La decrescita felice?

Oggi vorrei riprendere il discorso sulla decrescita, delineando brevemente il pensiero del Movimento per la Decrescita Felice. Riporto a riguardo le parole di Maurizio Pallante, fondatore e presidente del movimento.

“La decrescita non è soltanto una critica ragionata e ragionevole alle assurdità di un’economia fondata sulla crescita della produzione di merci, ma si caratterizza come un’alternativa radicale al suo sistema di valori. Nasce in ambito economico, lo stesso ambito in cui è stata arbitrariamente caricata di una connotazione positiva la parola crescita, ma travalica subito in ambito filosofico. È una rivoluzione culturale che non accetta la riduzione della qualità alla quantità, ma fa prevalere le valutazioni qualitative sulle misurazioni quantitative. Non ritiene, per esempio, che la crescita della produzione di cibo che si butta, della benzina che si spreca nelle code automobilistiche, del consumo di medicine, comporti una crescita del benessere perché fanno crescere il prodotto interno lordo, ma li considera segnali di malessere, fattori di peggioramento della qualità della vita.

La decrescita non è la riduzione quantitativa del prodotto interno lordo. Non è la recessione. E non si identifica nemmeno con la riduzione volontaria dei consumi per ragioni etiche, con la rinuncia, perché la rinuncia implica una valutazione positiva di ciò a cui si rinuncia. La decrescita è il rifiuto razionale di ciò che non serve. Non dice: «ne faccio a meno perché è giusto così». Dice: «non so cosa farmene e non voglio spendere una parte della mia vita a lavorare per guadagnare il denaro necessario a comprarlo». La decrescita non si realizza sostituendo semplicemente il segno più col segno meno davanti all’indicatore che valuta il fare umano in termini quantitativi. La decrescita si propone di ridurre il consumo delle merci che non soddisfano nessun bisogno (per esempio: gli sprechi di energia in edifici mal coibentati), ma non il consumo dei beni che si possono avere soltanto sotto forma di merci perché richiedono una tecnologia complessa (per esempio: la risonanza magnetica, il computer, ma anche un paio di scarpe), i quali però dovrebbero essere acquistati il più localmente possibile. Si propone di ridurre il consumo delle merci che si possono sostituire con beni autoprodotti ogni qual volta ciò comporti un miglioramento qualitativo e una riduzione dell’inquinamento, del consumo di risorse, dei rifiuti e dei costi (per esempio: lo yogurt fatto in casa). Il suo obbiettivo non è il meno, ma il meno quando è meglio. In un sistema economico finalizzato al più anche quando è peggio, la decrescita costituisce l’elemento fondante di un cambiamento di paradigma culturale, di un diverso sistema di valori, di una diversa concezione del mondo. È una rivoluzione dolce finalizzata a sviluppare le innovazioni tecnologiche che diminuiscono il consumo di energia e risorse, l’inquinamento e le quantità di rifiuti per unità di prodotto; a instaurare rapporti umani che privilegino la collaborazione sulla competizione; a definire un sistema di valori in cui le relazioni affettive prevalgono sul possesso di cose; a promuovere una politica che valorizzi i beni comuni e la partecipazione delle persone alla gestione della cosa pubblica. Se per ogni unità di prodotto diminuisce il consumo di risorse e di energia, se si riducono i rifiuti e si riutilizzano i materiali contenuti negli oggetti dismessi, il prodotto interno lordo diminuisce e il ben-essere migliora. Se la collaborazione prevale sulla competizione, se gli individui sono inseriti in reti di solidarietà, diminuisce la necessità di acquistare servizi alla persona e diminuisce il prodotto interno lordo, ma il ben-essere delle persone migliora. Se si riduce la durata del tempo giornaliero che si spende nella produzione di merci, aumenta il tempo che si può dedicare alle relazioni umane, all’autoproduzione di beni, alle attività creative: il prodotto interno lordo diminuisce e il ben-essere migliora.”

 

Maurizio Pallante, fondatore e presidente del Movimento per la Decrescita Felice.

Per maggiori informazioni potete visitare il sito: http://decrescitafelice.it/

 




Decrescita e analisi: due percorsi all’insegna della libertà

Oggi, vorrei cercare di spiegarvi cosa la decrescita rappresenta per me. Si, per me. La decrescita non è, infatti, come il comunismo, la scienza o la psicanalisi. Non è scritta in maniera indelebile su un libretto rosso. E’ un pensiero giovane, come dice spesso Maurizio Pallante: “una tela su cui noi pensatori della decrescita abbiamo finora dato soltanto qualche pennellata e che ora va riempita con l’aiuto di tutti voi”. Non è uguale per tutti. E’ un pensiero relativo: si può dire cosa è più decrescente, ma non cosa dovrebbe o non dovrebbe fare ogni persona “decrescente”. Esiste certo una teoria “generale”, ma questa non prescrive categoricamente cosa si debba fare nel particolare!

Il rovesciamento del meccanismo della crescita a livello individuale ottiene, infatti, in ognuno di noi degli effetti diversi: “meno e meglio” è diverso per ognuno di noi e varia nei diversi momenti della nostra vita. Ciò che per me può essere “meno e meglio” per un altro può essere solo meno e, magari, un meno inaccettabile. Alcune cose che in passato erano per me soltanto meno, ora, essendo io stesso cambiato, sono diventate “meno e meglio”. Per me è sicuramente “meno e meglio” andare in bicicletta al lavoro, comprarsi pochi vestiti, autoprodursi lo yogurt, il pane e il formaggio e lavorare il minimo indispensabile. Mangio, però, la carne (anche se raramente) e ogni tanto faccio qualche viaggio (per lavoro e non). La mia ragazza è vegetariana, ma compra qualche vestito in più di me. I miei vicini, ad Aosta, vivono in campagna e fanno l’orto, ma vanno a lavorare tutti i giorni in città con l’auto. Siamo tutti incoerenti? No. Siamo diversi ed ognuno rema verso l’orizzonte nella sua peculiare maniera.

La decrescita parte da un “input” teorico. Questo, però, si fa subito vivo e rappresenta in primo luogo un cambiamento di se stessi, della propria maniera di essere al mondo e di vedere il mondo, un cambiamento che poi diventa del mondo esterno, che non può che ripercuotersi sul mondo esterno. Questo cambiamento nasce quindi ad un livello individuale, soggettivo, e, in quanto ciò, credo che la decrescita sia in sostanza una questione di libertà. In questo assomiglia molto all’analisi personale.[1] L’analisi personale (come in parte anche alcune psicoterapie) può essere descritta come un profondo percorso conoscitivo di se stessi, volto all’ampliare la libertà che si ha nei confronti della vita (quindi nei confronti di noi stessi, degli altri e del mondo). Spesso quando ci troviamo di fronte ad un problema o ad un conflitto vediamo solo una via di uscita e, per cavarcela, utilizziamo sempre le stesse modalità, gli stessi “meccanismi di difesa” (per esempio diventare aggressivi, deprimerci, attaccarci agli altri, etc.). L’analisi porta alla luce queste nostre strategie, ce ne fa diventare consapevoli. Ci fa inoltre scoprire che vi sono anche delle altre vie di uscita che prima non vedevamo o non volevamo vedere, ma soprattutto che esistono delle maniere diverse per affrontare queste difficoltà. Una volta pienamente consapevoli delle strade che fatichiamo a intravedere, di ciò che siamo, della nostra maniera di rapportarci con gli altri e con il mondo, starà sempre e solo a noi scegliere. Potremo tentare di prendere alcune strade inesplorate oppure seguire sempre le stesse, ma lo faremo con maggiore cognizione, con più libertà, e ciò ci porterà a vivere sempre più serenamente.

Similmente funziona per la decrescita. Illustrare, spiegare la decrescita non significa, a mio avviso, spiegare alle persone cosa è giusto e cosa debbano o non debbano fare e perché, ma cercare di aiutarle ad ampliare la propria libertà nei confronti del mondo che si trovano davanti, “decolonizzando il proprio immaginario” dall’ideologia della crescita.[2] Spesso, quando si è incastonati 24 ore su 24 in questo sistema, non si vede che una strada (per esempio quella del lavorare il più possibile, per avere più denaro, per ampliare il più possibile i propri consumi ed aver successo). Sensibilizzare le persone alla decrescita significa proporre loro una visione del mondo alternativa, far loro comprendere che questa via non è l’unica possibile e che, peraltro, come tutte le scelte comporta delle rinunce (pensate che lavoriamo mediamente circa 6 mesi l’anno per mantenere complessivamente i costi di un automobile!). Significa dire che si potrebbe anche (chi più, chi meno) consumare meno beni materiale, quindi lavorare meno e usare il proprio tempo per godere di più dei beni relazionali (stare più con i propri figli, la propria moglie, i propri genitori, etc.) e che, forse, sono queste le cose che ci rendono davvero felici. Significa spiegare cosa sta dietro e cosa implicano certi nostri comportamenti per gli abitanti di altre zone del pianeta, per noi tutti e per quelli che verranno dopo di noi: dal riscaldamento globale causato dalle emissioni di CO2, allo sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente da parte di alcune multinazionali. Una volta ampliato il nostro orizzonte di libertà, maturata una certa consapevolezza, starà ad ognuno di noi decidere cosa provare a fare e cosa no, scoprendo sul campo ciò che per lui può essere “meno e meglio”, ricamando così, giorno per giorno, il proprio “abito su misura”.[3]



[1] Più conosciuta come psicanalisi (termine in realtà indicante soltanto il metodo della scuola Freudiana).

[2] S. Latouche, La scommessa della decrescita, Serie bianca Feltrinelli, Milano 2007, p. 101-117.

[3] G. Rovera, Iatrogenia e Malpratica in Psicoterapia, Rivista di Psicologia Individuale, n. 55: 7-50, 2004, p. 19.




Ma siamo poi tanti diversi dagli psichiatri sovietici?

Tiziano Terzani interrogò un giorno un anziano eremita che viveva accanto a lui, sulle pendici dell’Himalaya, circa il significato di un suo sogno. Il vecchio gli rispose così: “Il contenuto dei sogni, disse, era roba da psicanalisti che considerano loro compito riadattare i pazienti alla società invece che cambiare la società per adattarla ai bisogni dell’umanità in generale”.[i]

Siamo cosi sicuri che il vecchio saggio non avesse ragione?

Quando ci arriva un paziente con “l’esaurimento nervoso”, con un Disturbo di Panico o una Depressione Maggiore prevalentemente legati a fattori socio-culturali inerenti la cosiddetta post-modernità (ma potremmo dire ad un sistema basato esclusivamente sulla crescita economica), facciamo davvero del bene ad aiutare queste persone attraverso la potente farmacoterapia o la più fine psicoterapia? Gente che magari lavora dodici ore al giorno in fabbrica o in ufficio in condizioni disumane (materiali o psico-sociali) mantenendo a stento una famiglia, giovani senza un posto di lavoro che non riescono a intravedere un barlume di futuro, ma anche manager o imprenditori più che benestanti che lavorano dodici ore al giorno sotto estremo stress, sempre di corsa, senza il tempo da dedicare alle persone che amano (se si concedono questo “lusso”) e a se stessi, se non consumandosi nell’acquisto di una miriade di merci inutili.

Ormai siamo sempre tutti di corsa, stressati. Invece di cooperare, lottiamo alacremente gli uni contro gli altri per conseguire maggiore potere, successo e denaro (a tutti costi), per essere i migliori. L’affettività è spesso un impiccio per la nostra efficienza. Il produttivismo economico e le sue fredde logiche (razionalità, materialismo, controllo, etc.) sono così state internalizzate (quasi come figure genitoriali), sono ormai divenute stabilmente parte della nostra psiche e non ci lasciano scampo, non ci lasciano tirare il fiato: non dobbiamo essere, realizzare noi stessi, esprimerci autenticamente, ma fare e fare sempre di più, per avere sempre di più, senza alcun limite! Paradossalmente, abbiamo sempre di più, ma siamo sempre più soli, tristi e pessimisti.

Considerare patologico chi non si adatta agli stili di vita di una società malsana, metterlo a tacere ed aiutarlo a riadattarsi all’unica realtà che noi riusciamo a concepire è davvero complessivamente salutare per l’umanità?

La psicodinamica ci insegna che il sintomo psicologico, la crisi, è sovente un campanello d’allarme che implica la necessità di un cambiamento (lo è a volte per il singolo, ma lo può essere anche per la collettività). Ignorare questo campanello d’allarme e spegnerlo non rischia forse di impedire alla nostra società di maturare e di andare oltre questo sistema folle in cui non siamo più noi ad usare l’economia per il nostro benessere, ma accade il contrario?  Se evitiamo la formazione degli anticorpi contro questa “megamacchina” non rischieremo di trovarci fra vent’anni con una società “inguaribile” che non potrà essere stabilizzata se non ad un altissimo prezzo, portando così probabilmente ad una sua globale involuzione piuttosto che ad una evoluzione?

La dinamica assomiglia un poco a quella dei moderni inceneritori. Si risolve il problema dei rifiuti bruciandoli. Si spegne il campanello, invece di comprendere la pazzia di una società che sotto la cieca spinta dell’economia dilapida preziose materie prime (non infinite), inerme dinanzi alla ormai evidente necessità di cambiare il proprio modello di sviluppo e risolvere così il problema alla radice (tramite la riduzione della produzione dei rifiuti, il riutilizzo e il riciclaggio/compostaggio).

Nell’Unione Sovietica numerosi furono i dissidenti dichiarati malati di mente e per questo internati in ospedali psichiatrici speciali (in sostanza prigioni), in base a perizie di equipe psichiatriche influenzate dall’ideologia comunista e dal Kgb. Chi non era “normale”, chi non si adattava al funzionamento del sistema era facilmente etichettato come altro, come malato e neutralizzato. Gli psichiatri, in questo frangente, rappresentavano il braccio armato del potere.

Queste pratiche ci risuonano come molto lontane, “robe di altri tempi”. Ma noi, moderni psichiatri, psicologi e psicoterapeuti, possiamo davvero dormire tranquilli? Cosa penseranno fra 50 anni i nostri figli della nostra attività?

Jean-Louis Aillon

PS: Sarebbe inumano negare un’appropriata terapia ad una persona che soffre, ma se curiamo il disagio del singolo con una mano possiamo però lottare con l’altra per far emergere la consapevolezza del problema nella collettività. Non è forse un dovere di tutti i medici ed operatori della salute mentale? Si può promuovere una vera prevenzione primaria e promozione della salute mentale a 360 gradi senza mettere in discussione l’odierno sistema socio-economico?

Riferimenti bibliografici

  1. Amnesty International, Unione Sovietica. Detenzione per motivi d’opinione, 1980
  2. M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004
  3. M. Benasayag, A. Del Rey, La chasse aux enfants: L’effet miroir de l’expulsion des sans-papiers, La Découverte, 2008.
  4. E. Fromm. Avere o Essere? Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1977
  5. E. Fromm, I cosiddeti sani: la patologia della normalità, Arnoldo Mondadori Editore, 1996.
  6. S. Latouche, La Megamacchina, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
  7. S. Latouche, La scommessa della decrescita, Serie bianca Feltrinelli, Milano 2007
  8. S. De Luca, Repressione psichiatrica del dissenso: il caso sovietico, Rivista online di storia e informazione N. 19 – Dicembre 2006. [Internet] disponibile a questo indirizzo: http://www.instoria.it/home/psichiatria_dissenso.htm
  9. Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi, 2004.


[i] Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi, 2004.




Decrescita e salute: per una medicina della decrescita

Comincio con il parlare della medicina, perché da una parte è il contesto che mi è più familiare, dall’altra perché la medicina, cosi come la psichiatria, è decisamente imbrigliata nelle catene della crescita economica. Viviamo in un mondo sempre più inquinato, siamo sempre più di corsa, stressati, imbottiti di cibi malsani e in sovrabbondanza. Viviamo normali eventi della vita (gravidanza, vecchiaia, calvizie) come se fossero patologici. Non tolleriamo più lo star male, il dover stare qualche giorno fermi. I dottori, quando ci visitano, non ci guardano magari neanche in faccia, qualche sbrigativa domanda, due o tre esami e ci prescrivono una tonnellata di farmaci.

Tutto ciò fa aumentare il pil. Quindi, secondo gli economisti, più ci ammaliamo, più visite facciamo, e più medicine assumiamo, più aumenta il nostro benessere!

Decrescita in medicina, significa invertire il timone, svincolare la medicina dalle influenze che nel corso dei secoli le ha apportato un sistema economico basato esclusivamente sulla crescita del pil (e non sul perseguimento del ben vivere dell’umanità); affrancarla da una visione miope della scienza e del progresso (“materialista, meccanicistica, biecamente riduzionista e non olistica) la quale ha fatto dell’uomo un oggetto di studio come gli altri, trascurandone le varie dimensioni essenziali (non materiali), la sua unitarietà e la sua complessità (soprattutto a livello emotivo). La decrescita, come in economia, si propone di riorientare la medicina secondo un carattere prettamente qualitativo (e non quantitativo), riportando l’unicità della persona al centro del processo medico e promuovendo tutte quelle pratiche che mirino al reale benessere psico-fisico e sociale dell’essere umano, inteso nella sua globalità (abbandonando tutte quelle pratiche che invece perseguono interessi diversi). Inoltre in antitesi con l’approccio scientifico/positivistico “la medicina della decrescita” non contrappone l’uomo alla natura attraverso una logica di dominio e di controllo assoluto, ma vede l’uomo come parte della natura stessa, in armonia con essa e promuove un concetto di salute che non può prescindere dalla cura e dal rispetto dell’ambiente circostante.

In pratica cosa vorrebbe dire?

Vorrebbe dire fare prevenzione primaria, ovvero promuovere stili di vita che non solo prevengano le malattie, ma che promuovano la salute, intesa come completo benessere psico-fisico e sociale (definizione OMS). Significa però garantire anche un ambiente sano in cui vivere, sia dal punto di vista ambientale che lavorativo!

Vuol dire avere un approccio olistico al paziente, ovvero avere una visione del paziente non come di una macchina fatta di tante cellule, organi, apparati, ma come persona, unica e unitaria, in cui mente e corpo non sono che due facce della stessa medaglia, in un rapporto continuo e dinamico con l’ambiente circostante[1]. Consumiamo un sacco di farmaci inutili (es. antibiotici, antiinfiammatori, etc.), un sacco di analisi inutili, screening inefficaci che non modificano il decorso della patologia ma anticipano solo la diagnosi. Un farmaco inutile è una merce, ma non un bene. Aumenta il Pil, ma è potenzialmente dannoso per il nostro organismo. Farne a meno porta a quella che noi definiamo “La decrescita felice”.

Sotto l’influenza delle multinazionali del farmaco stiamo assistendo alla creazione di nuove malattie, il cosiddetto disease mongering (es. il deficit di attenzione con iperattività), alla medicalizzazione di normali eventi della vita (come la gravidanza, la vecchiaia) e all’allargamento dei confini dei valori anormali (es. i valori pressori e i valori di colesterolo sempre più bassi)[2]. Non è forse venuta l’ora di invertire questa tendenza?

La depressione maggiore sarà nel 2030 la principale causa di disagio legata ad una malattia[3]. Sarà tutto ciò legato ad una perversa casualità o è in parte causato dalla deriva culturale della nostra società che ha sacrificato il ben-vivere sull’altare della produttività economica?

In alcune patologie è dimostrato che la psicoterapia ha efficacia pari ai farmaci[4]. Perché allora in alcuni ambienti psichiatrici si continua a fornire principalmente solo il trattamento farmacologico?

Decrescita in medicina significa anche però promuovere la concezione che la sofferenza, la malattia e il dolore (acuto) siano normali esperienza della vita, spesso propedeutiche alla gioia o ad un qualche cambiamento e non necessariamente qualcosa di avulso dalla nostra vita che è necessario sempre eliminare appena insorto ed ad ogni costo. Significa considerare la morte come parte della vita, e approcciarsi al fine vita guardando la qualità e non solo la quantità. Significa decolonizzare il nostro immaginario (sia dei medici, che di tutti noi potenziali pazienti) dall’idea di onnipotenza insista nella medicina e nella società occidentale odierna, riappropriarsi del concetto di limite e cominciare a guardare al mondo con occhi diversi.

Jean-Louis Aillon

 Per maggiori sul progetto “Medici per la decrescita” :



[1] Ambiente inteso nelle sue varie “sfaccettature” di tipo biologico, psicologico, sociale e culturale

[2] Ray Moynihan, Iona Heath, David Henr y , Education and debate Selling sickness: the pharmaceutical industr y and disease mongering BMJ 2002;324:886–91

[3] Mathers C.D., Loncar D. Projections of global mortality and burden of disease from 2002 to 2030.  PLos Medicine, 2006, 3:2011–2030

[4] Kaplan & Sadock’s ,Comprehensive Textbook of Psychiatry, 2000. Nel Disturbo Ossessivo Compulsivo una recente metanalisi indica addirittura come l’aggiunta della farmacoterapia alla psicoterapia porti ad un peggior “out come” nel lungo periodo.




Perché un blog su Decrescita e salute?

Parlare di salute al giorno d’oggi, non può esimersi, a mio avviso, dal mettere in dubbio il sistema economico industriale in cui ci troviamo immersi, questa mega-macchina basata sulla crescita infinita del pil e della produzione di merci. Questo sistema, oltre a produrre ingiustizia e sconquassi ambientali, invece di essere al servizio dell’uomo per una più sua completa realizzazione, lo ha invece reso suo schiavo, consumatore di un benessere ampiamente illusorio. Da un lato pone molta attenzione al sistema sanitario e alla cura, dall’altra persegue una massimizzazione del profitto ad ogni costo, la quale si basa però su uno sfruttamento senza limiti del capitale umano e naturale, incompatibile con la nostra piena salute psico-sociale e con la salubrità dell’ambiente in cui viviamo (da cui dipende anche la salute).

Parlare di salute implica quindi mettere in discussione l’esistente e parlare di Decrescita. Significa liberare l’essere umano dalle catene dell’economia che lo avvolgono ormai in ogni ambito della sua vita, e riportarlo al centro del mondo (in armonia con la natura) riponendo nuovamente “la megamacchina” al suo servizio. Intendiamo per Decrescita non la recessione che stiamo vivendo ora, ne il ritorno all’età della pietra che qualcuno ammanta, bensì il coniugare la saggezza del passato con ciò che di buono ci porta il progresso, “l’abbandonare radicalmente l’obiettivo della crescita per la crescita, del progresso e dello sviluppo fine a se stessi, un obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose sia per l’ambiente” che per gli esseri umani. L’obiettivo della decrescita non è la quantità, ma la qualità, è una società in cui si vivrà meglio lavorando e consumando meno e meglio[1].

Il fine di questo blog vorrebbe quindi essere quello di scandagliare il campo della salute attraverso la lente della decrescita, nelle sue varie sfaccettature (in particolare quella psicologica, ma anche biologica, sociale e spirituale), interrogandosi sulle origini della malattia/disagio e sulle possibilità di cura a 360 gradi. Verranno proposte delle riflessioni su come e quanto la nostra salute e le nostre pratiche di cura siano condizionate e in parte distorte dai meccanismi del sistema socio-economico dominante, da alcuni assunti di tipo epistemologico che vi stanno alla base e dai valori e dalla cultura ad esso sottesi.



[1] S. Latouche, La scommessa della decrescita, Serie bianca Feltrinelli, Milano 2007.