Prologo: un caso clinico
<<Caro dottore, lei mi ha chiesto la mia storia familiare, ma io ho davvero molte difficoltà a ricostruirla. Dei miei avi italiani ho perso le tracce, ho molti parenti stranieri, ma anche di costoro non ho grandi notizie e contatti.
La mia nascita è un vero mistero. So per certo che nessuno veramente voleva che io nascessi, sono nato indesiderato, almeno così immagino (altrimenti non riesco proprio a comprendere su quale patto o desiderio io sia stato concepito o forse… non voglio vederlo) e nel momento in cui mia madre era incinta, le famiglie dei miei genitori hanno dapprima fatto di tutto perché lei abortisse, e quando la gravidanza è andata avanti hanno posto una serie di condizioni e di vincoli mortificanti. Mio padre, poi, non s’è mai visto. Insomma, non sono stato affatto trattato alla pari dei miei fratelli. Quando sono poi nato, non le dico in quali condizioni impossibili sono cresciuto, la mia infanzia, un vero inferno, non esagero se le dico che per campare ho dovuto farmi schiavo della mia famiglia, come se fossi un figlio bastardo. Ho sentito odio, diffidenza, disprezzo da parte di tutti ed io stesso ne ho provato verso loro, ma anche (e forse soprattutto) verso me stesso, e per andare avanti mi sono dovuto adattare a fare qualunque cosa.
Si, dottore, la vergogna è il sentimento che provo più di ogni altro, ma anche rancore e risentimento, come potrà comprendere… non è bello sentirsi un intruso nella propria famiglia, non è bello sentirsi indesiderati e poi inibiti in ogni iniziativa e movimento, si finisce per ripiegarsi nella propria miseria.
Se lei poi mi chiede perché tutto questo, io non ho risposte>>.
Lascio ai molti colleghi che mi leggono, il piacere feticistico di sbizzarrirsi in ipotesi diagnostiche/prognostiche per questo povero paziente di cui vi riporto una breve vignetta clinica di una sua significativa autonarrazione.
Da questo fugace racconto, avrete certamente percepito la gravità, le difficoltà esistenziali del poveretto, e questo è sufficiente per comprenderne il dolore e la miseria in cui versa costui ed il suo bisogno di un lungo percorso di emancipazione personale. Non mi soffermo sui sintomi, che sono svariati e invalidanti, e che coprono molteplici “spettri fenomenologico-diagnostici”, ma anche qui: fate un po’ voi…
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1. L’irrilevanza politica e l’autofagia
Gli sviluppi dell’ultimo anno in materia legislativa inducono a riflessioni più ampie sullo stato di salute della nostra professione. In particolare, il fenomeno AltraPsicologia la sua opera di positiva disarticolazione degli equilibri solidificati e la parte da essa giocata nella stesura della recente Legge sull’accesso alla psicoterapia (mi riferisco al fatto che uno sparuto gruppo di colleghi, ma in compenso molto soggettivizzato, riesca con successo e con mezzi propri a contribuire alla stesura di in una legge importante per gli psicologi). Inoltre, fa pensare anche la recente scoperta che il Parlamento italiano sia zeppo di proposte e disegni di legge che riguardano molto da vicino la nostra professionalità in ogni sua area, seppure questi stessi PdL e DdL giacciano, spesso non assegnati, nei meandri di Camera e Senato senza la necessaria spinta politico-culturale. Ecco dunque, partendo da questi due semplici fatti, per certi versi clamorosi, e che indicano chiaramente che tutto è ancora possibile, posso articolare ulteriori riflessioni su di noi psicologi.
Ulteriori riflessioni che si muovono a loro volta da altre due constatazioni relative a precipue condizioni della nostra comunità professionale che potremmo definire strutturali (cioè presenti da sempre, originarie) e “patologiche” (cioè motivo di svariate sofferenze per la gran parte dei professionisti):
1. la prima condizione riguarda la debolezza e l’irrilevanza politico-sociale della categoria nelle politiche di sviluppo della stessa ed in termini d’incisività;
2. la seconda condizione riguarda la prevalente cultura parassitaria che connota al proprio interno la nostra comunità professionale.
Queste due condizioni sono in qualche modo interconnesse in quanto una mancata espansione e sviluppo della psicologia verso la società produce conseguentemente un ripiegamento del mercato del lavoro al proprio interno in forme autofagiche: crescono gli iscritti alle facoltà, crescono gli iscritti all’Albo e gli allievi delle scuole, poco importa che fine facciano, l’importante è che paghino profumatamente la loro lunga formazione.
Chi entra in questo sistema impara prestissimo che l’unico modo per fare carriera, vista l’immane fatica ad accreditarsi presso un’utenza che riconosca la nostra funzione sociale, è quello di accreditarsi come formatore, presso altri colleghi, in genere più giovani.
Da queste osservazioni ne consegue che una professione fattivamente presente nel tessuto sociale e riconosciuta come tale da tutti verosimilmente non necessiterebbe di un collassamento delle proprie attività al proprio interno.
Ne consegue però anche che al fine del mantenimento delle condizioni patologiche di autosfruttamento (che evidentemente convengono a pochi) risulti necessario mantenere, gattopardianamente, molto basso il profilo della professione sul versante politico-sociale, in una circolarità viziosa facilmente intuibile da tutti.
Esercizio retorico dunque domandarsi come mai una categoria in netta crescita numerica (attualmente sono circa 60.000 gli iscritti all’Albo, nell’arco di 5 arriveremo a 100.000) riscuota da sempre un così scarso consenso, abbia un così basso peso socio-politico, sia così poco interessante per le agenzie sociali ed economiche, sia così debole nelle contrattazioni, sia sempre più evanescente ed ininfluente nei servizi pubblici (gli psicologi sanitari sono una specie in via di estinzione a guardare le politiche che si fanno nei servizi pubblici), sia così precarizzata nelle nuove generazioni, sia così poco tutelata e tutelabile, e così via.
Ciò che esorbita dalle più comuni analisi di sapore sociologico – e che dunque non ci accontentano – e che vedono questo come fenomeno diffuso in tutte le professioni è proprio il fenomeno del disinteresse e della debolezza strutturale della nostra professione presso la società civile e presso le istanze politico-sociali. Degli psicologi e della psicologia, fuor da metafora e in una terminologia icastica ma efficace, in definitiva non frega granché a nessuno. Nonostante la mole di proposte di leggi in ferme Parlamento.
Chi si affaccia nelle nostre faccende politico-professionali scopre immediatamente questa amara verità e noi stessi ne abbiamo fatto esperienza
Un’economia autoreferenziale, dunque, che rimanda ad una libido autoreferenziale, ad una ricerca autoreferenziale, ad una cultura autoreferenziale. Una presa per i fondelli in grande stile, tanto per non fare troppi giri di parole.
2. Lo scellerato patto fondativo della 56/89: <<non alzate la testa!>>
La mia ipotesi di fondo è che questo fenomeno (l’inconsistenza ed irrilevanza politico-sociale, intendo) non sia (solo) il prodotto di una pressoché totale mancanza di un pensiero politico e di sviluppo della categoria da parte dei nostri governanti interni, divenuti nel tempo casta burocratica, inutile e privilegiata, sacca di potere autogenerata ed autogemmata, ma anche e forse soprattutto di un “vizio iniziale” dovuto ad uno scellerato patto fondativo, consumato proprio in sede di istituzione della professione stessa.
Tale patto fondativo implicava, circa 20 anni fa, grosso modo il seguente assunto e mandato: Tu, figliolo, nascerai senza un vero nome e cognome e senza un precedente e compiuto pensiero di concepimento.
Vado allora ad osservare, seppure a grandi linee, la storia della nascita della professione.
Quando 18 anni fa il Parlamento Italiano licenzia l’agognata legge 56/89 per la Professione dello Psicologo e contestualmente dello Psicoterapeuta, già si poteva immaginare che questa povera creatura nascesse con qualche tara congenita e forse non avrebbe vissuto a lungo: nessuna esclusiva, tranne i test psicologici, ed il massimo della genericità. Alla psicologia e agli psicologi spetta palesemente una legge monca e vuota. Come mai?
La gran parte dei colleghi ai quali comunico la mia insoddisfazione sul risultato ottenuto dalla contrattazione che portò alla 56/89 e questo disagio relativo alla deludente parzialità della nostra legge istitutiva, in genere mi risponde grosso modo così: “per carità, non tocchiamo la legge, ci abbiamo messo tanto tempo, meglio una legge così-così che nessuna legge o una revisione che potrebbe portarci degli svantaggi”.
Se ne ricava l’idea che noi psicologi ci sentiamo già molto fortunati ad esistere e ad aver ottenuto una legge che istituisca la nostra nascita. Ma dietro questo atteggiamento non vi si riscontra certo una francescana letizia, bensì solo la prospettiva misera di chi è abituato ad avere da sempre ben poche aspirazioni e speranze, di chi è abituato insomma a vivacchiare. Ad i miseri, dunque, misere aspirazioni. Ecco il refrain di scuderia.
Non molti colleghi sanno che il travagliato percorso che condusse all’epoca alla formulazione della legge è il risultato di una lunga trattativa con molti soggetti politici in causa: le forze politiche partitiche, l’ordine dei medici, le istituzioni psicoanalitiche, gli stessi nascituri psicologi, divisi tra di loro (come al solito).
La mediazione fu laboriosa tra chi non intendeva dare corso al concepimento e alla nascita di questo nuovo soggetto ritenendolo o probabilmente inutile o pericolosamente concorrente, o entrambe le cose. Al esempio, psicoanalisti, medici, fascistoidi e cattocomunismi erano apertamente contrari alla nostra nascita
La cultura italiana pagava lo scotto del ventennio fascista (quello ufficiale, 1922-43), ma anche un ulteriore quarantennio di cattocomunismo, entrambi orientamenti politico-culturali che per motivi diversi non sentivano alcun bisogno di questa disciplina (e della professione ad essa connessa) portatrice di inutili dubbi e di pericolosi sospetti. Cosa mai avrebbe potuto aggiungere “lo psicologo” alle figure e funzioni sociali consolidate, riconoscibili ed affidabili del medico e del prete? Si pagava, in poche parole, la totale mancanza di laicità ed il provincialismo della cultura italiana, il suo atavico assoggettamento.
La convergenza che condusse al risultato finale della 56/89 non fu perciò semplice e si pervenne ad un compromesso per il quale la nuova “creatura” per poter finalmente nascere doveva sottostare a molte condizioni mortificanti: nessuna riserva professionale, quindi nessun atto tipico che ne caratterizzasse lo specifico, tutto rimaneva nel vago e soprattutto tutto doveva essere gestito in condominio con chiunque: consulenza, sostegno, riabilitazione, diagnosi, niente di sufficientemente definito e circoscritto. Al contrario tutto volutamente ambiguo e limaccioso. Una nascita in semilibertà vigilata, insomma. Basti pensare all’attualissima e nefasta ambiguità della funzione di counselling per comprendere, con un solo esempio, cosa stiamo ancora pagando (e pagheremo sempre più) a seguito della nostra cara legge 56/89. O basti pensare all’attualissimo tentativo in corso da parte dei medici di accreditarsi la diagnosi psicopatologica come esclusivo “atto medico” ed escluderci per sempre dalla possibilità di fare diagnosi in psicologia.
Non solo, conditio sine qua non fu proprio il famigerato articolo 3, che regolamenta la psicoterapia in condominio con i medici. Giusta regolamentazione, si dirà, dal momento che la psicoterapia è da sempre territorio anche della cultura medica, ed è competenza articolata e trasversale, peccato che per la formazione a questa nuova figura si sia prevista una formazione ad hoc – solo privata e a pagamento ovviamente (e qui si svela la natura dell’accordo) – solo per gli psicologi e non per i medici per i quali si ritenne molto opportunamente (per loro, s’intende) che la specialità psichiatrica fosse sufficiente a produrre psicoterapeuti belli e formati.
Inutile dire che ogni persona di buon senso e ben informata sa che questa regolamentazione non ha alcuna base scientifica, né alcuna evidenza, beninteso, per chi conosce la gran parte delle attuali specialità in psichiatria, ma solo economicistica, e che uno specializzato in psichiatria troppo spesso non ha un’adeguata formazione psicoterapeutica (lasciamo da parte qui il tema la reale capacità formativa della gran parte delle scuole private e pubbliche di psicoterapia, che aprirebbe una parentesi troppo ampia).
Dunque un compromesso inaccettabile che prefigurava fin dall’inizio la subordinazione di una categoria rispetto ad un’altra per la medesima funzione pubblica.
Ma è solo l’inizio.
3. Una professione disegnata male
Occorre soprattutto aggiungere che questa stessa legge non delinea minimamente tutte le altre ed innumerevoli potenzialità della professione dello psicologo, ed anche questo taglio (diremmo scotoma), posto esattamente in fase fondativa, continua a produrre evidenti conseguenze disgraziate sulle nuove generazioni di psicologi.
La sanitarizzazione della professione di psicologo è stata in Italia originaria ed esclusiva, andava bene per chi cercava spazio nei servizi pubblici, e coloro che l’hanno voluta così concepire hanno fatto calcoli inesatti (per tutti gli altri a seguire) e comunque drammaticamente parziali, tagliando via ogni possibile sviluppo non-sanitario (bensì sociale o socio-sanitario) della professione, e scegliendo di collocare la professione sotto il protettivo e più ricco ombrellone/carrozzone sanitario dove gli evidenti vantaggi a breve termine di natura istituzionale e sociale si elidevano con quelli a medio e lungo termine e dove rimaneva incompleta ed inevasa la costruzione di una tipicizzazione professionale, che si colloca invece a latere, o al limite a complemento del servizio sanitario.
Dentro e fuori il servizio sanitario, era troppo concepire la professione in tal modo, prevedendo concretamente ruoli e funzioni dello psicologo nei servizi sociali, nelle maglie dell’organizzazione sociale e del lavoro? Evidentemente si, per i nostri fondatori, dal momento in cui s’è voluto assicurare ai futuri sanitari coperture e privilegi (con tanto di sindacato, finanziato dallo Stato e con tanto di burocrazia annessa e pagata), e s’è voluto di converso lasciare all’iniziativa privata negli anni successivi, ma in definitiva sine die, la vera costruzione della multiforme professionalità dello psicologo. Come a dire: cazzi vostri!
O dobbiamo invece supporre che i nostri fondatori fossero semplicemente ignari, ignoranti e/o miopi? Cosa che non li assolverebbe certo dalle loro responsabilità, ma ne disegnerebbe un profilo semplicemente basso.
O forse essi erano già troppo deboli, e non solo politicamente, per poter osare di fantasticare e progettare una professione realmente moderna e fattiva?
Di certo, nel disegnare la professionalità dello psicologo come prevalentemente sanitarizzata da parte dei nostri fondatori s’intravede già da questo momento fondativo la spiccata tendenza dei nostri politici-professionali – che si evidenzierà sempre più nel prosieguo delle faccende politiche – al più cinico “si salvi chi può”: coloro che dovrebbero rappresentare la comunità professionale in realtà non solo non ne hanno affatto una rappresentazione interna (giusto per usare per un momento un concetto psicologico), e quindi sono i primi che non se ne sentono parte, ma utilizzano il loro potere contrattuale del momento per gli esclusivi interessi di parte, se non personali e familistici. Ed è anche certo che chiunque tratti con psicologi a livello politico locale e nazionale conosce molto bene questa labilità di appartenenza, questa facile “corruttibilità” e questa ricattabilità dei nostri esponenti.
Deve ancora nascere un politico della professione, a livello di ordini, università o altro, che tenga a mente l’intera comunità e ne faccia, con il necessario orgoglio e con la necessaria combattività, i reali interessi?
Il mandato era dunque: oh psicologia, ti si concede di nascere, ma non devi alzare la testa, non puoi disturbare, non puoi crescere nella pienezza della tue possibilità (anzi, non puoi nemmeno conoscerle le tue possibilità), e visto che nasci contro il nostro parere, intanto comincia a pagare a titolo di risarcimento, e poi si vedrà.
Il mitologema di Cenerentola ci fa un baffo e sembra proprio essere stato inventato da uno psicologo! Si, ma con la differenza che questa Cenerentola-psicologa non è quel personaggio mite e malinconico che sublima il feroce risentimento verso matrigna e sorellastre combinando loro la peggiore delle vendette ed indulgendo poi in un ipocrita perdono, ma s’è piuttosto presto trasformata in una vera mignottella, resa immediatamente cinica dagli andazzi generali (in questo senso fa un po’ pena), pronta a darla a chiunque le prometta un giro di danza nel palazzo di turno. Altro che “i sogni son desideri”!
A noi, nell’una e nell’altra versione, questa Cenerentola ci disgusta!
Gli psicologi che si occupano di famiglie e di fenomeni transgenerazionali sanno bene che questi figli, nati senza un precedente e compiuto pensiero e desiderio di concepimento, seppure solo inconscio, hanno vita dura e a volte impossibile per via di pesanti od incerti mandati transgenerazionali. Essi cioè finiscono per disbrigare pratiche inevase, discorsi interrotti delle precedenti generazioni. Ed a volte queste pratiche e questi discorsi sono indigeribili ed inaccettabili per qualunque vita.
D’accordo, mi si dirà, quale figlio non svolge, volente o nolente, questo compito ingrato ed obbligatorio? Si, ma qui, in questo caso (clinico), ci troviamo di fronte a livelli di ambivalenza e di pasticcio elevatissimi. Non ci troviamo di fronte al romanzetto borghese, non si tratta cioè della mamma rimasta incinta, piena di vergogna per il frettoloso matrimonio riparatore, che poi accetta il proprio figlio (salvo poi trasmettergli il proprio disagio), no, qui siamo di fronte ad una finzione ed ad una negazione all’atto della nascita che fa pensare più ad un abbandono/non-riconoscimento alla nascita del figlio piuttosto che ad altro. È il figlio stesso che deve in qualche modo riparare alla sua nascita! La sua nascita cela un innominabile segreto di famiglia di cui egli stesso è muto forziere e sintomatica espressione.
Torniamo allora per un attimo al triste caso clinico citato all’inizio di questo lavoro.
Chi pensa, come me, che la mente sia estesa nello spazio sociale e nel tempo storico, sia dunque il prodotto di un campo sociale e storico ampio e articolato, anziché incapsulata, come spesso insegnano, nei circuiti neurologici o modulari e negli inconsci individuali prosciugati di senso e vagolanti nel vacuum di contesti culturali e politici, pensa anche che la realtà concreta ed immanente di ogni collega alle prese con la sua professione sia pesantemente informata precisamente da questo scenario d’incertezza, di vaghezza, di ignoranza, di disinvestimento attivo (mi si scusi l’ossimoro), e di converso di necessità di ancoramento a certezze, pseudo-identità posticce, di bisogno di conferma del proprio ruolo sociale, del proprio posto nel mondo in quanto professionisti, e così via. Un’ossessione identitaria che produce mostruosità, quella che ne consegue.
Quel povero caso clinico s’aggrappa come può ad una storia transgenerazionale che in realtà gli manca, sia realmente (non essendoci connessioni con campi storici autoctoni, pur esistenti), sia perché la ignora (essendo la psicologia moderna il punto d’arrivo di molte matrici culturali, anche politiche, di cui si perdono spesso le tracce) e che gli rimanda di continuo un’immagine depauperata di sé, mortificante, inutile.
Il vuoto di senso che risulta da tale vuoto storico ci dice del suo affanno, dei suoi innumerevoli sintomi e tratti disfunzionali, ma anche del suo desiderio di avere una casa, di sentirsi utile e riconosciuto/riconoscente da/per qualcuno.
E le Accademie, mi si dirà, che ruolo hanno in questo sfacelo?
Mah, non so, non dubito che vi sia qualcuno che si ponga il problema dell’identità e della rilevanza della professione, ma considerando che tra i docenti ci sono molti esuberi di cattedre di medicina e altre facoltà, considerando il livello medio di coscienza politica, considerando che il mondo accademico vive in una realtà economico-politica in parte parallela ed in parte sovrapposta a quella delle scuole private, non nutrirei allo stato attuale dei fatti molte speranza di riscatto in questi ambienti. Basta poi vedere con quale inconsistente formazione pratica e con quale gigantesco disorientamento vengono fuori nella gran parte dei casi i nostri neo-laureati che possiamo capire bene e risalire a quali siano le vere politiche delle nostre care facoltà di psicologia.
4. Lo scenario cambia rapidamente: cronaca di un disastro annunciato
Ma torniamo alla storia della professione.
All’epoca della legge e poco dopo, gli psicologi italiani sono davvero pochi, circa 10.000 in tutta Italia (contro i 60.000 di oggi ed i 100.000 tra pochi anni), di cui solo circa una metà lavorano effettivamente come psicologi talora entrando per vie traverse nei nuovi e vecchi servizi socio-sanitari. Questa generazione intraprende con successo, da brava creatura handicappata e desiderosa di vivere, un’estenuante lotta per la sopravvivenza e per l’affermazione, legandosi in maniera più o meno ancillare alle tradizioni locali di cura e assistita, in un secondo tempo, dal sindacato dei sanitari AUPI che li inquadra nella dirigenza sanitaria. In questo modo molti colleghi riescono ad avere il posto presso le ASL facendo i concorsi pubblici: all’epoca, fino agli inizi del ’90, accadeva addirittura questo; da allora ad oggi non si parla più di turn-over o nuovi posti pubblici, concorsi ce ne sono pochissimi e lavorare come dipendente della sanità è un miraggio; chi è entrato allora ha chiuso a chiave e con doppia mandata la porta alle proprie spalle. E, come al solito, chi s’è visto, s’è visto.
Intanto, poco dopo, agli inizi degli anni ’90, la nascita successiva dell’Ordine prefigura un futuro di sviluppo e regolamentazione, ma anche di tutela (non si sa bene de ché, ma comunque…) obiettivi istituzionali, è inutile ricordarlo, largamente disattesi, visto il basso profilo che la nostra classe dirigente s’era dato fin dall’inizio.
Questa generazione di colleghi (quella degli over-50) e questo sindacato sono coloro che attualmente – e da sempre – governano la nostra professione e sono, senza ombra di dubbio i diretti responsabili politici e morali degli sviluppi successivi: una schiera di rappresentanti flosci, ricattabili ed opportunisti, che vorremmo noi tutti mandare a casa il prima possibile, senza rancore e senza vendetta, ringraziandoli persino del pochissimo che hanno fatto, ma il prima possibile a casa, per favore!
Dunque, ripetiamolo ancora, il patto di nascita è stato chiaro fin dall’inizio: non fate rumore, non alzate la testa, non accampate diritti, mantenete un profilo basso e dimesso. Sono le condizioni di concepimento e di nascita a richiederlo.
E i nostri cari colleghi fondatori e poi governanti della categoria si sono scrupolosamente attenuti a tali direttive e si sono ben guardati dal trasgredire questo mandato. Una categoria mite e dimessa, anche nei suoi rappresentanti istituzionali, buona come armento da latte o da macelleria. L’istituzionalizzazione della codardia.
Anche quando negli ultimi 10-15 anni lo scenario si trasforma con una certa rapidità: le facoltà di Psicologia dalle due iniziali che erano (Roma e Padova) si moltiplicano rapidamente e si distribuiscono su tutto il territorio nazionale e cominciano a sfornare laureati nell’ordine delle diverse migliaia. Alcune di queste facoltà sono del tutto impresentabili e gestite da un prevalente corpo docente di tipo medico. L’Ordine nel frattempo non riesce (o non vuole, o non ha interesse) a fermare o a regolare il flusso di iscritti, come sarebbe stato logico fare per una professione “normale”, e non si coordina adeguatamente con l’università e con la politica per andare a definire non solo sbarramenti in ingresso, in itinere ed in uscita, ma anche cicli formativi e titolarità effettive per i nuovi colleghi e di conseguenza reali sbocchi lavorativi. Del resto il sindacato, che era stato in grado di gestire i primi anni della professione e, come detto, l’inquadramento di qualche migliaio di colleghi nel Servizio Sanitario sembra, di fronte alla complessificazione del quadro, fa sempre più spallucce e ancora una volta… chi s’è visto, s’è visto. Quello che è accaduto dopo, cioè l’assoluta deregolamentazione e aggressione ai confini subita dai colleghi giovani allo sbaraglio non solo rappresenta la logica conseguenza di tutto ciò, ma non importa nulla a nessuno (a quanto sembra nemmeno agli stessi colleghi allo sbaraglio ed illusi, compenetrati oramai nel ruolo-identità dell’armento da latte o da macelleria).
Siamo di fronte ad un pervasivo disinvestimento ideativo e fecondativo che concepisce miseramente la nostra nobile professione fin dalle sue radici formative, dalle incertissime basi universitarie, per proseguire nella terra di nessuno dei tirocini formativi pre e post-lauream, per procedere nella pericolosa (e costosa!) jungla della formazione post universitaria, e che finisce, dulcis in fundo, nell’inconsistenza politica ed inefficienza dei nostri ordini.
Sulle motivazioni storiche di questo disastro due ci sembrano le più probabili:
1. il mercato interno della formazione diventa nel frattempo sempre più ricco, ghiotto e allettante per tutti (docenti universitari e privati, consiglieri degli ordini, scuole e suolette-fungine varie, sempre più un ottimo business, etc.)
2. la lungimiranza politica e la capacità di pianificazione e la sensibilità dei nostri governanti riguardo i nuovi scenari professionali si approssima allo zero
Al lettore stabilire la motivazione più convincente o magari anche l’insieme combinato delle due.
Diciamo allora che la ricerca di senso che contraddistingue gran parte delle scelte di chi intraprende questo percorso formativo professionale e umano s’è presto trasformata nel senso del tornaconto parassitario di pochi sulle spalle dei tanti. Alle nuove generazioni di colleghi spetterà ben presto un futuro certo di precarietà, di dequalificazione formativa, di disoccupazione-sottoccupazione, di titoli di cartone e di improbe fatiche per la sopravvivenza in una jungla impossibile ed ingiustificabile.
Si aggiungano a questi altri fattori ed altre tendenze sociali più generali per i quali si assiste ad un disinvestimento dal basso e ad un crescente disinteresse per la partecipazione democratica alla vita delle istituzioni e della politica (il 27% la percentuale media nazionale di votanti alle ultime elezioni ordinistiche), sicuramente incoraggiato da una classe politico-professionale sempre più innaturalmente annidata nelle proprie sacche di potere e privilegio, sempre più incollata alle poltrone e sempre più scollata dai bisogni della base, sempre meno interessata, in perfetto stile antidemocratico, a coinvolgere la comunità professionale (piuttosto ben pronta e scattante ad autoprorogarsi e a cambiare a proprio vantaggio i regolamenti elettorali, senza che questo produca scandalo), e di converso sempre più devota alle proprie clientele rappresentate dalle scuole di formazione in psicoterapia, i loro docenti ed il corteo adorante dei loro allievi, ben pronti questi ultimi a barattare il proprio congenito disturbo d’identità professionale con un’identità professionale nuova di zecca, bella che sfornata calda-calda dalla scuola di turno: lo psicoterapeuta! Boom! Si, disoccupato. E qualche favoruccio qui e là, giusto per galleggiare ancora un po’.
Disinformazione, disinteresse, disaggregazione, impotenza, ignoranza, sono il cocktail letale creatosi negli ultimi anni che fa sì che se si prova, ad esempio, a chiedere in forma random ad un giovane collega (ma non solo), cosa è l’Ordine, come è composto, a cosa serve, se può migliorare la sua vita professionale, si vede in genere comparire sul volto della/del collega l’espressione inebetita di chi sta interloquendo con un eschimese.
Altro indicatore “sintomatologico” preciso è l’irrilevanza della cultura italiana accademica e specialistica a livello internazionale, l’assoluta assenza o drammatica carenza di un settore di ricerca in psicologia, di centri di eccellenza, etc. Provate a cercare la ricerca italiana in psicologia nei testi internazionali…
Viene detto, e a ragion veduta, che non c’è categoria nella quale la maldicenza tra colleghi ed il narcisistico disprezzo del collega sia così diffuso come la nostra: ebbene, qui questo disprezzo assume dimensioni sociologiche in quanto non s’è mai vista una comunità che tratta i propri colleghi più giovani come carne da macello lasciandoli allo sbaraglio e illudendoli di chissà cosa, esprimendo in tal modo il massimo disprezzo immaginabile.
La collusione degli apparati istituzionali, tenuti insieme da medesimi interessi economici, da inerzia e da manifesta incapacità frena ogni politica di sviluppo e rigore, si aprono le dighe e si comincia a sbranare la preda.
Il vettore del cosiddetto sviluppo della professione segue perciò fin dall’inizio direzioni demenziali ed anziché aprirsi al sociale e cercare nuove articolazioni di una professione potenzialmente infinita, segue la direzione dell’auto-sfruttamento interno alla comunità che risulta più comodo e redditizio: università sempre più affollate, 305 sedi di scuole di psicoterapia, supervisioni, master e corsetti, analisi didattiche, tirocini, etc… Il tutto sempre più fuori controllo, il tutto sempre più an-etico.
Non v’è da stupirsi quindi che in questa profonda crisi culturale in atto la Psicologia sembri sempre più smontarsi pezzo-pezzo e svendersi a counselors, mediatori, filosofi, medici, etc., invece di diventare polo d’interesse per utenti, amministratori e politici. La domanda potenziale di Psicologia, testimoniata dalle numerose Ddl e Pdl ferme in Parlamento che prevedono la nostra opera, viene dunque lasciata cadere.
Le migliaia di colleghi che continuano ad uscire incomprensibilmente dall’Accademia non sono informati (né fermati) in tempo utile della situazione “comatosa” della professione, sovente non hanno orientamento e direzione e sono destinati a lunghissimi anni di precariato e spesso a cambiare lavoro.
La Psicologia è frammentata in mille piccole comunità locali e non si riconosce in comuni denominatori e in rappresentanti significativi.
La rilevanza sociale della Psicologia, che dovrebbe aumentare in funzione della complessità sociale, in realtà diminuisce sempre più.
Attualmente gli iscritti agli ordini sono 60.000. Secondo alcune attendibili stime, la crescita degli iscritti agli ordini cresce del 15-20% annuo e tra 5 anni saremo 100.000, tra 10 anni 140.000, uno psicologo ogni 620 cittadini (lo psicologo condominiale diventerà il futuro occupazionale…). In parallelo a questa crescita demografica, crescerà la disoccupazione in proporzione, attualmente già attestata a cifre alte se si considera che gli iscritti all’enpap sono solo 25.000 su 60.000, ma tra 5-10 anni di sicuro due iscritti su tre non lavoreranno da psicologi.
A monte di queste drammatiche cifre non s’intravede alcuna iniziativa significativa per fermare questo Titanic annunciato.
Occorre urgentemente ritrovare un’unità d’intenti e di direzione politica per la professione. Ma non v’è dunque alcuna attività di politica professionale possibile e probabilmente nemmeno alcuna attività professionale tout court se non ci si riconosce intorno a comuni matrici e se non c’è una presenza sociale incisiva.
Ci si domanda allora legittimamente: esistono veramente questi vaneggiati denominatori comuni della professione di psicologo? Esiste davvero questa presunta comunità professionale? Oppure non esistono matrici comuni e ci dobbiamo rassegnare a perire o a frantumarci in cento pseudoprofessioni? Oppure questa storia della comunità professionale si tratta solo di un delirio, anche piuttosto strutturato, di AltraPsicologia e di alcuni suoi esponenti che non si vogliono rassegnare una volta per tutte a navigare nelle medesime acque torbide e puzzolenti di sempre e si ostinano inutilmente e tracotantemente a voler cambiare il corso della storia?
Cos’è più “pericoloso” in AltraPsicologia, che non ci riesca o piuttosto che ci riesca?
5. Riscrivere e rifondare
Il curioso ed imprevisto fenomeno AltraPsicologia
Ci troviamo allora, alla luce di quanto fin qui detto, di fronte al seguente scenario:
q un concepimento ed una costruzione insufficienti e insoddisfacenti della professione
q la rinuncia/incapacità originaria da parte dei nostri fondatori istituzionali alla caratterizzazione delle coordinate professionali
q un inesistente patto sociale della comunità professionale con la collettività dei cittadini nei termini di impegno concreto in ogni presidio istituzionale e sociale
Il “programma” di AltraPsicologia a fronte di quanto fin qui detto è presto detto ed è molto semplice: rifondare la Psicologia, riscriverne le regole, le leggi, effettuare un ricambio generazionale, attivare la partecipazione democratica, invertire la deleteria tendenza alla delega in bianco ai rappresentanti istituzionali, mettere al centro l’etica professionale ed il rigore dei nostri cicli formativi pre e post lauream, aggregare e catalizzare, investire nella ricerca come volano e come istanza di cambiamento, attingere alle enormi risorse interne della professione, alle sue esperienze eccellenti, ai suoi saperi sul campo e metterle in circolazione.
Non illudiamoci, ci vorranno molti anni.
A due anni e mezzo dalla nascita ufficiale di AltraPsicologia è allora troppo presto per fare bilanci e tirare le somme. Ogni tanto però provo a guardare a questa esperienza con un certo distacco.
Mi capita talora di fare un pensiero a proposito di AltraPsicologia ed i suoi componenti: metti insieme una dozzina di colleghi in tutta Italia, di varia estrazione, tra i 27 e i 40 anni, senza alcuna conoscenza precedente della politica professionale, che si danno come compito il rinnovamento della professione e collateralmente tutti gli altri compiti: informare i colleghi e svelare gli inguacchi, coinvolgere altri colleghi, fare esperienza ordinistica, creare un interesse intorno alla psicologia, etc., ed ecco pronta in men che non si dica una classe dirigente infinitamente migliore, più colta, più preparata, più etica, più efficiente e fattiva di quella precedente (quella, per intendersi, che ha mandato in rovina la nostra professione).
Sto esagerando?! Sto semplificando?! Vi assicuro, colleghi, niente affatto!
Niente di autocelebrativo, per carità, AltraPsicologia è davvero un gruppo qualunque di colleghi, per nulla speciali, pieno di limiti oggettivi e soggettivi, messi insieme in modo random da un comune disagio. Solo che si tratta di un gruppo (che pensa e lavora come gruppo, e già questa è una assoluta novità nel nostro panorama) che non accetta passivamente lo stato di gravità della professione e che possiede un profilo etico mediamente più alto dei nostri governanti. Tutto qui.
Se aggiungo poi la constatazione che tutto questo nasce spontaneamente dal nulla, senza padrini e santini alle spalle, a costo zero, o meglio, solo sul volontariato e la gratuità di questi pochi colleghi, beh, ci si rende conto di trovarsi di fronte ad un raro e curioso fenomeno sociale.
[Certo, qualcuno potrebbe giustamente osservare che ci vuole davvero poco per fare meglio di quanto fatto fino ad ora… È vero, effettivamente non si può proprio fare di peggio!]
D’altro canto, constatata la reale (in)consistenza delle nostre istituzioni, nonché l’inutilità di condurre battaglie dall’interno di questo mondo “bromurizzato”, AP propone ai suoi sostenitori l’autorappresentanza come forma di strategia e comunicazione sia all’interno che all’esterno, nei vari contesti politici e culturali in cui si trovi ad agire. Autorappresentanza vuol dire essenzialmente scavalcamento e trascinamento: scavalcamento dell’indolenza e delle ingiustificate cautele ed introduzione di nuove forme di azione attraverso una negoziazione diretta e non mediata sia con i colleghi sia con la politica nazionale e locale, precorrendo con iniziative, proposte e progetti concreti ciò che ci auguriamo la categoria faccia a seguire; trascinamento degli imbarazzanti rappresentanti istituzionali verso le nostre posizioni ed iniziative.
Gli scenari futuri professionali sono pieni di incognite:
- Da una parte non si comprende che fine faranno gli Ordini e l’eventuale ruolo futuro che potrebbero assumere. Tutto ciò mentre (sopra)avanzano nuove professioni che invaderanno ancor più i nostri specifici territori spesso con ancora minore qualità.
- Dall’altro in Italia non esiste ancora un associazionismo qualificato nel panorama della Psicologia che si proponga come alternativo allo strapotere-impotente degli Ordini. Non esistono idee rifondative nella professione, ma solo l’estremo tentativo dei soliti noti si avvinghiarsi alle loro poltrone e ai loro privilegi.
La consolidata passività di molti colleghi e il loro consolidato sentimento d’insensibilità verso una necessità d’interfaccia politica, sembra essere dunque la controprova di questa crisi culturale della Psicologia e che sembra fare il gioco della frammentazione e dell’eclissi della presenza degli psicologi nella società.
L’unica speranza per il nostro futuro è quella di proseguire l’opera cominciata da AltraPsicologia e ritrovarci tutti in nuove forme di condivisione, di comunitarismo professionale, di partecipazione e ricostruzione a partire dalle macerie.
AP, come detto, ha partecipato recentemente alla stesura di una PdL parlamentare sulla psicoterapia che è confluita nel testo unico attualmente in discussione nella XII Commissione Affari Sociali, ha ancora una volta trascinato le istituzioni della nostra categoria a difenderla contro i vergognosi emendamenti dei medici; attualmente sta lavorando ad un’altra PdL sulla Psicologia Scolastica assieme ad altri 30 colleghi di tutta Italia; ha in cantiere altre idee ed altre proposte sullo psicologo di base e sui servizi di psicologia.
Ma tutto ciò ha bisogno del sostegno attivo e della partecipazione dei colleghi, della loro fiducia nel futuro della nostra professione, nella riattivazione virtuosa di un rinnovato sentimento di orgoglio e appartenenza.
Senza sostegno, partecipazione e fiducia rimarremo deboli ed impossibilitati a portare avanti la riforma che abbiamo appena cominciato a proporre.