Boom di Studenti – Disastro della Professione

 

L’avete letto la pagina di Repubblica del 2 settembre (2008, n.d.r.) (sezione Roma) sul boom degli iscritti a Psicologia alla Sapienza?

Cito: […] Senza dimenticare che anche le due facoltà di Psicologia del primo ateneo capitolino registrano un boom di iscrizioni, con oltre 2000 aspiranti studenti.

L’avete letto, poi, l’editoriale di Giuseppe Luigi Palma, Presidente dell’Ordine Nazionale degli Psicologi, sull’ultimo bollettino con titolo “Pubblicità…ingannevole” sulle vane promesse delle Facoltà di Psicologia alle loro matricole?

Sembra scritto da AltraPsicologia ma …. quattro anni fa!

Il Presidente fa due conti e due statistiche e si accorge che gli psicologi italiani sono in modo imbarazzante tantissimi, troppi, e che sono destinati ad aumentare vertiginosamente nei prossimi anni visto che gli iscritti attuali alle 26 Facoltà e corsi di laurea sono oltre 70.000 !

E poi, dopo aver genericamente chiesto razionalizzazione degli accessi qualità della formazione, conclude che “gli sbocchi professionali sono puramente teorici”.

Ci domandiamo, non senza una certa umana preoccupazione: se n’è accorto solo ora o è una delle tante mosse demagogiche ad uso e consumo dei soliti disinformati, che finiscono magari per apprezzare cotanta sollecitudine da parte del nostro massimo esponente istituzionale?

Inutile ricordare che AltraPsicologia in questi anni ha tambureggiato ripetutamente su questo disastro: vedi i seguenti articoli: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, riservandosi ciò che era nel suo potere fare, cioè informare, informare, informare!

E va bene, non vogliamo passare per i soliti criticoni: apriamo pure un credito all’ente (finora) inutile che il Presidente rappresenta. Finalmente a distanza di 20 anni dall’istituzione dell’Ordine e di governo della professione detenuto in maniera quasi assoluto dall’AUPI (il sindacato degli psicologi sanitari di cui il Presidente Palma è illustre esponente), i suddetti rappresentanti si sono resi conto, dall’interno dei loro ambulatori pubblici e dei loro privilegiati distacchi sindacali, che la baracca di tutta la nostra professione ci sta crollando in testa. Ma va!?

Cosa hanno fatto costoro fino ad oggi, in questi 20 anni beati, per evitare questo prevedibilissimo andazzo? E cosa mai intendono fare, da oggi in poi, per contenere i danni?

La mia, se non s’è capito, è una mera domanda retorica… Perché la risposta implicita è: nulla! Ovviamente. A parte qualche letterina… morta.

Si, perché per salvare la nostra professione non basta razionalizzare gli accessi, ma occorre avere una visione politica della psicologia proiettata nel futuro e nella società civile (e non solo nel SSN). Ed è qui che – ahinoi – l’acqua è molto bassa.

Ma torniamo alla notizia del boom degli iscritti e procediamo con … ordine (no, non quello).

Cominciamo con la domanda-chiave:

Posto che è assodato che il numero degli psicologi è spaventosamente sovradimensionato rispetto alla richiesta della società,

a chi interessa buttare dentro un mare di giovani allo sbaraglio?

Beh, è facile capirlo, a tutti coloro che ci mangiano sopra.

E qui l’elenco è davvero lungo, ma principalmente:

  1. Alle Facoltà: più iscrizioni, più sovvenzioni, più cattedre, più libri venduti, etc.
  2. Alla Formazione post-universitaria (Scuole e master varii): più futuri allievi, più futuri analizzandi, più ecm da vendere, più futuri disoccupati/sottoccupati da orientare
  3. Agli Ordini (eh gia!): più iscritti, più interessi economici da regolare (o non-regolare…), più potere.

Come potete immaginare, dove allignano tali e tanti interessi economici, non c’è razionalizzazione che tenga… Non prendiamoci in giro.

L’unica cosa da fare rimane informare, informare, informare!

(vedi i seguenti articoli, solo i principali sui temi qui accennati, apparsi in questi anni su AltraPsicologia: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14)

Di fatto l’Ordine e le Università hanno giocato a rimpiattino ed in questo nefasto gioco delle parti ogni tanto l’Ordine faceva finta di alzare la voce e le Facoltà acuivano la loro sordità elettiva su tali argomenti.

Così è fin qui andata e così andrà anche in futuro. Facciamocene una ragione e non caschiamo nei proclami demagogici del presidente.

Se avessimo un Ordine realmente esistente e funzionante, molto potrebbe fare, direttamente, per evitare questo scempio.

  • Definire ed aggiornare con maggiore attenzione i profili di competenze professionali necessari alla società civile seguendo i criteri della ricerca sociale (e già qui emergerebbe che 315 sedi di scuole private accreditate per la sola Psicoterapia sono pura follia)
  • Discutere con le Facoltà su tali profili di competenze e definire con esse i curricula formativi (e relativi piani di studio) realmente utili e abilitanti;
  • Suggerire alle Facoltà, alla luce della eccedente offerta, criteri di rigore e selezione in accesso e in itinere; 
  • Disporre in sede di Esame di Stato (l’Ordine lì è presente) in ogni Facoltà e in ogni sede del territorio italiano un numero contingentato di abilitati, calcolato di volta in volta a seconda di precise valutazioni (come già accade per altri Ordini professionali);
  • Permettere l’iscrizione all’Albo solo a chi dimostra di esercitare effettivamente la professione;
  • Informare a tappeto l’opinione pubblica circa le competenze trasversali degli Psicologi (… non di sola psicoterapia si vive) ed avvertire i giovani prossimi all’iscrizione universitaria di quanto viene invece detto “inter nos” a proposito della mancanza di sbocchi occupazionali e del calvario degli inizi professione di Psicologo.

Vorrei proprio essere smentito o corretto, ma mi risulta che mai l’Ordine, quello nazionale in particolare, abbia operato in queste direzioni nè mai abbia fatto nulla di quanto qui esposto.




Il potere di certificare l’umano. Principi di natura e psicologi

Siamo reduci, noi psicologi, da un periodo di aspri dibattiti che hanno tenuto banco e che tuttora aleggiano nelle nostre discussioni, per nulla sopiti e per nulla ricomposti. Mi riferisco in particolare da un lato alla vexata quaestio con i medici sulla psicodiagnosi, intorno alla PdL sulla psicoterapia e dall’altro all’affaire “terapia riparativa” per gli omosessuali.

Per un motivo o per l’altro, noi di AltraPsicologia ci siamo trovati in prima fila e coinvolti su entrambi i fronti (non a caso), e dunque, mi è sembrato opportuno provare a tirare le fila dei “temi gruppali” di fondo ed accomunanti l’attuale clima culturale.

Lungi da me voler argomentare sui massimi sistemi, piuttosto qui, mi sembra, siano in gioco questioni basilari che definiscono spartiacque sostanziali tra l’essere o non essere psicologi. E magari essere altro e non saperlo… O, se vogliamo, essere meno, molto meno, che psicologi.

La mia idea è che, alla base di entrambe le questioni all’ordine del giorno – psicodiagnosi e riparazione dell’omosessualità (ma tante altre questioni sono in ballo nella società) – troviamo l’implicito, quasi mai esplicitato ed esplicitabile, del “principio di natura” (l’invarianza antropologica) con il quale delineiamo l’uomo e le sue attribuzioni, le sue dotazioni, e come queste stesse attribuzioni e dotazioni noi le determiniamo e le originiamo.

Non è questione da poco poter “certificare” circa la normalità o meno degli individui, circa la loro emendabilità, riparabilità, diagnosticabilità/prognosticabilità. Come si può facilmente immaginare, qui non è in gioco semplicemente (o non solo) il primato culturale di certe visioni del mondo su altre, ma stiamo parlando di flussi economici consistenti che possono essere direzionati da una parte o dall’altra a seconda di chi e di come li indirizza. Chi è nella posizione sociale di farlo, gestisce un potere enorme, non solo sulle coscienze, ma nella vita concreta di tutti noi. Mi riferisco ad esempio al potere di certificare una patologia ed una cura rimborsabile da un istituto assicurativo e dal sistema sanitario nazionale, una giustificazione per un’assenza da lavoro, una condizione di disturbo da dover curare farmacologicamente, una condizione di inappropriatezza da dover correggere con un intervento specialistico, ed infine il potere di orientare un bacino di utenza socialmente riconoscibile a richiedere certi interventi anziché altri, etc.

Gli ultimi decenni della nostra era hanno ampiamente dimostrato come i complessi sistemi di consenso sociale siano diventati campo di applicazione di procedimenti socio-economici di elevata raffinatezza ed efficacia e come anche la ricerca scientifica sia diventata in larga parte asservita alla logica del consenso di popolo e del mercato. Basta vedere, come esempio, a ciò che è accaduto nella seconda metà del secolo scorso tra le corporations del tabacco e i servizi sanitari dei grandi paesi occidentali: decine di anni di coperture e dubbi scientifici artatamente instillati circa l’effettiva dannosità del fumo. La ricerca sapeva da decine di anni ciò che il consenso popolare (fondato sulla dipendenza) e gli interessi economici trasversali impedivano di divulgare e rendere programma di salute pubblica, fino alla negazione della realtà. Ebbene, oggi sappiamo come questi fenomeni manipolativi si siano diffusi e raffinati nel tempo e come siano in dialettica con la nostra “normale” esistenza di uomini contemporanei.

Ma mentre nel caso di tabacco, nicotina e catrame, si parla di una “certezza” che viene occultata dai meccanismi economici e di consenso, nei casi qui citati della psicodiagnosi e della emendabilità dell’omosessualità ci troviamo di fronte al caso opposto e contrario, quello di “incertezze” scientifiche (o semplicemente delle falsità) che appaiono intollerabili dagli stessi meccanismi prima citati in quanto cozzano con interessi e poteri che vanno in una certa direzione di marcia.

Lo psicologo, quando è tale, è qualcuno che ama l’indagine e la verità (con la “v” minuscola e socratica della conoscenza) e non si ferma alle apparenze, e per questo passa come quello che cerca il classico pelo nell’uovo. Personaggio scomodo ed inattuale, lo psicologo, che non avalla che il criminale è cattivo, il tossico deviante, l’omosessuale pervertito, innaturale o infelice, lo psicotico folle, la famiglia patogena, la mamma cattiva, il papà abbandonico, i giovani bamboccioni, il bambino iperattivo. Tutte rappresentazioni sociali rassicuranti, seppure nel loro essere apparentemente inquietanti. Ma ciò che del manicheismo inquieta, allo stesso tempo acquieta e obnubila, come sanno bene gli psicologi (appunto!).

No, lo psicologo, quando è tale, non è affatto un personaggio rassicurante per nessuno, nemmeno per se stesso, egli per essere tale deve vedere tutte le facce ed i risvolti dei fenomeni e non compiacere nessuno. E questo nonostante egli viva in una realtà sociale nella quale è chiamato continuamente a “certificare” luoghi comuni.

Ma cosa distingue uno psicologo da altre figure sociali che come lui sono chiamati a fornire pareri ed intervenire nelle mille pieghe dei disagi sociali e personali?

Ad esempio:

  1. Un medico può sempre appellarsi alla presunzione bio-genetica che gli fonda un principio di natura che gli fa affermare il tautologico: <<tutto è a base organica>>
  2. Il DSM psichiatrico fonda un ambiguo pseudo-principio di natura sul criterio statistico
  3. Un prete fonda il proprio principio di natura su presupposti teologici
  4. Un economista o un imprenditore si richiama ad un neo-principio di natura chiamato consumo, sviluppo e progresso

Lo psicologo, quando è tale, ha invece sempre le scarpe infangate dai percorsi impervi ed incerti che batte: non da’ alcuna certezza su nessun principio di natura. Egli piuttosto ama l’indagine, abbiamo detto, lascia in sospeso, non fornisce risposte preconfezionate, non cade in semplificazioni tautologiche ed è addestrato ad avere una visione più sistemica dei fenomeni umani, è formato a domandarsi sempre quali criteri (concettuali ed operativi) utilizza e quali siano i suoi limiti, combatte ogni forma ideologica di pensiero, è sempre in posizione di apertura e di ascolto.

Come si può intuire, nessuno dei principi di natura prima citati ha a che vedere col pensiero scientifico e la conoscenza, in quanto nessuno di essi può ritenersi fondativo di un bel niente se non della propria autoreferenzialità culturale. Eppure è proprio a partire da queste idee fondative ed infondate che si determinano le politiche sociali, sanitarie, etc. e l’uso manipolatorio di tutte queste 4 carte assieme (talora sapientemente confuse e sovrapposte) sposta consenso e decisivi focus politico-sociali.

La scienza moderna ha il dovere di non scolpire nel bronzo alcunché circa la natura umana, bensì di usare una leggerissima punta di matita.

Sarebbe opportuno partire dalla lettura del testo “Della natura umana. Invariante biologico e potere politico”[1], che ci da un’idea di dove ci troviamo circa il dibattito sulle invarianti della nostra specie che possano fondare un discorso politico.

Si vedrà, leggendo questo libro, come sia delicato e pericoloso allo stesso tempo sbilanciarsi in assolutismi antropologici, e come sia necessario ponderare con la massima cautela ogni affermazione, in eterno bilico tra natura e cultura, tra naturalismo e storia, proponendo al massimo degli indicatori epistemologici piuttosto che sbrigativi colpi di spugna.

E tuttavia accade solitamente esattamente il contrario: la scienza (e la medicina è in prima linea proprio in quanto area epistemologicamente spuria e al contempo posizionata sul confine di vita e morte) è diventata impropriamente l’area del sapere socialmente delegata a definire la natura umana e le sue “linee-guida” e lo fa spesso in conflitto con il pensiero religioso; talora invece ci va a braccetto.

Le linee di saldatura o di frattura tra istituzioni scientifiche, politiche e religiose (tra bios e teo e polis) non sono però definite dai movimenti ideologici e culturali, piuttosto essi si modellano su emergenze/esigenze economico-politiche.

Ecco allora che denominarsi come psicologi credenti piuttosto che come psicologi che amano la cioccolata può diventare lungimirante operazione di marketing, invece che autentica professione di fede. Avviene dunque una sottile, ma profondissima, metacomunicazione di “branding” in cui si dice al potenziale cliente: <<ehi, in questo club la pensiamo così, qui trovi ascolto, la nostra visione del mondo è orientata dall’amore della cioccolata!>>.

Capite dunque come l’amore per la cioccolata nulla c’entri con il lavoro dello psicologo (se non come ambiguo e vaghissimo sfondo valoriale) e tuttavia diventi abile operazione di orientamento e selezione della clientela.

Prendiamo il caso della saldatura avvenuta tra principi statistici (DSM) e principi bio-genetici tale da estendere la semantica, tutta medica, dell’oggettivazione della malattia ai disturbi all’asse II dello stesso manuale diagnostico. A ben poco servono le specificazioni e i distinguo (l’asse II è sindromico e non sintomatico), ciò che passa a livello di rappresentazione sociale, ma anche nelle menti degli operatori del settore, è l’idea semplicistica che la personalità si ammala, esattamente come un organo del corpo e che se vai da un medico qualche tara ce l’hai di sicuro.

O prendiamo l’estensione del concetto di “riparazione” utilizzato in area psicoanalitica (posto che esso abbia mai avuto una qualche dignità scientifica) applicato all’orientamento sessuale: chi è in grado poi di fare il percorso a ritroso per ricostruire cornice, senso e significato di ciò che vuol dire “riparare” in psicoanalisi e come questo si è poi saldato e argomentato poi con l’orientamento omosessuale? Non molti, credo.

E quando tutto ciò avviene per psicologi e psichiatri che si dichiarano esplicitamente credenti e praticanti, quale significato assume tutto l’insieme se non quello di porre da un lato un apparentamento ambiguo tra domini del tutto differenti (scienza e fede), nonché il porre un’origine conoscitiva/ispirativa della pratica professionale al di fuori delle procedure scientifiche riconoscibili (nella teologia ad esempio, o nell’esoterismo) e comunque distanti dallo specifico di cui ci si occupa.

La sensazione del gioco delle 4 carte sui principi di natura applicati all’economia e alla politica, a cui facevo riferimento prima, è piuttosto forte.

  1. Prendi un tema caldo ed emotivamente rilevante (disagio, vita, malattia, felicità)
  2. accostagli ogni genere di incertezza epistemologica per negare e annacquare di fatto l’esistenza di ogni discorso epistemologico possibile,
  3. dichiara una posizione identitariamente forte e riconoscibile (viva la salute e la responsabilità medica, viva la famiglia, viva l’anarchia, viva l’ordine, viva l’amore di Dio) ovviamente fondata su altrettanto riconoscibili e supposte invarianti (l’esattezza della scienza o della tal procedura, la presenza di Dio nella nostra vita, la selezione naturale del progresso e del successo)
  4. rivitalizza improvvisamente il tuo morente e forse anche menagramo relativismo culturale
  5. datti un nome evocativo che funzioni anche come brand…

… e finalmente la tua credibilità sociale aumenterà ed al contempo il tuo potere di certificazione.

Nel recente caso della diagnosi per la psicoterapia abbiamo assistito ad un simile pastrocchio, ed anche in questo caso la conoscenza è stata ferita a morte da argomenti di roboante e confusionaria inconsistenza primo tra tutti quello della prevalenza di una tipologia diagnostica (quella svolta da un medico piuttosto che da uno psicologo) basata sull’appartenenza corporativa ed il ruolo nel servizio sanitario piuttosto che sulla competenza, sull’efficacia e la reale utilità.

Figuriamoci se un legislatore, un parlamentare della Repubblica, si preoccupa di andare a verificare l’esattezza scientifica di ciò che sottoscrive o che avalla… In genere si fida del tecnico di turno (in questo caso medico) che gli certifica (appunto) una presunta correttezza procedurale.

In realtà abbiamo assistito in questo caso al meraviglioso cortocircuito tra lobbismo controriformatore e protezionista della casta medica, demagogismo populista, rigurgiti manicomialisti, cultura medicalistica ed il suo linguaggio (infermità, malattia, etc.). Tutto ciò per un servizio, quale la psicoterapia, al quale accedono solitamente fasce di popolazione ampissime e dalle più svariate problematiche, che si sarebbero trovate d’emblée a subire diagnosi psichiatriche (del DSM-IV) esclusive ed obbligatorie, con i suoi principi di natura statistici e bio-genetici sottesi.

Un vero incubo orwelliano imbandito sottosilenzio e fatto passare come democrazia sanitaria!

Ecco allora tornare il gioco della 4 carte: il principio di natura rimane sullo sfondo (diremmo che rimane inconscio) a dare forma alle politiche più retrive e oscurantiste, saldandosi con interessi, cordate, alleanze delle più diverse e contingenti.

Ed allora, affermare “in positivo”, cioè in senso affermativo, circa la natura umana, a dispetto di ogni necessaria incertezza antropologica, scientifica e filosofica, è diventato allora lo sport preferito del bio-potere o del teo-potere. Per usare una metafora informatica, definire in un senso o nell’altro la natura umana e i suoi principi di natura è come lavorare sul “sistema operativo” che faccia poi girare i software adeguati agli interessi di turno. E come vediamo, non è tanto il prefisso bio o teo che conta, quanto piuttosto il suffisso “potere” e la sua mera gestione.

Tracciare, ad esempio, demarcazioni nette tra normalità e patologia, tra naturale e innaturale, è un modo classico di ridefinire la natura umana.

Come accaduto nel dibattito sulla diagnosi della legge sulla psicoterapia, lo psicologo non sembra avere potere affermativo, ma solo il potere di veto, cioè di mettersi sacrosantamente di traverso e dire: “no, questo[2] è riduttivo”.

Si, va bene, ma cosa non è riduttivo?

Non si creda, ingenuamente, che gli psicologi si possano sentire esonerati dall’occuparsi di biopolitica[3] e possano illudersi di mantenere la comoda posizione di veto all’infinito senza mai mettere le mani in pasta.

Occorre prendere posizione e parola, ed anche chiaramente!

Ha qualcosa da dire la psicologia in questi dibattiti? E come può arricchirli, ampliarli, sottrarli al semplicismo e alle furberie.

Può cioè la psicologia, sulla base dei propri presupposti scientifici e culturali, assumere una posizione non riduttiva, non opportunista, e allo stesso tempo autorevole nel ridefinire e riproblematizzare i confini angusti che corporations, assicuratori, sanitari, religiosi ed altri ancora, vogliono tracciare circa la natura umana ed i suoi principi di natura o presunte invarianti antropologiche?

Noi crediamo di si.


[1] Della Natura Umana. Invariante biologico e potere politico (DeriveApprodi, 2005) dove e riportata la sbobinatura del confronto televisivo tra Noam Chomsky e Michel Foucault tenutosi ad Eindhoven nel 1971, e dei testi in appendice di Paolo Virno, Stefano Catucci , Diego Marconi.

[2] Avere un servizio di psicoterapia dello Stato che, per conto dei suoi funzionari del SSN, decide perché, come e quanto il cittadino debba vedersi erogare il servizio dello psicoterapeuta, avendo l’obbligo di una diagnosi di esclusiva competenza psichiatrica.

[3] Psicologia e Biopolitica, Luigi D’Elia, pubblicato su AP-Magazine 2007, traccia alcune linee di riflessione sugli impliciti rappresentazionali riguardo gli attuali “tipi umani”.




Sulle tracce della “patologia fondativa” della psicologia italiana

Prologo: un caso clinico

<<Caro dottore, lei mi ha chiesto la mia storia familiare, ma io ho davvero molte difficoltà a ricostruirla. Dei miei avi italiani ho perso le tracce, ho molti parenti stranieri, ma anche di costoro non ho grandi notizie e contatti.

La mia nascita è un vero mistero. So per certo che nessuno veramente voleva che io nascessi, sono nato indesiderato, almeno così immagino (altrimenti non riesco proprio a comprendere su quale patto o desiderio io sia stato concepito o forse… non voglio vederlo) e nel momento in cui mia madre era incinta, le famiglie dei miei genitori hanno dapprima fatto di tutto perché lei abortisse, e quando la gravidanza è andata avanti hanno posto una serie di condizioni e di vincoli mortificanti. Mio padre, poi, non s’è mai visto. Insomma, non sono stato affatto trattato alla pari dei miei fratelli. Quando sono poi nato, non le dico in quali condizioni impossibili sono cresciuto, la mia infanzia, un vero inferno, non esagero se le dico che per campare ho dovuto farmi schiavo della mia famiglia, come se fossi un figlio bastardo. Ho sentito odio, diffidenza, disprezzo da parte di tutti ed io stesso ne ho provato verso loro, ma anche (e forse soprattutto) verso me stesso, e per andare avanti mi sono dovuto adattare a fare qualunque cosa.

Si, dottore, la vergogna è il sentimento che provo più di ogni altro, ma anche rancore e risentimento, come potrà comprendere… non è bello sentirsi un intruso nella propria famiglia, non è bello sentirsi indesiderati e poi inibiti in ogni iniziativa e movimento, si finisce per ripiegarsi nella propria miseria.

Se lei poi mi chiede perché tutto questo, io non ho risposte>>.

Lascio ai molti colleghi che mi leggono, il piacere feticistico di sbizzarrirsi in ipotesi diagnostiche/prognostiche per questo povero paziente di cui vi riporto una breve vignetta clinica di una sua significativa autonarrazione.

Da questo fugace racconto, avrete certamente percepito la gravità, le difficoltà esistenziali del poveretto, e questo è sufficiente per comprenderne il dolore e la miseria in cui versa costui ed il suo bisogno di un lungo percorso di emancipazione personale. Non mi soffermo sui sintomi, che sono svariati e invalidanti, e che coprono molteplici “spettri fenomenologico-diagnostici”, ma anche qui: fate un po’ voi…

************

1. L’irrilevanza politica e l’autofagia

Gli sviluppi dell’ultimo anno in materia legislativa inducono a riflessioni più ampie sullo stato di salute della nostra professione. In particolare, il fenomeno AltraPsicologia la sua opera di positiva disarticolazione degli equilibri solidificati e la parte da essa giocata nella stesura della recente Legge sull’accesso alla psicoterapia (mi riferisco al fatto che uno sparuto gruppo di colleghi, ma in compenso molto soggettivizzato, riesca con successo e con mezzi propri a contribuire alla stesura di in una legge importante per gli psicologi). Inoltre, fa pensare anche la recente scoperta che il Parlamento italiano sia zeppo di proposte e disegni di legge che riguardano molto da vicino la nostra professionalità in ogni sua area, seppure questi stessi PdL e DdL giacciano, spesso non assegnati, nei meandri di Camera e Senato senza la necessaria spinta politico-culturale. Ecco dunque, partendo da questi due semplici fatti, per certi versi clamorosi, e che indicano chiaramente che tutto è ancora possibile, posso articolare ulteriori riflessioni su di noi psicologi.

Ulteriori riflessioni che si muovono a loro volta da altre due constatazioni relative a precipue condizioni della nostra comunità professionale che potremmo definire strutturali (cioè presenti da sempre, originarie) e “patologiche” (cioè motivo di svariate sofferenze per la gran parte dei professionisti):

1.    la prima condizione riguarda la debolezza e l’irrilevanza politico-sociale della categoria nelle politiche di sviluppo della stessa ed in termini d’incisività;

2.    la seconda condizione riguarda la prevalente cultura parassitaria che connota al proprio interno la nostra comunità professionale.

Queste due condizioni sono in qualche modo interconnesse in quanto una mancata espansione e sviluppo della psicologia verso la società produce conseguentemente un ripiegamento del mercato del lavoro al proprio interno in forme autofagiche: crescono gli iscritti alle facoltà, crescono gli iscritti all’Albo e gli allievi delle scuole, poco importa che fine facciano, l’importante è che paghino profumatamente la loro lunga formazione.

Chi entra in questo sistema impara prestissimo che l’unico modo per fare carriera, vista l’immane fatica ad accreditarsi presso un’utenza che riconosca la nostra funzione sociale, è quello di accreditarsi come formatore, presso altri colleghi, in genere più giovani.

Da queste osservazioni ne consegue che una professione fattivamente presente nel tessuto sociale e riconosciuta come tale da tutti verosimilmente non necessiterebbe di un collassamento delle proprie attività al proprio interno.

Ne consegue però anche che al fine del mantenimento delle condizioni patologiche di autosfruttamento (che evidentemente convengono a pochi) risulti necessario mantenere, gattopardianamente, molto basso il profilo della professione sul versante politico-sociale, in una circolarità viziosa facilmente intuibile da tutti.

Esercizio retorico dunque domandarsi come mai una categoria in netta crescita numerica (attualmente sono circa 60.000 gli iscritti all’Albo, nell’arco di 5 arriveremo a 100.000) riscuota da sempre un così scarso consenso, abbia un così basso peso socio-politico, sia così poco interessante per le agenzie sociali ed economiche, sia così debole nelle contrattazioni, sia sempre più evanescente ed ininfluente nei servizi pubblici (gli psicologi sanitari sono una specie in via di estinzione a guardare le politiche che si fanno nei servizi pubblici), sia così precarizzata nelle nuove generazioni, sia così poco tutelata e tutelabile, e così via.

Ciò che esorbita dalle più comuni analisi di sapore sociologico – e che dunque non ci accontentano – e che vedono questo come fenomeno diffuso in tutte le professioni è proprio il fenomeno del disinteresse e della debolezza strutturale della nostra professione presso la società civile e presso le istanze politico-sociali. Degli psicologi e della psicologia, fuor da metafora e in una terminologia icastica ma efficace, in definitiva non frega granché a nessuno. Nonostante la mole di proposte di leggi in ferme Parlamento.

Chi si affaccia nelle nostre faccende politico-professionali scopre immediatamente questa amara verità e noi stessi ne abbiamo fatto esperienza

Un’economia autoreferenziale, dunque, che rimanda ad una libido autoreferenziale, ad una ricerca autoreferenziale, ad una cultura autoreferenziale. Una presa per i fondelli in grande stile, tanto per non fare troppi giri di parole.

2. Lo scellerato patto fondativo della 56/89: <<non alzate la testa!>>

La mia ipotesi di fondo è che questo fenomeno (l’inconsistenza ed irrilevanza politico-sociale, intendo) non sia (solo) il prodotto di una pressoché totale mancanza di un pensiero politico e di sviluppo della categoria da parte dei nostri governanti interni, divenuti nel tempo casta burocratica, inutile e privilegiata, sacca di potere autogenerata ed autogemmata, ma anche e forse soprattutto di un “vizio iniziale” dovuto ad uno scellerato patto fondativo, consumato proprio in sede di istituzione della professione stessa.

Tale patto fondativo implicava, circa 20 anni fa, grosso modo il seguente assunto e mandato: Tu, figliolo, nascerai senza un vero nome e cognome e senza un precedente e compiuto pensiero di concepimento.

Vado allora ad osservare, seppure a grandi linee, la storia della nascita della professione.

Quando 18 anni fa il Parlamento Italiano licenzia l’agognata legge 56/89 per la Professione dello Psicologo e contestualmente dello Psicoterapeuta, già si poteva immaginare che questa povera creatura nascesse con qualche tara congenita e forse non avrebbe vissuto a lungo: nessuna esclusiva, tranne i test psicologici, ed il massimo della genericità. Alla psicologia e agli psicologi spetta palesemente una legge monca e vuota. Come mai?

La gran parte dei colleghi ai quali comunico la mia insoddisfazione sul risultato ottenuto dalla contrattazione che portò alla 56/89 e questo disagio relativo alla deludente parzialità della nostra legge istitutiva, in genere mi risponde grosso modo così: “per carità, non tocchiamo la legge, ci abbiamo messo tanto tempo, meglio una legge così-così che nessuna legge o una revisione che potrebbe portarci degli svantaggi”.

Se ne ricava l’idea che noi psicologi ci sentiamo già molto fortunati ad esistere e ad aver ottenuto una legge che istituisca la nostra nascita. Ma dietro questo atteggiamento non vi si riscontra certo una francescana letizia, bensì solo la prospettiva misera di chi è abituato ad avere da sempre ben poche aspirazioni e speranze, di chi è abituato insomma a vivacchiare. Ad i miseri, dunque, misere aspirazioni. Ecco il refrain di scuderia.

Non molti colleghi sanno che il travagliato percorso che condusse all’epoca alla formulazione della legge è il risultato di una lunga trattativa con molti soggetti politici in causa: le forze politiche partitiche, l’ordine dei medici, le istituzioni psicoanalitiche, gli stessi nascituri psicologi, divisi tra di loro (come al solito).

La mediazione fu laboriosa tra chi non intendeva dare corso al concepimento e alla nascita di questo nuovo soggetto ritenendolo o probabilmente inutile o pericolosamente concorrente, o entrambe le cose. Al esempio, psicoanalisti, medici, fascistoidi e cattocomunismi erano apertamente contrari alla nostra nascita

La cultura italiana pagava lo scotto del ventennio fascista (quello ufficiale, 1922-43), ma anche un ulteriore quarantennio di cattocomunismo, entrambi orientamenti politico-culturali che per motivi diversi non sentivano alcun bisogno di questa disciplina (e della professione ad essa connessa) portatrice di inutili dubbi e di pericolosi sospetti. Cosa mai avrebbe potuto aggiungere “lo psicologo” alle figure e funzioni sociali consolidate, riconoscibili ed affidabili del medico e del prete? Si pagava, in poche parole, la totale mancanza di laicità ed il provincialismo della cultura italiana, il suo atavico assoggettamento.

La convergenza che condusse al risultato finale della 56/89 non fu perciò semplice e si pervenne ad un compromesso per il quale la nuova “creatura” per poter finalmente nascere doveva sottostare a molte condizioni mortificanti: nessuna riserva professionale, quindi nessun atto tipico che ne caratterizzasse lo specifico, tutto rimaneva nel vago e soprattutto tutto doveva essere gestito in condominio con chiunque: consulenza, sostegno, riabilitazione, diagnosi, niente di sufficientemente definito e circoscritto. Al contrario tutto volutamente ambiguo e limaccioso. Una nascita in semilibertà vigilata, insomma. Basti pensare all’attualissima e nefasta ambiguità della funzione di counselling per comprendere, con un solo esempio, cosa stiamo ancora pagando (e pagheremo sempre più) a seguito della nostra cara legge 56/89. O basti pensare all’attualissimo tentativo in corso da parte dei medici di accreditarsi la diagnosi psicopatologica come esclusivo “atto medico” ed escluderci per sempre dalla possibilità di fare diagnosi in psicologia.

Non solo, conditio sine qua non fu proprio il famigerato articolo 3, che regolamenta la psicoterapia in condominio con i medici. Giusta regolamentazione, si dirà, dal momento che la psicoterapia è da sempre territorio anche della cultura medica, ed è competenza articolata e trasversale, peccato che per la formazione a questa nuova figura si sia prevista una formazione ad hoc – solo privata e a pagamento ovviamente (e qui si svela la natura dell’accordo) –  solo per gli psicologi e non per i medici per i quali si ritenne molto opportunamente (per loro, s’intende) che la specialità psichiatrica fosse sufficiente a produrre psicoterapeuti belli e formati.

Inutile dire che ogni persona di buon senso e ben informata sa che questa regolamentazione non ha alcuna base scientifica, né alcuna evidenza, beninteso, per chi conosce la gran parte delle attuali specialità in psichiatria, ma solo economicistica, e che uno specializzato in psichiatria troppo spesso non ha un’adeguata formazione psicoterapeutica (lasciamo da parte qui il tema la reale capacità formativa della gran parte delle scuole private e pubbliche di psicoterapia, che aprirebbe una parentesi troppo ampia).

Dunque un compromesso inaccettabile che prefigurava fin dall’inizio la subordinazione di una categoria rispetto ad un’altra per la medesima funzione pubblica.

Ma è solo l’inizio.

3. Una professione disegnata male

Occorre soprattutto aggiungere che questa stessa legge non delinea minimamente tutte le altre ed innumerevoli potenzialità della professione dello psicologo, ed anche questo taglio (diremmo scotoma), posto esattamente in fase fondativa, continua a produrre evidenti conseguenze disgraziate sulle nuove generazioni di psicologi.

La sanitarizzazione della professione di psicologo è stata in Italia originaria ed esclusiva, andava bene per chi cercava spazio nei servizi pubblici, e coloro che l’hanno voluta così concepire hanno fatto calcoli inesatti (per tutti gli altri a seguire) e comunque drammaticamente parziali, tagliando via ogni possibile sviluppo non-sanitario (bensì sociale o socio-sanitario) della professione, e scegliendo di collocare la professione sotto il protettivo e più ricco ombrellone/carrozzone sanitario dove gli evidenti vantaggi a breve termine di natura istituzionale e sociale si elidevano con quelli a medio e lungo termine e dove rimaneva incompleta ed inevasa la costruzione di una tipicizzazione professionale, che si colloca invece a latere, o al limite a complemento del servizio sanitario.

Dentro e fuori il servizio sanitario, era troppo concepire la professione in tal modo, prevedendo concretamente ruoli e funzioni dello psicologo nei servizi sociali, nelle maglie dell’organizzazione sociale e del lavoro? Evidentemente si, per i nostri fondatori, dal momento in cui s’è voluto assicurare ai futuri sanitari coperture e privilegi (con tanto di sindacato, finanziato dallo Stato e con tanto di burocrazia annessa e pagata), e s’è voluto di converso lasciare all’iniziativa privata negli anni successivi, ma in definitiva sine die, la vera costruzione della multiforme professionalità dello psicologo. Come a dire: cazzi vostri!

O dobbiamo invece supporre che i nostri fondatori fossero semplicemente ignari, ignoranti e/o miopi? Cosa che non li assolverebbe certo dalle loro responsabilità, ma ne disegnerebbe un profilo semplicemente basso.

O forse essi erano già troppo deboli, e non solo politicamente, per poter osare di fantasticare e progettare una professione realmente moderna e fattiva?

Di certo, nel disegnare la professionalità dello psicologo come prevalentemente sanitarizzata da parte dei nostri fondatori s’intravede già da questo momento fondativo la spiccata tendenza dei nostri politici-professionali – che si evidenzierà sempre più nel prosieguo delle faccende politiche – al più cinico “si salvi chi può”: coloro che dovrebbero rappresentare la comunità professionale in realtà non solo non ne hanno affatto una rappresentazione interna (giusto per usare per un momento un concetto psicologico), e quindi sono i primi che non se ne sentono parte, ma utilizzano il loro potere contrattuale del momento per gli esclusivi interessi di parte, se non personali e familistici. Ed è anche certo che chiunque tratti con psicologi a livello politico locale e nazionale conosce molto bene questa labilità di appartenenza, questa facile “corruttibilità” e questa ricattabilità dei nostri esponenti.

Deve ancora nascere un politico della professione, a livello di ordini, università o altro, che tenga a mente l’intera comunità e ne faccia, con il necessario orgoglio e con la necessaria combattività, i reali interessi?

Il mandato era dunque: oh psicologia, ti si concede di nascere, ma non devi alzare la testa, non puoi disturbare, non puoi crescere nella pienezza della tue possibilità (anzi, non puoi nemmeno conoscerle le tue possibilità), e visto che nasci contro il nostro parere, intanto comincia a pagare a titolo di risarcimento, e poi si vedrà.

Il mitologema di Cenerentola ci fa un baffo e sembra proprio essere stato inventato da uno psicologo! Si, ma con la differenza che questa Cenerentola-psicologa non è quel personaggio mite e malinconico che sublima il feroce risentimento verso matrigna e sorellastre combinando loro la peggiore delle vendette ed indulgendo poi in un ipocrita perdono, ma s’è piuttosto presto trasformata in una vera mignottella, resa immediatamente cinica dagli andazzi generali (in questo senso fa un po’ pena), pronta a darla a chiunque le prometta un giro di danza nel palazzo di turno. Altro che “i sogni son desideri”!

A noi, nell’una e nell’altra versione, questa Cenerentola ci disgusta!

Gli psicologi che si occupano di famiglie e di fenomeni transgenerazionali sanno bene che questi figli, nati senza un precedente e compiuto pensiero e desiderio di concepimento, seppure solo inconscio, hanno vita dura e a volte impossibile per via di pesanti od incerti mandati transgenerazionali. Essi cioè finiscono per disbrigare pratiche inevase, discorsi interrotti delle precedenti generazioni. Ed a volte queste pratiche e questi discorsi sono indigeribili ed inaccettabili per qualunque vita.

D’accordo, mi si dirà, quale figlio non svolge, volente o nolente, questo compito ingrato ed obbligatorio? Si, ma qui, in questo caso (clinico), ci troviamo di fronte a livelli di ambivalenza e di pasticcio elevatissimi. Non ci troviamo di fronte al romanzetto borghese, non si tratta cioè della mamma rimasta incinta, piena di vergogna per il frettoloso matrimonio riparatore, che poi accetta il proprio figlio (salvo poi trasmettergli il proprio disagio), no, qui siamo di fronte ad una finzione ed ad una negazione all’atto della nascita che fa pensare più ad un abbandono/non-riconoscimento alla nascita del figlio piuttosto che ad altro. È il figlio stesso che deve in qualche modo riparare alla sua nascita! La sua nascita cela un innominabile segreto di famiglia di cui egli stesso è muto forziere e sintomatica espressione.

Torniamo allora per un attimo al triste caso clinico citato all’inizio di questo lavoro.

Chi pensa, come me, che la mente sia estesa nello spazio sociale e nel tempo storico, sia dunque il prodotto di un campo sociale e storico ampio e articolato, anziché incapsulata, come spesso insegnano, nei circuiti neurologici o modulari e negli inconsci individuali prosciugati di senso e vagolanti nel vacuum di contesti culturali e politici, pensa anche che la realtà concreta ed immanente di ogni collega alle prese con la sua professione sia pesantemente informata precisamente da questo scenario d’incertezza, di vaghezza, di ignoranza, di disinvestimento attivo (mi si scusi l’ossimoro), e di converso di necessità di ancoramento a certezze, pseudo-identità posticce, di bisogno di conferma del proprio ruolo sociale, del proprio posto nel mondo in quanto professionisti, e così via. Un’ossessione identitaria che produce mostruosità, quella che ne consegue.

Quel povero caso clinico s’aggrappa come può ad una storia transgenerazionale che in realtà gli manca, sia realmente (non essendoci connessioni con campi storici autoctoni, pur esistenti), sia perché la ignora (essendo la psicologia moderna il punto d’arrivo di molte matrici culturali, anche politiche, di cui si perdono spesso le tracce) e che gli rimanda di continuo un’immagine depauperata di sé, mortificante, inutile.

Il vuoto di senso che risulta da tale vuoto storico ci dice del suo affanno, dei suoi innumerevoli sintomi e tratti disfunzionali, ma anche del suo desiderio di avere una casa, di sentirsi utile e riconosciuto/riconoscente da/per qualcuno.

E le Accademie, mi si dirà, che ruolo hanno in questo sfacelo?

Mah, non so, non dubito che vi sia qualcuno che si ponga il problema dell’identità e della rilevanza della professione, ma considerando che tra i docenti ci sono molti esuberi di cattedre di medicina e altre facoltà, considerando il livello medio di coscienza politica, considerando che il mondo accademico vive in una realtà economico-politica in parte parallela ed in parte sovrapposta a quella delle scuole private, non nutrirei allo stato attuale dei fatti molte speranza di riscatto in questi ambienti. Basta poi vedere con quale inconsistente formazione pratica e con quale gigantesco disorientamento vengono fuori nella gran parte dei casi i nostri neo-laureati che possiamo capire bene e risalire a quali siano le vere politiche delle nostre care facoltà di psicologia.

4. Lo scenario cambia rapidamente: cronaca di un disastro annunciato

Ma torniamo alla storia della professione.

All’epoca della legge e poco dopo, gli psicologi italiani sono davvero pochi, circa 10.000 in tutta Italia (contro i 60.000 di oggi ed i 100.000 tra pochi anni), di cui solo circa una metà lavorano effettivamente come psicologi talora entrando per vie traverse nei nuovi e vecchi servizi socio-sanitari. Questa generazione intraprende con successo, da brava creatura handicappata e desiderosa di vivere, un’estenuante lotta per la sopravvivenza e per l’affermazione, legandosi in maniera più o meno ancillare alle tradizioni locali di cura e assistita, in un secondo tempo, dal sindacato dei sanitari AUPI che li inquadra nella dirigenza sanitaria. In questo modo molti colleghi riescono ad avere il posto presso le ASL facendo i concorsi pubblici: all’epoca, fino agli inizi del ’90, accadeva addirittura questo; da allora ad oggi non si parla più di turn-over o nuovi posti pubblici, concorsi ce ne sono pochissimi e lavorare come dipendente della sanità è un miraggio; chi è entrato allora ha chiuso a chiave e con doppia mandata la porta alle proprie spalle. E, come al solito, chi s’è visto, s’è visto.

Intanto, poco dopo, agli inizi degli anni ’90, la nascita successiva dell’Ordine prefigura un futuro di sviluppo e regolamentazione, ma anche di tutela (non si sa bene de ché, ma comunque…) obiettivi istituzionali, è inutile ricordarlo, largamente disattesi, visto il basso profilo che la nostra classe dirigente s’era dato fin dall’inizio.

Questa generazione di colleghi (quella degli over-50) e questo sindacato sono coloro che attualmente – e da sempre – governano la nostra professione e sono, senza ombra di dubbio i diretti responsabili politici e morali degli sviluppi successivi: una schiera di rappresentanti flosci, ricattabili ed opportunisti, che vorremmo noi tutti mandare a casa il prima possibile, senza rancore e senza vendetta, ringraziandoli persino del pochissimo che hanno fatto, ma il prima possibile a casa, per favore!

Dunque, ripetiamolo ancora, il patto di nascita è stato chiaro fin dall’inizio: non fate rumore, non alzate la testa, non accampate diritti, mantenete un profilo basso e dimesso. Sono le condizioni di concepimento e di nascita a richiederlo.

E i nostri cari colleghi fondatori e poi governanti della categoria si sono scrupolosamente attenuti a tali direttive e si sono ben guardati dal trasgredire questo mandato. Una categoria mite e dimessa, anche nei suoi rappresentanti istituzionali, buona come armento da latte o da macelleria. L’istituzionalizzazione della codardia.

Anche quando negli ultimi 10-15 anni lo scenario si trasforma con una certa rapidità: le facoltà di Psicologia dalle due iniziali che erano (Roma e Padova) si moltiplicano rapidamente e si distribuiscono su tutto il territorio nazionale e cominciano a sfornare laureati nell’ordine delle diverse migliaia. Alcune di queste facoltà sono del tutto impresentabili e gestite da un prevalente corpo docente di tipo medico. L’Ordine nel frattempo non riesce (o non vuole, o non ha interesse) a fermare o a regolare il flusso di iscritti, come sarebbe stato logico fare per una professione “normale”, e non si coordina adeguatamente con l’università e con la politica per andare a definire non solo sbarramenti in ingresso, in itinere ed in uscita, ma anche cicli formativi e titolarità effettive per i nuovi colleghi e di conseguenza reali sbocchi lavorativi. Del resto il sindacato, che era stato in grado di gestire i primi anni della professione e, come detto, l’inquadramento di qualche migliaio di colleghi nel Servizio Sanitario sembra, di fronte alla complessificazione del quadro, fa sempre più spallucce e ancora una volta… chi s’è visto, s’è visto. Quello che è accaduto dopo, cioè l’assoluta deregolamentazione e aggressione ai confini subita dai colleghi giovani allo sbaraglio non solo rappresenta la logica conseguenza di tutto ciò, ma non importa nulla a nessuno (a quanto sembra nemmeno agli stessi colleghi allo sbaraglio ed illusi, compenetrati oramai nel ruolo-identità dell’armento da latte o da macelleria).

Siamo di fronte ad un pervasivo disinvestimento ideativo e fecondativo che concepisce miseramente la nostra nobile professione fin dalle sue radici formative, dalle incertissime basi universitarie, per proseguire nella terra di nessuno dei tirocini formativi pre e post-lauream, per procedere nella pericolosa (e costosa!) jungla della formazione post universitaria, e che finisce, dulcis in fundo, nell’inconsistenza politica ed inefficienza dei nostri ordini.

Sulle motivazioni storiche di questo disastro due ci sembrano le più probabili:

1.    il mercato interno della formazione diventa nel frattempo sempre più ricco, ghiotto e allettante per tutti (docenti universitari e privati, consiglieri degli ordini, scuole e suolette-fungine varie, sempre più un ottimo business, etc.)

2.    la lungimiranza politica e la capacità di pianificazione e la sensibilità dei nostri governanti riguardo i nuovi scenari professionali si approssima allo zero

Al lettore stabilire la motivazione più convincente o magari anche l’insieme combinato delle due.

Diciamo allora che la ricerca di senso che contraddistingue gran parte delle scelte di chi intraprende questo percorso formativo professionale e umano s’è presto trasformata nel senso del tornaconto parassitario di pochi sulle spalle dei tanti. Alle nuove generazioni di colleghi spetterà ben presto un futuro certo di precarietà, di dequalificazione formativa, di disoccupazione-sottoccupazione, di titoli di cartone e di improbe fatiche per la sopravvivenza in una jungla impossibile ed ingiustificabile.

Si aggiungano a questi altri fattori ed altre tendenze sociali più generali per i quali si assiste ad un disinvestimento dal basso e ad un crescente disinteresse per la partecipazione democratica alla vita delle istituzioni e della politica (il 27% la percentuale media nazionale di votanti alle ultime elezioni ordinistiche), sicuramente incoraggiato da una classe politico-professionale sempre più innaturalmente annidata nelle proprie sacche di potere e privilegio, sempre più incollata alle poltrone e sempre più scollata dai bisogni della base, sempre meno interessata, in perfetto stile antidemocratico, a coinvolgere la comunità professionale (piuttosto ben pronta e scattante ad autoprorogarsi e a cambiare a proprio vantaggio i regolamenti elettorali, senza che questo produca scandalo), e di converso sempre più devota alle proprie clientele rappresentate dalle scuole di formazione in psicoterapia, i loro docenti ed il corteo adorante dei loro allievi, ben pronti questi ultimi a barattare il proprio congenito disturbo d’identità professionale con un’identità professionale nuova di zecca, bella che sfornata calda-calda dalla scuola di turno: lo psicoterapeuta! Boom! Si, disoccupato. E qualche favoruccio qui e là, giusto per galleggiare ancora un po’.

Disinformazione, disinteresse, disaggregazione, impotenza, ignoranza, sono il cocktail letale creatosi negli ultimi anni che fa sì che se si prova, ad esempio, a chiedere in forma random ad un giovane collega (ma non solo), cosa è l’Ordine, come è composto, a cosa serve, se può migliorare la sua vita professionale, si vede in genere comparire sul volto della/del collega l’espressione inebetita di chi sta interloquendo con un eschimese.

Altro indicatore “sintomatologico” preciso è l’irrilevanza della cultura italiana accademica e specialistica a livello internazionale, l’assoluta assenza o drammatica carenza di un settore di ricerca in psicologia, di centri di eccellenza, etc. Provate a cercare la ricerca italiana in psicologia nei testi internazionali…

Viene detto, e a ragion veduta, che non c’è categoria nella quale la maldicenza tra colleghi ed il narcisistico disprezzo del collega sia così diffuso come la nostra: ebbene, qui questo disprezzo assume dimensioni sociologiche in quanto non s’è mai vista una comunità che tratta i propri colleghi più giovani come carne da macello lasciandoli allo sbaraglio e illudendoli di chissà cosa, esprimendo in tal modo il massimo disprezzo immaginabile.

La collusione degli apparati istituzionali, tenuti insieme da medesimi interessi economici, da inerzia e da manifesta incapacità frena ogni politica di sviluppo e rigore, si aprono le dighe e si comincia a sbranare la preda.

Il vettore del cosiddetto sviluppo della professione segue perciò fin dall’inizio direzioni demenziali ed anziché aprirsi al sociale e cercare nuove articolazioni di una professione potenzialmente infinita, segue la direzione dell’auto-sfruttamento interno alla comunità che risulta più comodo e redditizio: università sempre più affollate, 305 sedi di scuole di psicoterapia, supervisioni, master e corsetti, analisi didattiche, tirocini, etc… Il tutto sempre più fuori controllo, il tutto sempre più an-etico.

Non v’è da stupirsi quindi che in questa profonda crisi culturale in atto la Psicologia sembri sempre più smontarsi pezzo-pezzo e svendersi a counselors, mediatori, filosofi, medici, etc., invece di diventare polo d’interesse per utenti, amministratori e politici. La domanda potenziale di Psicologia, testimoniata dalle numerose Ddl e Pdl ferme in Parlamento che prevedono la nostra opera, viene dunque lasciata cadere.

Le migliaia di colleghi che continuano ad uscire incomprensibilmente dall’Accademia non sono informati (né fermati) in tempo utile della situazione “comatosa” della professione, sovente non hanno orientamento e direzione e sono destinati a lunghissimi anni di precariato e spesso a cambiare lavoro.

La Psicologia è frammentata in mille piccole comunità locali e non si riconosce in comuni denominatori e in rappresentanti significativi.

La rilevanza sociale della Psicologia, che dovrebbe aumentare in funzione della complessità sociale, in realtà diminuisce sempre più.

Attualmente gli iscritti agli ordini sono 60.000. Secondo alcune attendibili stime, la crescita degli iscritti agli ordini cresce del 15-20% annuo e tra 5 anni saremo 100.000, tra 10 anni 140.000, uno psicologo ogni 620 cittadini (lo psicologo condominiale diventerà il futuro occupazionale…). In parallelo a questa crescita demografica, crescerà la disoccupazione in proporzione, attualmente già attestata a cifre alte se si considera che gli iscritti all’enpap sono solo 25.000 su 60.000, ma tra 5-10 anni di sicuro due iscritti su tre non lavoreranno da psicologi.

A monte di queste drammatiche cifre non s’intravede alcuna iniziativa significativa per fermare questo Titanic annunciato.

Occorre urgentemente ritrovare un’unità d’intenti e di direzione politica per la professione. Ma non v’è dunque alcuna attività di politica professionale possibile e probabilmente nemmeno alcuna attività professionale tout court se non ci si riconosce intorno a comuni matrici e se non c’è una presenza sociale incisiva.

Ci si domanda allora legittimamente: esistono veramente questi vaneggiati denominatori comuni della professione di psicologo? Esiste davvero questa presunta comunità professionale? Oppure non esistono matrici comuni e ci dobbiamo rassegnare a perire o a frantumarci in cento pseudoprofessioni? Oppure questa storia della comunità professionale si tratta solo di un delirio, anche piuttosto strutturato, di AltraPsicologia e di alcuni suoi esponenti che non si vogliono rassegnare una volta per tutte a navigare nelle medesime acque torbide e puzzolenti di sempre e si ostinano inutilmente e tracotantemente a voler cambiare il corso della storia?

Cos’è più “pericoloso” in AltraPsicologia, che non ci riesca o piuttosto che ci riesca?

5. Riscrivere e rifondare

Il curioso ed imprevisto fenomeno AltraPsicologia

Ci troviamo allora, alla luce di quanto fin qui detto, di fronte al seguente scenario:

q       un concepimento ed una costruzione insufficienti e insoddisfacenti della professione

q       la rinuncia/incapacità originaria da parte dei nostri fondatori istituzionali alla caratterizzazione delle coordinate professionali

q       un inesistente patto sociale della comunità professionale con la collettività dei cittadini nei termini di impegno concreto in ogni presidio istituzionale e sociale

Il “programma” di AltraPsicologia a fronte di quanto fin qui detto è presto detto ed è molto semplice: rifondare la Psicologia, riscriverne le regole, le leggi, effettuare un ricambio generazionale, attivare la partecipazione democratica, invertire la deleteria tendenza alla delega in bianco ai rappresentanti istituzionali, mettere al centro l’etica professionale ed il rigore dei nostri cicli formativi pre e post lauream, aggregare e catalizzare, investire nella ricerca come volano e come istanza di cambiamento, attingere alle enormi risorse interne della professione, alle sue esperienze eccellenti, ai suoi saperi sul campo e metterle in circolazione.

Non illudiamoci, ci vorranno molti anni.

A due anni e mezzo dalla nascita ufficiale di AltraPsicologia è allora troppo presto per fare bilanci e tirare le somme. Ogni tanto però provo a guardare a questa esperienza con un certo distacco.

Mi capita talora di fare un pensiero a proposito di AltraPsicologia ed i suoi componenti: metti insieme una dozzina di colleghi in tutta Italia, di varia estrazione, tra i 27 e i 40 anni, senza alcuna conoscenza precedente della politica professionale, che si danno come compito il rinnovamento della professione e collateralmente tutti gli altri compiti: informare i colleghi e svelare gli inguacchi, coinvolgere altri colleghi, fare esperienza ordinistica, creare un interesse intorno alla psicologia, etc., ed ecco pronta in men che non si dica una classe dirigente infinitamente migliore, più colta, più preparata, più etica, più efficiente e fattiva di quella precedente (quella, per intendersi, che ha mandato in rovina la nostra professione).

Sto esagerando?! Sto semplificando?! Vi assicuro, colleghi, niente affatto!

Niente di autocelebrativo, per carità, AltraPsicologia è davvero un gruppo qualunque di colleghi, per nulla speciali, pieno di limiti oggettivi e soggettivi, messi insieme in modo random da un comune disagio. Solo che si tratta di un gruppo (che pensa e lavora come gruppo, e già questa è una assoluta novità nel nostro panorama) che non accetta passivamente lo stato di gravità della professione e che possiede un profilo etico mediamente più alto dei nostri governanti. Tutto qui.

Se aggiungo poi la constatazione che tutto questo nasce spontaneamente dal nulla, senza padrini e santini alle spalle, a costo zero, o meglio, solo sul volontariato e la gratuità di questi pochi colleghi, beh, ci si rende conto di trovarsi di fronte ad un raro e curioso fenomeno sociale.

[Certo, qualcuno potrebbe giustamente osservare che ci vuole davvero poco per fare meglio di quanto fatto fino ad ora… È vero, effettivamente non si può proprio fare di peggio!]

D’altro canto, constatata la reale (in)consistenza delle nostre istituzioni, nonché l’inutilità di condurre battaglie dall’interno di questo mondo “bromurizzato”, AP propone ai suoi sostenitori l’autorappresentanza come forma di strategia e comunicazione sia all’interno che all’esterno, nei vari contesti politici e culturali in cui si trovi ad agire. Autorappresentanza vuol dire essenzialmente scavalcamento e trascinamento: scavalcamento dell’indolenza e delle ingiustificate cautele ed introduzione di nuove forme di azione attraverso una negoziazione diretta e non mediata sia con i colleghi sia con la politica nazionale e locale, precorrendo con iniziative, proposte e progetti concreti ciò che ci auguriamo la categoria faccia a seguire; trascinamento degli imbarazzanti rappresentanti istituzionali verso le nostre posizioni ed iniziative.

Gli scenari futuri professionali sono pieni di incognite:

  • Da una parte non si comprende che fine faranno gli Ordini e l’eventuale ruolo futuro che potrebbero assumere. Tutto ciò mentre (sopra)avanzano nuove professioni che invaderanno ancor più i nostri specifici territori spesso con ancora minore qualità.
  • Dall’altro in Italia non esiste ancora un associazionismo qualificato nel panorama della Psicologia che si proponga come alternativo allo strapotere-impotente degli Ordini. Non esistono idee rifondative nella professione, ma solo l’estremo tentativo dei soliti noti si avvinghiarsi alle loro poltrone e ai loro privilegi.

La consolidata passività di molti colleghi e il loro consolidato sentimento d’insensibilità verso una necessità d’interfaccia politica, sembra essere dunque la controprova di questa crisi culturale della Psicologia e che sembra fare il gioco della frammentazione e dell’eclissi della presenza degli psicologi nella società.

L’unica speranza per il nostro futuro è quella di proseguire l’opera cominciata da AltraPsicologia e ritrovarci tutti in nuove forme di condivisione, di comunitarismo professionale, di partecipazione e ricostruzione a partire dalle macerie.

AP, come detto, ha partecipato recentemente alla stesura di una PdL parlamentare sulla psicoterapia che è confluita nel testo unico attualmente in discussione nella XII Commissione Affari Sociali, ha ancora una volta trascinato le istituzioni della nostra categoria a difenderla contro i vergognosi emendamenti dei medici; attualmente sta lavorando ad un’altra PdL sulla Psicologia Scolastica assieme ad altri 30 colleghi di tutta Italia; ha in cantiere altre idee ed altre proposte sullo psicologo di base e sui servizi di psicologia.

Ma tutto ciò ha bisogno del sostegno attivo e della partecipazione dei colleghi, della loro fiducia nel futuro della nostra professione, nella riattivazione virtuosa di un rinnovato sentimento di orgoglio e appartenenza.

Senza sostegno, partecipazione e fiducia rimarremo deboli ed impossibilitati a portare avanti la riforma che abbiamo appena cominciato a proporre.




Rapporto psicologi/medici sulla psicoterapia: contro-lettera aperta ai legislatori

I DATI SONO STIMATI SULLA BASE DI INDICATORI FNOMCEO, ORDINE PSICOLOGI, SOCIETA’ ITALIANA DI PSICHIATRIA, MIUR

STATO ATTUALE 2007

PSICOLOGI                                                     60.000

PSICOLOGI PSICOTERAPEUTI                        25.000

MEDICI                                                          330.000

MEDICI PSICOTERAPEUTI                               10.000

MEDICI PSICOTERAPEUTI ART.35                     1.000

MEDICI PSICHIATRI                                           7.000

INCREMENTO ANNUO

ANNUO            QUINQUENNALE

PSICOLOGI                                                   8.000                        40.000

PSICOLOGI PSICOTERAPEUTI ART.35           4.000                        20.000

MEDICI                                                          7.500                        37.500

MEDICI PSICOTERAPEUTI                                600                          3.000

MEDICI PSICOTERAPEUTI ART.35                    100                             500

MEDICI PSICHIATRI                                          250                          1.250

PROIEZIONE 2007 – 2012 – 2017

2007                  2012                             2017

PSICOLOGI                                        60.000                100.000                       140.000

PSICOLOGI PSICOTERAPEUTI           25.000                  45.000                         65.000

MEDICI PSICOTERAPEUTI                  10.000                  13.000                        16.000

MEDICI PSICOTERAPEUTI ART.35        1.000                    1.500                         2.000

MEDICI PSICHIATRI                              7.000                    8.250                         9.500

RAPPORTI

2007                        2012                    2017

TOTALE PSICOTERAPEUTI                  35.000                        58.000                   81.000

DI CUI PSICOLOGI                               25.000                        45.000                   65.000

DI CUI MEDICI                                     10.000                        13.000                   16.000

RAPPORTO PSICOLOGI/PSICOTERAPEUTI  42%                        45%                  47%

RAPPORTO MEDICI/PSICOTERAPEUTI          3%                          4%                   5%

Si ringrazia il Dott. Luca Pezzullo per la raccolta e l’elaborazione dei dati

Chiunque osservi questi dati si può rendere conto di come la forbice tra psicologi e medici all’interno della professione psicoterapeutica tenderà sempre più ad allargarsi a favore degli psicologi, che già ora sono la netta maggioranza ma che col passare degli anni lo diventeranno sempre più.

La Proposta di Legge sulla Psicoterapia, che pure ci auguriamo sia approvata, determinerà di fatto -se passerà nella formulazione proposta con il più recente testo unificato – un’inammissibile sproporzione di potere tra le due categorie professionali implicate nella medesima funzione pubblica, in quanto l’articolo 2 del suddetto testo unificato prevede che la fase diagnostica sia espletata da parte di uno psichiatra o di uno psicologo clinico del servizio pubblico, e noi tutti sappiamo quale sia la proporzione nei servizi della salute mentale tra le due categorie. C’è, inoltre, il comma 5 dello stesso articolo 2 del testo unificato che prevede sia il Servizio Pubblico, unilateralmente, a stabilire progetto e durata dell’intervento.

Si realizzerebbe così qualcosa che nessun clinico che si rispetti opererebbe mai e poi mai: ci sarebbero dei “diagnosti” (quasi tutti medici) che stabiliscono per filo e per segno cosa debba fare il terapeuta convenzionato (quasi sempre uno psicologo, come dimostrano i dati su citati) relegato a mera parte esecutiva, in assoluta mancanza di autonomia professionale e soprattutto di contrattualità terapeutica con il paziente: una vera e propria parodia dell’intervento psicoterapeutico. Abbiamo chiesto un emendamento a questo ingiustificabile comma 5 dell’art.2 e confidiamo che il prof. Cancrini, assieme alla Commissione Parlamentare, ci presti ascolto e lo modifichi.

Ora, a sentire il Dott. Mottola e la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), i medici chiedono addirittura – con la lettera aperta che abbiamo pubblicato – (e come una sorta di ritorsione per la recente sentenza del Consiglio di Stato sulla psicologia clinica a loro sfavore), di negare agli psicologi la possibilità di eseguire diagnosi finalizzate alla cura psicoterapeutica.

Siamo veramente alla farsa! Un professionista ritenuto abile alla cura non potrebbe, secondo questa logica, essere in grado di effettuare una diagnosi, atto preliminare alla cura stessa! Veramente ridicolo e illogico, buono come boutade.

E’ diventato un assurdo giochino di potere che nulla ha che fare con la salvaguardia dell’utenza, con la serietà professionale e scientifica e, a questo punto, neanche con la posizione della legge.

Il punto cruciale è, come al solito, l’argomento trito e ritrito della diagnosi differenziale medica, che in realtà è solo fumo negli occhi per il legislatore dato che qualunque clinico di formazione psicologica conosce molto bene i limiti del proprio intervento ed è perfettamente in grado di valutare l’opportunità di inviare il proprio paziente ad un medico per approfondimenti clinici che escludano la presenza di una patologia organica. Tesi resa ancora meno pregnante dal fatto che ogni cittadino usufruisce gratuitamente del supporto di un medico di base a cui spetta già il compito di occuparsi della diagnosi relativa ai disturbi organici del proprio paziente.

Se ora la FNOMCeO intende giocare con la parola “diagnosi” lo faccia pure. Noi non ci stiamo e semmai lavoreremo nella direzione di sostenere la più proficua collaborazione tra medici e psicologi anche in ambito diagnostico, per cui ognuno compia la sua diagnosi senza sconfinare nella beata onnipotenza medica celata dietro la diagnosi differenziale.

Il Dott. Mottola nella stessa lettera aperta cita la 56/89 contro se stesso in quanto essa recita: “La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti  conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazioneriabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità”). Il fatto che non si parli di diagnosi differenziale non significa in nessun modo che essa sia necessaria per effettuare un valido intervento psicoterapeutico. E dato che la diagnosi, secondo la legge, è prerogativa di psicologi e psichiatri, si rassegnino gli amici medici ad accettare che la salute mentale non è un territorio di conquista.

Quando gli argomenti scientifici sono usati con questa modalità “elastica” e diventano strumentali a giustificare posizioni di presunto potere istituzionale viene da pensare che si cerchi di salvaguardare esclusivamente una posizione corporativistica e null’altro.

Ci sarebbe da chiedere, piuttosto, al legislatore (come fa la collega Sciubba in un recentissimo articolo pubblicato su AP, ndr) secondo quale ratio formativa uno specializzato in psichiatria risulti abilitato ad esercitare la psicoterapia, non avendo egli svolto una formazione specifica e non avendo superato alcun esame di stato che riguardi questa professionalità.

Rifletta, infine, il legislatore sui dati qui riportati e consideri quanto sia sensato formulare un testo di legge che, nelle parti qui citate, sia manifestatamente avverso alla principale categoria che dovrebbe applicarlo.

Luigi D’Elia per Redazione di AltraPsicologia

Ultim’ora!

08/10/2007  – Sono stati accolti (anche, ndr) gli appelli proposti dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi contro il Ministero dell’Istruzione e contro quattordici Università che hanno attivato Scuole di Psicologia Clinica aperte ai medici, annullando sia il Decreto Ministeriale del 2005 che inserisce la Psicologia Clinica tra le specializzazioni nell’area medica, sia gli statuti e i bandi di accesso alle singole scuole universitarie che prevedono l’ammissione dei  medici ai relativi corsi. Risulta confermato, in buona sostanza, l’orientamento su cui si era attestato il Consiglio di Stato nel 2004 quando, con la sentenza n. 981, fu annullata la previsione di accesso ai medici alla Scuola di Psicologia Clinica dell’Università di Padova.




Note e digressioni su: Homo Consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi. Di Zygmunt Bauman

Note e digressioni su:

Homo Consumens.

Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi

di Zygmunt Bauman

(Edizioni Erickson 2007, 101 pagine, 10 €)

Luigi D’Elia

Pagine inquietanti queste ultime di Bauman, scritte, come solitamente, con la paradossale leggerezza e l’occhio disincantato dello studioso che sembra ormai parlare da un luogo altro, più elevato. Saranno forse i suoi ottantadue anni, sarà forse la facilità e semplicità con la quale questo autore scrive, uscito oramai da tempo dalla nicchia degli autori di settore e di culto per diventare autore di un pubblico ampio e alquanto avvisato, ma l’inventore della “modernità liquida” e dell’”amore liquido”, lo spietato osservatore degli stili di vita della post-modernità ci stupisce ancora una volta donandoci questa raccolta di 5 recenti conferenze “italiane”, delle quali le prime due (1. Mode volatili. L’irresistibile impulso a consumare e trasformarsi; e 2. Lo sciame inquieto. Dall’homo politicus all’homo consumens) conservano una diretta relazione con il titolo del libro, mentre le ultime tre conferenze (3. Mixofobia. Alla larga dai poveri; 4. Risentimento. Quando il pericolo è dentro le mura; e 5. Welfare assediato. Sono forse io il custode di mio fratello?) argomentano alcune delle ricadute sociali della società consumens.

Il campo sociale negli ultimi decenni

Già Deleuze e Guattari, nella loro irripetibile opera L’Anti-Edipo[1], datata 1972, avevano dichiarato che non v’è alcuna differenza tra investimento libidico ed investimento economico-politico, e che ogni investimento libidico esiste unicamente in un campo sociale. Ponevano in tal modo, senza equivoci e sconti, il campo sociale e le sue caleidoscopiche leggi (che essi individuavano nei meccanismi desideranti) al centro di ogni analisi sull’uomo.

Essi, però, nel descrivere l’uomo ed il mondo dell’epoca del capitalismo, ne attestavano probabilmente anche il tramonto, se consideriamo che negli ultimi 35-40 anni è passata molta acqua sotto i ponti e sono cambiati un bel po’ di scenari, indispensabili per la comprensione di alcune trasformazioni che questa ulteriore riflessione di Bauman ci illustra invece come testimonianza viva e attualissima.

Molti i mutamenti di scenario, dicevamo, il principale dei quali è probabilmente il modo di produzione e la natura stessa delle attuali logiche economiche che sorreggono i sistemi globalizzati. L’Anti-Edipo disegna ancora, seppure al tramonto, un mondo di “produzione” ed una “società di produttori” ed i processi di coagulazioni identitarie e sociali ad essa connessi; i testi di Bauman, e questo in particolare, raccontano un mondo in cui l’economia capitalistica della produzione ha lasciato il posto al mondo dell’economia del consumo, una società post-industriale, la <<società dei consumatori>>.

A cascata ed adiacentemente a questa macro-mutazione, molte altre (non che gli attuali sviluppi non fossero stati già ampiamente annunciati nel passato e non vi fossero le premesse tendenziali delle attuali società[2]) – descrivo qui sinteticamente solo alcune tracce – il mondo della tecnica e dell’economia, intimamente saldati, non avevano ancora dato 40 anni fa prova di tutta la loro potenza pervasiva negli ambiti della comunicazione mediatica, dell’informatizzazione, nella costellazione continuamente mobile dei linguaggi ad essa legati, ma anche nell’estensione dei mercati, nell’applicazione sistematica delle macchine belliche pubblicitarie e propagandistiche della politica e dell’economia. Accanto a ciò, ancora, negli ultimi decenni, i vistosi cambiamenti delle forme e rappresentazioni del lavoro, della giustizia sociale, delle istituzioni, della famiglia, delle relazioni tra i sessi e le generazioni, e così via. Fino a giungere, non in sequenza, ma sempre in adiacenza, a ciò che Foucault, nella sua ultima ricerca sulle tecniche del potere, definisce come tecnologie del sé, all’ermeneutica del soggetto contemporaneo, iscritta anch’essa all’interno di una ineludibile “governamentalità”, mi riferisco cioè all’effetto di penetrazione nella cura e rappresentazione di sé, degli apparati socio-culturali della nostra epoca.

Scrive a tal proposito Bauman: <<Il segreto di un sistema sociale duraturo, cioè in grado di riprodursi, è la sua capacità di proiettare i suoi “prerequisiti funzionali” nei comportamenti dei suoi membri. In altre parole, la socializzazione efficace è quella che obbliga/induce/persadue gli individui a desiderare di fare quel che il sistema, di fatto, ha bisogno che essi facciano per continuare ad esistere […]. Quando questi modelli (comportamentali, ndr) sono stati osservati e assorbiti fino a diventare automatici, gradualmente i modelli alternativi e le capacità necessarie per metterli in pratica spariscono. Questa è la fase della modernità liquida, cioè della società dei consumatori>> (p. 42-43).

Ecco allora che il cerchio sembra inesorabilmente stringersi in uno strangolamento che ha progressivamente piegato le potenziali “macchine desideranti” individuali e sociali in meri unità o collettività di consumo.

L’homo consumens e le sue peculiarità

Bauman non ha molti dubbi, l’identità consumista è di gran lunga quella dominante, quella che delinea il carattere dell’uomo contemporaneo (almeno occidentale), il paradigma che informa maggiormente di sé i suoi stili, pensieri, emozioni e comportamenti.

Ma quali sono le caratteristiche perlopiù inedite (in relazione ad altre epoche storiche) della società dei consumatori e dei suoi membri?

L’homo consumens che si muove sugli scenari tecno-sociali del capitalismo avanzato e della società consumens sembra orientarsi su un campo piuttosto saturo di domande e risposte, un campo di necessaria alta prevedibilità, ma anche di grande deresponsabilizzazione, egli sembra aver posto l’equivalenza tra il sentimento di libertà e quello di scelta: scelta tra le diverse offerte del mercato che coincidono con altrettanti orientamenti pseudo-esistenziali, ed in tali pseudo-opzioni egli ha disciolto e neutralizzato la propria idea di libertà. Questa equazione tuttavia si mostra presto ingannevole ed effimera in quanto costringe a seguire la medesima tendenza invocata dal mercato stesso, cioè la tendenza all’obsolescenza degli oggetti simbolicamente e socialmente carichi, obsolescenza imprescindibile per la continuità del sistema economico. Lo stile di vita che ne consegue e che trae forma è quello, continua Bauman, della continua rinascita, della riconfigurazione di sé, del disprezzo del passato, della perenne insoddisfazione, dell’illusione di un controllo onnipotente sulla propria vita.

Il bisogno di controllo assume forme, diremmo noi, ansiose, anticipatorie, occorre cioè “giocare d’anticipo” sulle tendenze del mercato in quanto solo così è possibile per l’homo consumens conservare una propria continuità autobiografica ed un senso di adeguatezza. Una certa urgenza ed emergenza prendono il sopravvento, accompagnate, osserva Bauman, dalla rapidità dei cambiamenti, ma soprattutto dalla necessità di obliare il prima possibile gli oggetti precedenti divenuti sorpassati (disinvestiti), ma anche, per estensione, le situazioni relazionali, le precedenti agglomerazioni identitarie. Tutto sembra funzionare per agglomerazioni temporanee che si succedono con una rapidità ed una quantità simile alla enorme mole d’informazioni e comunicazioni dei media, anch’essa tale da doversi necessariamente e drasticamente selezionare ed obliare.

In tal fluido in cui noi tutti nuotiamo chi si ferma è perduto, è vietato cioè sfuggire alla tirannia del presente fermandosi in un’identità stabile, in stili di vita sobri, disimpegnati dalla corsa, pena l’esclusione certa da ogni processo sociale, e dunque da ogni criterio di idoneità sociale e personale.

La forma assunta dalla temporalità, come cioè viene declinato e vissuto il tempo dell’homo consumens, ci racconta del crollo della dimensione dell’attesa, della sospensione, del differimento (il tempo del pre-conscio, come direbbero gli psicoanalisti), per far posto ad una bassa tolleranza delle frustrazioni, ma anche dei conflitti che, come ci avverte Bauman, richiedono tempo e pazienza per essere affrontati. Tempo e pazienza non ce n’è più per nessuno.

Il flusso veloce del tempo corrisponde quindi al passaggio rapido degli oggetti, ma anche alla costante mobilità dei legami sociali e delle identità intercambiabili, ci si ritrova dunque a re-inventarsi dentro nuovi contenitori sociali, dentro nuovi amori, dentro nuovi stati mentali, dentro nuove rappresentazioni di sé.

Il mondo appare allora come un enorme <<contenitore di parti di ricambio>> dove rifornirsi di continuo per modellare e aggiustare la propria immagine, ideale, rappresentazione di sé e degli altri, per integrare il proprio bagaglio di gadgets ed umori.

In tale affermazione Bauman ci indica, tra le righe, un modello di rapporto tra mente e società che si avvicina molto a ciò che Andy Clark, scienziato cognitivo inglese, suggerisce nel suo recente libro “Natural-born cyborgs. Mind, technologies and future of human intelligence” (Oxford University Press, 2003), nel quale sembra finalmente superarsi il dualismo mente-contesto, interno-esterno. La mente è nel sociale tanto quanto il sociale è nella mente. In tale concezione della mente “estesa”, o forse meglio immanente, occorre, secondo Clark, esplorare il rapporto confuso tra cervelli, corpi e supporti culturali e tecnologici.

Bauman, certamente meno ottimista della scienza cognitiva (seppure, come in questo caso, votata ad un radicalismo sociale), sostiene che, nel processo di aggiornamento continuo delle parti da integrare e ricambiare (mindware upgrades, secondo la suggestiva definizione di Clark), i sentimenti congiunti di onnipotenza e deresponsabilità dettati dalla società dei consumi determinino diverse alterazioni del tessuto sociale nella direzione della disaggregazione e distruzione delle trame psicosociali e, di conseguenza, degli stati mentali degli uomini. Ci si disfa dei legami sociali e li si “consuma” e sostituisce, esattamente come accadrebbe con qualunque altro oggetto di consumo.

Accade allora che la tecno-cultura consumens sia creata dagli uomini, ma allo stesso tempo crea e modella gli uomini e le loro menti, ed in questa interpenetrazione non è più possibile riconoscere chi crea chi.

Nuove declinazioni del malessere

<<In una realtà sociale, la condizione descritta come “malessere” deriva dalla struttura e dalle dinamiche della società in cui ha luogo. L’apparente autonomia del malessere (che è più che altro l’effetto della cornice interpretativa adottata), a prescindere dal fatto che sviluppi o no dei meccanismi di auto-riproduzione, non è una prova della sua indipendenza dagli altri aspetti dello scenario sociale. Ogni tentativo di sconfiggere il malessere agendo su tali fattori interni (cioè agendo su ciò che le persone coinvolte dovrebbero o potrebbero fare), senza considerare la globalità dei fattori sociali in cui il malessere si sviluppa, non può portare che a risultati transitori e scoraggianti. Il fenomeno verrà colpito nei suoi effetti, non nelle sue cause, e continuerà a riprodursi>> (p. 53).

Si ha talora la sensazione che gli psicologi, quelli italiani in particolare (ai quali questa recensione è prevalentemente dedicata), si arrocchino in una sorta di provincialismo culturale e di familismo istituzionale, sparpagliati in mille appartenenze, e che facciano a volte fatica a riconoscere in autori non disciplinari le necessarie intuizioni indispensabili alle loro pratiche. Sembra a volte che vadano alla guerra con le mazzafionde, che affrontino cioè la complessità delle loro pratiche con strumenti poco adatti e affilati, chiusi come sono nelle loro modellistiche concettualmente traballanti e riduzionistiche, nelle loro prassi irriflessive e automatiche, riducendosi infine in posizione di retroguardia come meri certificatori di adeguatezza, piuttosto di accogliere la sfida dell’emancipazione personale (propria e dei propri utenti), ma soprattutto la sfida dell’etica, come ci suggerirà Bauman nella parte finale del suo libro.

Le culture psicologiche non hanno ancora compiutamente imparato la lezione di Bauman integrandola con i loro saperi, modificando le loro teorie relative, ad esempio, a scopi, credenze, stati mentali, metarappresentazioni (per usare concetti cari al cognitivismo), le loro geografie degli investimenti libidici e dei meccanismi di difesa (per usare il linguaggio caro alla psicoanalisi), le loro rappresentazioni del corpo, delle famiglie e delle dinamiche familiari, dei gruppi e delle gruppalità (interne ed esterne), della vita politica e sociale, ma anche i processi attentivi, mnemonici, percettivi, emotivi, affettivi, così palesemente mutati e mutanti nelle nuove generazioni consumens, il tutto, appunto, va a configurare una vera e propria mutazione antropologica di cui ci informa, senza troppi pregiudizi e laccioli ideologici, il nostro autore.

Sarebbe interessante, dunque, revisionare i nostri impianti teorici, talora un po’ stantii, contaminandoli con riflessioni relative a questa ontologia del presente, e scoprire in tal modo le nostre “grammatiche del mentale” vanno velocemente (più velocemente di quanto si possa credere) cambiando nella direzione della “modalità consumens” così come indicato da questo libro.

Già questo movimento di esplorazione e contaminazione è visibile nella nostra cultura soprattutto in altri (cioè non-psicologi) studiosi sociali come testimoniato nel recente articolo di Massimo De Carolis “Ritagliare una nicchia. Dispositivi sociali e dissociazione psichica” (in Forme di Vita, 6/2007, Derive Approdi, 2007)[3], nel quale lo sforzo d’interpolazione/adiacenza tra vita mentale e sociale trova interessanti snodi concettuali attraverso un utile rimescolamento dei linguaggi disciplinari (della psichiatria/psicologia e delle altre scienze sociali) che in tal modo variano di forma, ma anche di sostanza, arricchendosi reciprocamente. Questa operazione di De Carolis è senz’altro solo un inizio, sicuramente promettente, e traccia una strada percorribile: la dissociazione psichica ed i disturbi dissociativi, sono una delle tante chiavi di accesso alla contemporaneità, non certo l’unica.

A voler “tradurre” il testo di Bauman con lo stesso proposito, troveremmo, da quanto qui emerso, innumerevoli analogie tra forme delle scena consumens post-moderna e fenomenologie psicopatologiche (sia in termini di sintomatologie che di tratti personologici), come se vi fosse un acutizzarsi di alcuni aspetti esistenziali in forma di “normale” adattamento alla mutazione in corso. Non dunque semplicemente un’osservazione epidemiologica legata a questa o quella psicopatologia, ma piuttosto troveremmo una forma di mimesi alla contemporaneità e alla pluralità delle sue forme di vita, che però continuano ad essere descritte con nosografie e modellistiche anteriori alla nostra epoca o viceversa forzosamente e pedissequamente sempre cangianti, che però non colgono fino in fondo né il movimento complessivo, né l’interazione dei fenomeni in oggetto.

Pensiamo ad esempio a come certe organizzazioni psicologiche dipendenti, tossicofiliche, borderline, narcisistiche, ansioso-compulsive, paniche e fobiche, bulimiche-anoressiche, paranoidee, schizoidi, antisociali, maniaco-depressive, siano oramai ordinari modi di nominare non più psicopatologie (a meno che non si voglia, con spirito reazionario, patologizzare e medicalizzare l’intera società), ma attribuzioni standard di chiunque di noi in forme più o meno attenuate, o più o meno sensibili e gravose.

Forse per psichiatri e psicologi risulterà più consolante (e probabilmente anche più conveniente) mantenere una rigida distinzione tra fenomeni sociali e forme psicopatologiche individuali, tale da giustificare a valle le loro osservazioni relative al disadattamento dei propri pazienti, e dunque i loro interventi. Non importa se poi la psichiatria e la psicoterapia non producono buone domande e conseguenti buone risposte al disagio, non importa se non hanno mai risolto le gravità psichiatriche (ma neanche scalfito), se gli psicoanalisti non hanno mai curato la nevrosi nel mondo (casomai l’hanno fissata), non importa. Ciò che importa è che essi continuino a certificare innanzitutto la loro funzione regolativa ed in secondo luogo le disarmonie dei propri clienti. Resta da stabilire rispetto a quale idea di “armonia” si possano oggi definire le “disarmonie”, rispetto cioè a quale rappresentazione/termine-di-confronto (nella nostra testa, nei nostri assetti interni) del tipo umano e di società ci stiamo muovendo[4].

Esclusione ed umiliazione

La società consumens è riuscita laddove altri tipi di società moderne (totalitarie o democratiche) hanno fallito: l’esercizio totale e non dispendioso del potere. Esse ci sono riuscite attraverso <<l’effetto dell’internalizzazione dell’ordine [corsivo mio], cioè della volontà di comportarsi nel modo richiesto da un determinato modello di ordine. Di conseguenza l’esclusione assume l’aspetto dell’autoemarginazione, vale a dire del fallimento personale degli individui e indirettamente dei loro educatori, supervisori e guide>> (p. 55).

Il “potere” di cui si parla non passa più da una coercizione esterna, ma da un’opera di sedimentazione dell’omologazione sociale; l’”ordine” in questione corrisponde alla <<adesione incondizionata ai precetti consumistici>> che definiscono i criteri identitari e d’inclusione e, di converso, di esclusione. Non è solo una questione di conformismo, la società consumens sembra prevedere (e neutralizzare) al suo interno ogni movimento antagonista, vengono meno dunque gli stessi concetti di conformismo e trasgressione, non essendo più così facilmente visualizzabile (essendo stata internalizzata) ogni linea di demarcazione.

Avere cittadinanza, titolarità e dignità, in una parola, identità, richiede automaticamente l’avere un potere consumistico, e non semplicemente potere d’acquisto, concetto economico-politico divenuto assolutamente poco euristico in relazione a quanto stiamo dicendo. Allo stesso modo, ci avverte Bauman, i criteri di esclusione sociale non sono più regolati dall’improduttività, dall’inoccupazione, dalla devianza, ma dall’essere cattivi consumatori. Non c’è nulla di più pericoloso per le società contemporanee, nella percezione collettiva, ma anche nei calcoli politici, della recessione economica, della deflazione, del ritiro dal consumo.

Così codificata la minaccia sociale, la povertà e/o la diversità etnica (parliamo dei migranti) diventano oggetti paranoicali, e la <<mixofobia>>, il timore della contaminazione, del mescolamento con i poveri, il carattere prevalente della vita e della difficile convivenza urbana. Ma “povertà” non è semplicemente la millenaria condizione oggettiva di carenza di risorse e disuguaglianza sociale, è diventata, nella società consumens, una condizione di degrado psichico e morale più che in ogni altra epoca. Questo perché la monocultura consumistica produce un unico modello di uomo e di vita ed è il prodotto a sua volta di un’unica classe sociale, mentre la sempre maggiore divaricazione (sia su scala globale che su scala locale) tra ricchi integrati (seppure nella loro perenne insoddisfazione ed infelicità) e poveri emarginati rende indegno ed immorale il cattivo consumatore che diventa così una sorta di eversore sociale naturale.

Due generi d’infelicità/alienazione si confrontano dunque, tra le quali è difficile stabilire quale sia peggiore: quella dei “consumens” devastati e desertificati interiormente dal tritacarne socio-culturale post-moderno; e quella degli “aspiranti-consumens” sempre più distanziati dal loro obiettivo (diventare consumens) e per questo sempre più alienati.

La questione morale

Inutile nasconderlo, Bauman è un autore la cui principale preoccupazione è l’etica, e questo emerge fortemente nelle ultime due conferenze del presente libro. Per questo suo distinto ed esplicito carattere moralista (non moralistico), Bauman rischia di attirarsi la diffidenza da ogni parte del mondo intellettuale: da chi lo vive come un “anti-sistema”, e da chi lo vede come un “restauratore” antimodernista. Le simpatie di alcuni ambienti cattolici verso di lui hanno poi confermato questa sensazione.

Se però riusciamo a leggere queste ultime due conferenze senza pregiudizi ideologici, ne cogliamo delle preoccupazioni che appaiono, alla luce di quanto stiamo dicendo, condivisibili e “doverose”.

Quando Bauman esplora le radici della paranoia propria della società consumens, giunge ad affermare che <<il mondo di oggi sembra congiurare contro la fiducia>> ed individua nel “risentimento” il carattere psicologico prevalente.

Le città sono diventate, più che in ogni altra epoca, un crogiuolo di conflitti sociali nelle quali il sentimento di assedio predomina alimentato da risentimento, umiliazione, rivalità e paura, divenuti forme relazionali condivise e collettive. Bauman è molto esplicito a proposito: <<questo genere di relazioni sono di natura sociale, non individuale (…) devono essere affrontate esclusivamente attraverso la modificazione degli ordini sociali che le producono>> (p. 82).

Questa sorta di “programma rivoluzionario” dell’autore sembra passare però attraverso un cambiamento della coscienza collettiva in senso morale, piuttosto che, attraverso un progetto movimentista.

Ecco allora, di fronte alle stridenti contraddizioni delle nostre società che sempre più decisamente stanno distruggendo ogni forma di welfare e di servizio sociale, si alza la domanda del filosofo E. Levinàs, la stessa di Caino verso il Dio dell’Antico Testamento allorché gli chiede di Abele: “sono forse io il custode di mio fratello?”. Da qui, secondo Levinàs, trae origine il comportamento immorale, che si traduce nella “normalità” del non prendersi cura del proprio prossimo. Questo, dice Bauman a causa del fatto che gli odierni poveri ed emarginati sono passati dall’essere oggetto di compassione ad oggetto di rabbia, paura e risentimento (il recente episodio italiano dei lavavetri, sembra essere stato previsto nei minimi particolari).

Riprendiamo allora la biforcazione, tra padella e brace, dei due generi d’infelicità precedentemente citata: homo consumens ed aspiranti-consumens-emarginati.

Qui Bauman è spietato, e coglie la profonda natura immorale e cinica delle nostre società: a fronte dell’incertezza del mondo sperimentata dall’homo consumens,  <<la nostra società del rischio ha davanti a sé un compito terribile, quando si tratta di riconciliare i suoi membri con le insidie e i timori delle vita di ogni giorno. È questo è il compito che i poveri, un tempo rappresentati come sottoclasse di esclusi, rendono un po’ più agevole. Se il loro genere di vita rappresenta l’unica alternativa al “rimanere dentro il gioco”, allora i rischi e gli orrori del mondo flessibile e dell’incertezza di tutta la vita “normale” sono un po’ meno repellenti e insostenibili: ossia sono meglio di ogni altra alternativa concepibile>> (p. 91).

Mors tua vita mea è dunque diventata, del tutto sdoganata dalla società consumens, la pietra angolare dell’ordine morale e sociale.

Non ci sono dunque sconti per chi opera nelle professioni sociali (come noi): è con questo mondo che dobbiamo fare i conti. <<Essere responsabile dei propri fratelli rappresenta una sorta di condanna permanente a un lavoro faticoso e carico di ansia morale>> (p. 96). Ne sappiamo qualcosa noi che lavoriamo in trincea con le fasce deboli, tossicodipendenti, gravità psichiche, handicap, anziani, bambini, famiglie, etc. Nessuna requie, nessuna consolazione, nessuna procedura o terapia miracolosa o migliore delle altre, <<dipende, invece dagli standard morali della società di cui siamo tutti abitanti>>, risponde Bauman.


[1] Utilizzo quest’opera come pre-testo di confronto, per tracciare una linea prospettica in una profondità storica rispetto all’attuale testo di Bauman.

[2] Un testo su tutti, a mo’ di esempio: Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, del 1976.

[3] In questo articolo De Carolis rilegge alcuni dispositivi sociali, quali la circolarità, la pluralità e l’informatizzazione nella chiave nosologica del disturbo dissociativo.

[4] Vedere a proposito: L. D’Elia, Psicologia e Biopolitica su AP-Magazine, Maggio 2007