oggi sono stati presentati ben sette disegni di legge che prevedono l’istituzione dei servizi di psicologia scolastica (indicati con i numeri 1829, 2888, 2967, 3345, 3620, 3866-A). I differenti testi proposti sono stati in seguito unificati, e il testo unico è stato approvato dalla Commissione parlamentare che se ne è occupata durante la precedente legislatura. Il disegno di legge (998) è quindi approdato alla nuova legislatura in attesa di approvazione.

Sul sito del Senato troviamo una scheda con tutto l’iter (http://www.senato.it/leg/14/BGT/Schede/Ddliter/16487.htm ): la data più recente è quella del 2 luglio 2002, relativa ad una seduta della Commissione speciale in materia d’infanzia e i minori, il cui esito è il rinvio alla Commissione Istruzione, beni culturali.

E poi?

In questi tre anni, a quanto pare, il disegno di legge è rimasto fermo.

Ma che cosa prevede tale disegno di legge?

Se venisse approvato, ogni Regione potrebbe istituire il Servizio di Psicologia Scolastica, che “come supporto all’attività delle singole istituzioni scolastiche e delle famiglie, si propone di contribuire al miglioramento della vita scolastica sostenendo lo sviluppo armonico dell’alunno, operando per la prevenzione del disagio sociale e relazionale”. Come specificato, l’organizzazione del servizio prevederebbe “strutture specializzate o di singoli professionisti, comunque iscritti all’ordine professionale degli psicologi, anche mediante apposite convenzioni stipulate, ai sensi della normativa vigente, al fine di far fronte con continuità a tutte le esigenze rilevate”.

Si comprende anche da questi brevi cenni l’ampiezza e la complessità della funzione che tali servizi potrebbero avere, a fronte della situazione odierna in cui in ogni scuola sono attivi progetti diversi, condotti con tempi, modalità, risorse differenti, sia tra zone e tra scuole, sia all’interno di una stessa scuola. Si tratta nella maggior parte dei casi di progetti di breve durata, spesso non rinnovati, con operatori che cambiano e stili di lavoro che mutano in continuazione, non garantendo così né alla scuola né ai professionisti che vi operano un lavoro che abbia una continuità, che sia sistemico e che possa essere costruito in base alle esigenze in evoluzione della scuola.

Le attività previste per il servizio di psicologia scolastica sarebbero:

a) attività di consulenza e sostegno ai docenti, agli alunni e ai loro genitori sia in forma collegiale sia individuale. Gli interventi di consulenza individuale agli alunni sono effettuati di norma con il consenso dei genitori;

b) partecipazione alla progettazione ed alla valutazione di iniziative, sperimentazioni e ricerche che riguardano l’organizzazione del servizio scolastico nel suo complesso o nei suoi settori organici;

c) promozione di attività di formazione per gli operatori scolastici;

d) attività di orientamento e collegamento per e con i genitori finalizzata alla promozione e al coordinamento delle attività di orientamento scolastico e professionale, promozione di studi sui fenomeni di abbandono e insuccesso scolastico, promozione di un clima collaborativo all’interno della scuola e fra la scuola e la famiglia”.

Le attività citate confermano l’ipotesi di un servizio che possa dialogare con tutte le componenti della scuola, favorendo il contributo del professionista nei confronti dell’organizzazione scuola nel suo complesso.

A fronte di tali ambiziosi obiettivi, si rimane però profondamente delusi quando si arriva a leggere la voce “copertura finanziaria”. Per tutta Italia lo stanziamento previsto è di 4 milioni di euro all’anno…

Se guardiamo i dati relativi a due grandi regioni, ad esempio la Lombardia e il Lazio, significano rispettivamente 375 mila e 289 mila euro! Vogliamo ipotizzare l’intervento in 375 scuole della Lombardia? Sono mille euro a scuola! Peccato che in Lombardia le scuole statali siano ben 1303…

Se diamo un’occhiata alla situazione nel resto d’Europa, scopriamo qualcosa di interessante a proposito della psicologia scolastica. Nella maggioranza dei paesi europei è presente la figura dello psicologo scolastico (Austria, comunità fiamminga del Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito). Nella maggior parte di tali paesi lo psicologo scolastico è previsto dall’equivalente del nostro ministero dell’educazione e gli psicologi scolastici sono dipendenti pubblici, generalmente degli enti locali.

A fronte di tale situazione negli altri paesi europei, colpisce la mancanza in Italia di una regolamentazione che chiarisca quale sia la formazione e quali siano le modalità professionali attraverso cui alcuni psicologi possano operare nella scuola. Anche le condizioni in cui questi psicologi offrono il loro servizio rimangono assai vaghe e nebulose: non si comprende quale sia l’organizzazione del servizio offerto, su quali risorse finanziarie possano contare, quali siano le modalità di contatto e di collegamento con le varie scuole, come avvenga il dialogo con le altre figure presenti sia all’interno della scuola che a livello istituzionale. Tali elementi sono necessari per una seria politica professionale relativa alla figura dello psicologo scolastico.

Nel nostro paese mancano dati sia quantitativi che qualitativi sull’operato degli “psicologi scolastici”, e i molti psicologi che lavorano nella scuola lo fanno all’interno di progetti spesso poco coordinati e poco integrati, sia fra loro che con le altre attività scolastiche.

Un altro elemento da considerare è che tali progetti sono proposti in gran numero alle scuole, senza spesso che chi ne propone uno sia a conoscenza degli altri, data anche la presenza contemporanea di psicologi che lavorano per i servizi pubblici (ASL) e psicologi liberi professionisti, che lavorano per cooperative e associazioni o individualmente.

Da queste considerazioni risulta fondamentale riuscire ad elaborare una chiara ed operativa attività di politica professionale per gli Psicologi Scolastici. E l’Ordine degli Psicologi dovrebbe avere un ruolo di primo piano in tale senso.

Anche se la legge non è stata approvata, l’Ordine avrebbe potuto in questi anni, specie a livello regionale, attivare iniziative quali la convenzione con reti di scuole. Tali convenzioni avrebbero permesso di promuovere dei servizi di psicologia scolastica, di fornire un servizio utile alle scuole e di mettere in condizione gli psicologi di poter lavorare in modo professionale.