La mission sociale della psicoterapia. Parte 2 Fasi vitali, coppie e famiglie: istruzioni per l'uso

L’osservatorio privilegiato dello psicologo-psicoterapeuta consente l’esplorazione profonda e privilegiata del campo sociopsichico – così come descritto nelle prima parte di questo contributo – appartenente ad individui, famiglie e gruppi che si muovono nella contemporaneità e rileva, come prima ambientazione naturale e come prima interfaccia critica – tra l’individuale ed il sociale – i percorsi maturativi e i loro inciampi, nel campo mentale del famigliare e nell’arco vitale, dalla condizione di figlio fino a quella di nonno.

Il campo del famigliare, con il suo flusso figliogconiugeggenitoregnonno, appartiene a tutti gli effetti al campo sociopsichico e ne è in qualche modo un suo isomorfo in quanto contesto primario e naturale di ambientazione/disambientazione di un percorso d’individuazione tra individuo e gruppo che vede nello specifico ambiente del famigliare un confine critico e rivelatore.

Intendiamoci, il flusso progressivo del ciclo vitale qui indicato – figliogconiugeggenitoregnonno non vuole minimamente rappresentare un modello o tragitto di idoneità (ci si può sentire pacificamente idonei e adeguati pur scegliendo di non percorrerlo). Non c’è dubbio però che gran parte di noi, volente o nolente, ci fa ingresso e ci si ritrova al suo interno ad affrontare numerose questioni. E le istruzioni per l’uso a cui fa riferimento il titolo sembrano essersi smarrite.

Nell’ottica dell’impegno etico della psicologia e della psicoterapia riguardo i legami sociali (anche questo evidenziato nella prima parte di questo contributo), diventa necessario interrogarsi circa l’attuale criticità che investe gli individui nei loro passaggi all’interno del campo sociopsichico delle famiglie di origine e, in successione, nei loro tentativi di attraversamento di nuove funzioni gruppali, affettive, coniugali e genitoriali. La prospettiva psicologica qui proposta ha numerosi vantaggi: quello di depatologizzare lo sguardo su individui, coppie, famiglie e società; quello di utilizzare modelli di comprensione umanistico-antropologici; quello di conservare saldamente una posizione critica e d’indagine su fenomeni in fieri e, per tal motivo, fuori dalla portata di una comprensione esaustiva.

L’immagine che l’esperienza clinica ci suggerisce, nelle recenti e titaniche fatiche dei nostri pazienti, è quella di una sopraggiunta, quanto apparentemente inspiegabile, farraginosità nell’imbastitura di trame psicosociali e valoriali nel determinare le “regole d’ingaggio” appartenenti ai diversi passaggi maturativi, e al progettare con un senso minimamente condivisibile modalità di essere dentro le relazioni familiari, vecchie e nuove.

Volendo rendere meno inspiegabile tale farraginosità, dobbiamo necessariamente pensare a ciò che, a memoria di ognuno di noi, avveniva fino a pochi decenni fa, e provare ad interpolarlo a ciò che avviene oggi. Non c’erano, ad esempio, fino a solo 40-50 anni fa, grandi crisi nel sentirsi ragazza “da marito” o ragazzo “da moglie”, o nel sapere come si comporta un genitore o un nonno, o come si gestiscono le relazioni tra famiglia di origine e nuova famiglia. Questi passaggi maturativi, fino a una/due generazioni fa, erano dunque ordinariamente regolati da silenziosi ed impliciti sincronizzatori socio-culturali sia per le modalità di transito, sia per le specifiche funzioni di ciascun passaggio. Non s’intende certo con ciò edulcolorare il passato come un’età dell’oro perduta, non c’è alcun rimpianto da parte di chi scrive a tal proposito, ma serve solo a dettagliare le evidenti discontinuità (fratture) tra epoche storiche di fatto vicinissime.

Negli ultimi decenni, infatti, gli stessi passaggi sono stati progressivamente delegati alla responsabilità del singolo individuo il quale si ritrova costretto a gestirsi in modo solitario un carico simbolico-procedurale immane, dovendosi di volta in volta “inventare/re-inventare” ciò che attiene ad ogni passaggio e ad ogni funzione, senza il conforto di riferimenti chiari e condivisi. Chi vive, ad esempio, la dimensione della coppia stabile e della fondazione di una nuova famiglia sembra aver perduto le necessarie “interfacce simbolico-procedurali” con il corpo socio-culturale e con il campo transgenerazionale che in precedenza nutrivano ed orientavano scelte, strategie e prospettive relative ad ogni singola posizione. Ma la stessa cosa la si potrebbe affermare riguardo i primi passaggi “iniziatici” dell’adolescenza, della sessualità, della vita di relazione, della vita di gruppo, così come di ogni snodo biografico, accompagnato fino a ieri da un supporto simbolico-procedurale, oggi divenuto invece sfuggente, sfumato ed inaccessibile.

Diventa arduo dunque ogni singolo passaggio maturativo perché vissuto a volte come salto nel buio, come indebita complicazione della vita, come responsabilità intollerabile, come irreversibile scelta, come rinuncia ingiustificata ai privilegi del presente, per la quale ci si ritroverà da soli ed incapaci a risolvere le varie e smisurate impellenze.

Il cambiamento più vistoso in merito al flusso figliogconiugeggenitoregnonno è a carico delle singole posizioni e dei singoli passaggi generalmente vissuti come alternativi e successivi anziché come articolati e aggiuntivi: sembra essersi perduta l’articolazione tra i vari passaggi biografici. Entrare in una piena posizione coniugale, ad esempio, spesso può coincidere con l’idea di perdita irreversibile e catastrofica delle prerogative-certezze della posizione filiale; ugualmente, entrare in una piena posizione genitoriale fa perdere, nel vissuto, le certezze e le attenzioni della posizione coniugale, e così via. Nella prospettiva dell’articolazione e addizionalità delle diverse posizioni nel flusso, chi diventa coniuge non cessa di essere figlio, chi diventa genitore non cessa di essere coniuge e figlio, chi diventa nonno non cessa di essere coniuge e genitore. Ma imparare a coniugare ed integrare, in un’articolazione più complessa, i diversi ruoli-funzioni che si sovrappongono in uno scenario interno più ampio, corrisponde attualmente ad uno “sforzo di fantasia” che rappresenta per molti un compito oggettivamente (e non soggettivamente!) ancora troppo arduo.

Questo corrisponde a ciò che Zigmunt Bauman, il grande sociologo e pensatore della condizione postmoderna, ha cercato di mostrare nel corso degli ultimi anni: ad un incremento delle prerogative di libertà e autodeterminazione dell’individuo, tipiche delle società moderne e postmoderne occidentali, è conseguito un indebolimento del potere di validazione delle istituzioni sociali riguardo l’individuo stesso. In altri termini assistiamo, negli ultimi decenni, al progressivo smantellamento dei codici istituzionali e simbolici che definiscono sia l’idoneità sociale degli individui sia i suoi passaggi maturativi. A ciò va aggiunto il progressivo scardinamento dei codici socio-comunitari (i motivi per i quali si convive con gli altri) che definivano, nel bene e nel male, appartenenze e identità. Risultato: sull’individuo ricade oggi un carico simbolico e operativo-procedurale che precedentemente era appannaggio delle istituzioni sociali, politiche e religiose, o quanto meno era significativamente sostenuto da esse.

Dunque, l’individuo si ritrova oggi a fare i conti, da solo, con attribuzioni di senso che riguardano sia i propri passaggi maturativi (infanzia-adolescenza-giovinezza-età adulta-mezz’età-vecchiaia-morte), sia tutti i compiti sociali (scuola, gruppi e culture extrafamiliari, lavoro, rapporti affettivi, coniugalità, genitorialità, etc..). Una missione praticamente impossibile se gestita in maniera solitaria.

La frantumazione di un modello antropologico unitario (o ritenuto tale, a torto o a ragione) della cosiddetta famiglia tradizionale, viene qui inteso non solo come causa efficiente di nuove forme di umanità, ma, circolarmente, anche come effetto di processi qui descritti di progressivo disincanto, disancoramento, isolamento degli individui, ma anche come effetto di una lacerante discontinuità con le trame transgenerazionali. Al di là degli innumerevoli fattori socio-culturali che presiedono a tali fenomeni, questo determina una disorganizzazione delle ambientazioni-famiglie in ordine ad ogni sequenza esistenziale di esse: dal tramonto della commensalità durante gli orari dei pasti fino alla mutata declinazione del desiderio sessuale nelle coppie coniugali; dalla laboriosa gestione del limite nell’educazione dei figli fino all’uso del tempo domestico in attività-pattumiera a forte valenza alienante (tv, internet, videogiochi, cellulari). E così via.

L’esistenza in vita della cosa-famiglia (e prima ancora della cosa-coppia) si confronta quotidianamente con una dispersione di senso in ogni attimo in un’emorragia che richiama alla necessità di continue trasfusioni: il senso dell’essere famiglia, cioè, va cercato e ricercato sempre di nuovo e sempre su nuove ambientazioni. Ma questa operazione risulta, alla fine, talmente sfiancante e molto spesso improduttiva, tanto da rendere comprensibile l’astensione dal cimento.

Queste riflessioni mi servono a disegnare la cornice dentro la quale, a mio parere, si devono inscrivere, nella nostra contemporaneità, molte vicende che riguardano le prospettive di coppie e famiglie, e prima ancora, dei legami affettivi preliminari e successivi la formazione di coppie e famiglie.

Fuori da questa cornice diventano incomprensibili alcuni “nuovi” fenomeni contemporanei di “frammentazione” o di “faticosità” che a loro volta determinano le frequenti crisi di coppie e famiglie, e che in genere vengono surrettiziamente attribuite alla difettosità dei singoli membri. Non ha alcun senso e utilità un approccio riduzionistico (in genere psicologistico, ma anche socio-qualunquistico) che intervenga in maniera causalistica (etiologica) ed espiatoria sulla comprensione di tali fenomeni. Non esiste più infatti un’idea unitaria e condivisa di coppia e di famiglia e gli studiosi di scienze umane si affannano ad inseguire le definizioni di coppia e famiglia alla luce dei tumultuosi e caleidoscopici cambiamenti di assetto di strutture sociali precedentemente riconoscibili (pensiamo, ad esempio, tra gli innumerevoli fenomeni in gioco negli ultimi decenni, alle mutate condizioni della donna nella società e nella coppia/famiglia, alle mutate condizioni/rappresentazioni del lavoro delle società post-industriali, alle mutate condizioni economiche su scala “macro”, etc.).

Detto in altri termini, gli individui che si cimentano in progetti coniugali e genitoriali si ritrovano spesso da soli e privi di risorse, ed essere in coppia o in famiglia, sentirsi fautori e protagonisti di funzioni coniugali e/o genitoriali è diventato oggi un compito molto difficile al quale singoli e coppie fanno fronte con grande affanno.

Una considerazione che si sente spesso fare, alla vigilia di una scelta coniugale o alla vigilia della nascita di un figlio è: <<come posso fare la compagna o il compagno, oppure la madre o il padre, se mi sento e sono ancora figlia/o? Non sono pronta/o, è un compito troppo alto>>.

Oppure, quando si affrontano questioni delle giovani coppie stabili in uno stallo della progettualità, si sentono fare, tra le tante, queste considerazioni: <<lui/lei non si assume nessun impegno formale nei miei confronti>>; <<ci annoiamo l’uno dell’altro>>; <<mi sembra troppo esitante e dubbioso/a, forse non ci amiamo più>>; <<siamo diventati come fratello e sorella>>; <<io vorrei un figlio, ma lui/lei non ne vuole parlare>>; e così via.

Oppure, facendo ancora un passo indietro, quando l’individuo (più o meno giovane) si confronta con la difficoltà di approccio o di definizione o di alleanza con l’altro sesso, magari dopo una serie di tentativi fallimentari e deludenti, si sente dire: <<sento di non avere alcuna speranza di incontrare una persona adatta a me>>; <<non c’è nessuno all’altezza delle mie aspettative>> o viceversa <<non sono all’altezza delle aspettative altrui, sono fuori dal giro>>.

Tutte queste considerazioni, ed altre ancora, molto comuni nei contesti psicoterapeutici, ma non solo, indicano, nei diversi momenti di vita dell’individuo, la faticosità del passaggio-articolazione figliogconiuge.

Tra uno scenario certo, anche se angusto e privo di profondità prospettiche, ed uno incerto e laborioso diventa legittimo decidere di non decidere e di rimanere fino ai 30-40 anni a casa coi genitori – dato ampiamente confermato dalle statistiche degli ultimi anni e che ha assunto oramai carattere sociologico – solo che le più comuni analisi su tali dati enfatizzano le incertezze socio-economiche tipiche dei nostri tempi, ma non approfondiscono le trasformazioni culturali delle trame sociopsichiche e del tessuto familiare di cui si fa riferimento qui.

Un secondo passaggio-articolazione delicato riguarda quello tra coniugalitàggenitorialità. Anche questo transito, in epoche limitrofe a noi ancora lineare e scontato, è diventato oggi complicatissimo.

Anche se giuridicamente una coppia può essere considerata una famiglia, dal punto di vista psicologico possiamo parlare propriamente di famiglia quando sono presenti almeno due generazioni.

Oggi una sorta di angoscia generativa pervade molte coppie giovani e meno giovani, indipendentemente dal loro grado di “robustezza”: anche per quelle coppie collaudate e stabili – compagni o sposi – il momento della decisione del concepimento è talora preceduto da una crisi profonda del rapporto; per le coppie meno collaudate, ugualmente, la dichiarazione di desiderio di un figlio da parte di un membro è a volte motivo di separazione. La denatalità della nostra civiltà è infatti un dato ormai noto a tutti, e da quanto qui ipotizzato, ed anche qui non si tratta solo di un fenomeno di natura socio-economica.

Intanto va detto che l’attuale enfasi, per certi versi condivisibile, posta sulla consapevolezza della scelta e sulla solidità del desiderio in merito alla nascita di un figlio, è un fenomeno culturale piuttosto recente e sembra produrre piuttosto effetti paradossali e controproducenti: l’arrivo di un figlio in una neo-famiglia diventa sempre più una specie di “evento capitale” che viene investito da eccessive aspettative e timori.

D’altro canto, se nei decenni passati la nascita di un figlio in una coppia sposata da poco attestava la nascita della famiglia stessa ed era unanimemente considerato una “grazia”, un evento fortunato che aggiungeva qualcosa, oggi è avvenuto un ribaltamento di questo significato nel suo opposto: un figlio priva i genitori della loro autonomia e libertà di movimento, della loro possibilità di realizzazione socio-lavorativa (o quantomeno la frena) e casomai aggiunge preoccupazioni e sentimenti di responsabilità gravosissimi.

Aggiungiamo a questo quadro psico-culturale le oggettive difficoltà prodotte dalla reale inaccoglienza dell’intera società verso i nascituri: problemi economici per le coppie giovani e mancanza di sostegno sociale, carenza di strutture, percezione di pericolosità per i bambini, sentimento di assenza di prospettive per il loro futuro, e così via. Insomma assistiamo ad una saldatura tra timori interni e difficoltà esterne, per cui affrontare la generazione e la generatività è diventato un problema enorme.

In presenza di un eccesso d’incertezza la psiche umana si difende legittimamente proteggendo ciò che ha già come acquisito e, come detto, si arrocca recedendo su posizioni meno fluttuanti: la famiglia di origine o in alternativa la coppia stabile non generativa (ma potrebbe essere anche il lavoro), che diventano immediatamente territori psichici di rifugio (almeno nell’immaginario).

Sono sempre più frequenti le situazioni di coppie fidanzate o sposate, anche da tempo, che decidono di non fare figli, ma ancora più numerose sono quelle coppie stabili e conviventi, che superati i 30-35 anni, dopo anni di silenzio e di rimozione, cominciano timidamente a porsi la questione della genitorialità trovandosi però del tutto impreparati ad affrontare un cambiamento di questo tipo. Altre coppie che invece ingaggiano interminabili diatribe sul tema del decidere, ed altre coppie ancora che, una volta deciso di fare un figlio, vivono momenti laceranti e disorientanti.

Il sentimento di “fondazione” che caratterizza lo spirito d’intraprendenza e d’innovazione dei neo-coniugi o neo-genitori, rischia così di essere meno presente nelle nuove generazioni.

Il lavoro dello psicologo (o psicologo-psicoterapeuta) diventa, nella chiave di lettura qui utilizzata, quello, preziosissimo ed insostituibile, del facilitatore nella comprensione dei nodi simbolici, ma anche di fluidificatore dei passaggi che individui, coppie e famiglie trovano difficoltoso affrontare. Lo psicologo non è certo colui che fornisce (il proprio) senso ad esperienze altrui, ma colui che consente ai propri clienti di rintracciarlo all’interno della propria storia e dei propri percorsi esistenziali.

Lo psicologo in realtà, in questa prospettiva, costituisce per il cliente quell’interfaccia istituzionale (o se vogliamo quella gruppalità o quello spazio culturale di appoggio) venuta a mancare capace di co-pensare una complessità di attribuzioni, di procedure e significati oramai demandati alla responsabilità individuale, una guida (o uno Stalker, per usare una metafora cinematografica) in grado di accompagnare le persone in territori sempre mutevoli ed incerti della nostra contemporaneità.

(Un ringraziamento speciale a Corrado Pontalti, inesauribile fonte d’ispirazione)




Ippocrate e Galeno: la psicoterapia dei medici e la latitanza degli psicologi

Ci troviamo, come psicologi, su un piano inclinato rispetto all’attività detta “psicoterapia” qui in Italia.

La casta medica è oramai prossima all’annessione, senza ritorno, della gestione istituzionale della psicoterapia, futura quarantaquattresima specialità della Facoltà di Medicina a Chirurgia.

La legge italiana prevede l’accesso alla specialità in psicoterapia da parte di medici e psicologi e gli specializzati in psichiatria lo sono per diritto. In futuro non cambierà niente; il tutto sarà gestito, buon per loro, dall’Accademia Medica che almeno però s’assumerà insieme ai meriti anche le responsabilità. Gli Psicologi che non diverranno psico-terapeuti si occuperanno allora anche di questo aspetto.

In quanto campo di saperi al confine, la psicoterapia, è in realtà territorio di sovrapposizione tra differenti approcci: quello psicologico, in primis, quello medico-tecno-cognitivo, quello antropologico e filosofico, e finanche quello socio-politico.

Ogni psicoterapeuta a tutto tondo maneggia significative porzioni di saperi di confine e sa districarsi in questa selva, e non potrebbe essere diversamente (questo però è lasciato al buon senso di ciascun professionista, indipendentemente dalle sue origini formative).

Ognuno però, prima o poi, rivendica un suo peculiare ambito d’intervento, ma soprattutto una sua identità professionale di origine: lo psichiatra-psicoterapeuta, quando non è già schiacciato sulla stessa logica che anima il DSM IV o su approcci estremamente tecnologici o biologistici, rimane comunque medico a tutti gli effetti, anche se alcuni di loro hanno positivamente ri-confuso, nei successivi percorsi formativi, la loro matrice medica. Egli non ha la formazione psicologica di base, ma la potrebbe acquisire strada facendo, a sua discrezione.

Lo psicologo-psicoterapeuta è spesso anch’egli figlio di approcci medici, tecnici, strategici, ed in quanto tale ricalca (scimmiotta) le orme dei suoi cugini ricchi, solo con molto minore autorevolezza e competenza, altre volte è figlio di approcci psicodinamici più orientati psicologicamente, e più contaminati dalle scienze umane, ed in questo caso il distacco da paradigmi, stili e metodi medici è piuttosto abissale.

Entrambi i percorsi convergono sul concetto di “cura”, “benessere”, “salute”, ma è evidente a tutti che si sta pensando a due categorie concettuali alquanto distanti, a due visioni dell’uomo divenute lontane (e ben vengano i medici che sposano il secondo approccio!).

Ah già…, c’è poi la questione della cosiddetta validazione scientifica della psicoterapia, su cui mi sono già espresso. L’approccio tecno-medico alla psicoterapia mutua gli stessi criteri socio-culturali della medicina e li applica, senza troppe variazioni, al soggetto curato con la psicoterapia, l’evidence based medicine tratta l’attacco di panico grosso modo come un virus influenzale; l’approccio psicologico-umanistico punta più sulla ricerca qualitativa, sullo studio meticoloso dei singoli casi, sul materiale clinico relazionalmente e fenomenologicamente rilevante. Non c’è ancora, che noi si sappia, una sintesi attendibile e riconosciuta tra metodi quantitativi e qualitativi.

Ma su questo terreno sdrucciolevole, ci troviamo in realtà, anche qui, su due visoni alternative riguardanti le scienze dell’uomo, l’una neopositivista, l’altra più costruttivista, ognuna delle quali rivendica il proprio potere (spesso economico e politico, essendoci di mezzo cattedre, assicurazioni, accreditamenti, clientele), prima ancora del proprio poter-fare.

Ci si domanda a questo punto: ma di cosa stiamo parlando? Perché continuare ad usare la stessa parola – “psicoterapia” – per definire pratiche così differenziate ed approcci così tradizionalmente diversi? Possiamo provare ad usare tutti i prefissi o appellativi distintivi che vogliamo, ma la confusione rimane. Bisognerebbe forse a questo punto rompere gli ultimi indugi e trovare due nomi diversi per due forme di psico-terapia (per alcuni, una sorta di ossimoro concettuale) che partono da assunti differenti. In tal caso, potrei condividere con molti miei colleghi (psicologi e medici) l’idea di distinguere istituzionalmente e come percorsi formativi la “psicoterapia di orientamento tecno-medico” dalla psicoterapia che si occupa prevalentemente della condizione umana e della sua cura secondo metodi psicologici, antropologici, umanistici. Due tradizioni e due percorsi formativi, che possono incontrarsi su mille punti, ma che a nostro parere possono rimanere istituzionalmente differenziati.

Inutile, infatti, condividere gli stessi spazi di sovrapposizione (che ovviamente continuano ad esistere nonostante queste diatribe) se da una parte (medici) troviamo un corporativismo ancestrale e dall’altra parte (psicologi) troviamo ignoranza, elusione e collusione. Meglio una sincera separazione piuttosto che una falsa convivenza.

Ma, ci rimane il dubbio: agli psicologi sta bene ogni cosa venga stabilito dagli amici medici oppure no?

Nel nostro caso, sicuramente no! E non ci sentiamo, ancora una volta, degnamente rappresentati dai nostri vertici politico-professionali; se solo pensiamo ai 15-20 anni e passa di studi, lavoro su di sé, supervisioni, scuole, etc… per finire svenduti dai nostri stessi colleghi e, semplicemente “organizzati”, dai medici…, se ce lo dicevano prima, c’iscrivevamo direttamente a Medicina e non se ne parlava più! Ci saremmo tappato il naso fin dall’inizio e, non intendendo occuparci del futile determinismo corporeo seguendo Galeno, avremmo fatto certo meglio di qualcuno di quegli psichiatri che hanno scelto di avvelenare il corpo per far tacere la Psiche. Farmacon, nella lingua di Galeno (e di Ippocrate), significa veleno.

Ma qual è il problema che impedisce agli psicologi di esprimere la loro versione dei fatti? Gli psicologi non hanno le idee chiare? Non vogliono fare troppo rumore e vogliono passare inosservati? Sono troppo collusi con gli andazzi generali? Sembrano loro, questi, problemi secondari o accessori?

Può qualcuno darci una risposta attendibile?

L’ultima occasione per discutere di psicoterapia è stata documentata dal report di Maurizio Mottola, della Commissione per la Psicoterapia, il testo è basato sull’ampia e competente lezione magistrale tenuta nella circostanza da Leonardo Ancona – presidente della medesima Commissione – ed è per me un’ottima occasione di riflessione su cosa e come si sta muovendo questa complessa questione. Devo dire che il riferimento di Ancona ad Ippocrate e Galeno, come metafore dei differenti approcci in psicoterapia, è stato per me illuminante. Ne estraggo i passaggi-chiave:

La psicoterapia si può esercitare secondo il modello psico-fisiologico, o cognitivista, dove la psiche è un “medium” suscettibile ai messaggi, agli interventi, agli influenzamenti esterni o alla ristrutturazione del pensiero: una prospettiva che può dirsi galenica.
L’aspetto galenico è quello della tecnica, in cui vi è una causa che produce delle conseguenze, che possono essere individuate , trovando quindi lo strumento atto a gestirle ed a curarle.
La tecnica è strettamente legata ad una logica, che è logica aristotelica, per la quale data una causa vi è un effetto. […] L’attuale medicina è prevalentemente impostata secondo questo tipo ed è basata sulla ricerca sperimentale.

D’altra parte la psicoterapia può essere svolta secondo il modello psicologico-clinico, dove la psiche è concepita come un “sistema”, con il quale si può entrare in inter-azione: una prospettiva che può dirsi ippocratica.
L’aspetto ippocratico è quello sostenente il principio che l’organismo umano, l’uomo è sano in se stesso e che ogni malattia esprime una processualità, cioè una concatenazione di avvenimenti esterni che prendono il corpo e la psiche e ciò implica una commistione di fattori.
Sia quelli della biologia (gli “umori” di Ippocrate), sia quelli della famiglia, del gruppo, della società, della fantasia.
Tutte queste variabili concorrono alla costituzione del processo morboso che coinvolge il soggetto. […]
Questi due modelli diversi della psicoterapia coesistono e nella formazione è importante tenerne conto, in quanto il medico e lo psicologo hanno da integrare e contemperare questi due aspetti e cioè quello di una evidenziazione delle probabili cause del malessere e quello di stare vicino al soggetto che soffre, di cum-patire (compassione) ed attraverso questa compartecipazione di sofferenza sostenere il processo di guarigione.

Se posso essere d’accordo sull’analisi di Maurizio Mottola, dubito della legittimità delle sue conclusioni: i due approcci non sono istituzionalmente e culturalmente così compatibili così come egli farebbe pensare. Trattasi, come cerco di esprimere qui, di due cose diverse, non certo perché nell’esperienza clinica il bio-psichico-sociale non sia una realtà di fatto sempre immanente e non-scomponibile, ma per il semplice motivo che lo strapotere dell’approccio qui definito come galenico è oggi la preoccupante e pervasiva realtà istituzionale e culturale, la cifra di ogni discorso sulla terapeuticità, la premessa di ogni validabilità sociale. Fin tanto che l’approccio qui definito ippocratico non sia rappresentato a pari dignità del primo, dagli psicologi, è operazione di falsa democraticità supporre una convivenza pacifica tra i due approcci (magari accusando di faziosità gli psicologi che non ci stanno ad essere galenicamente ingoiati).

Perché allora far credere che i due approcci possano andare a braccetto sotto un unico ombrello quando l’uno sta fagocitando l’altro? Forse c’è qualche problema di digestione…?

Qualcuno, o meglio, ognuno di noi, si sforzi a questo punto di trovare un rimedio a questa deriva culturale, di sapore (tarallucci) tutto italiano, provando magari a discutere seriamente su soluzioni “istituzionali” che non mortifichino nessuno e soprattutto non mortifichino la nostra utenza alla ricerca, primariamente, di senso riguardo i propri affanni.




La mission sociale della psicoterapia – Parte I

Introduzione

Scopo di questo contributo è immaginare una psicoterapia che, per assolvere in pieno alle proprie prerogative, si assuma una responsabilità etico-politica riguardo i legami sociali.

Certo, è difficile introdurre il tema della funzione e della posizione sociale della psicoterapia senza le necessarie premesse concettuali, soprattutto se si pensa che la psicoterapia si è da sempre collocata in un ambito scientifico-operativo contiguo alle scienze mediche (“terapia”), in un’area di azione inerente all’interesse individuale, nello spazio di esplorazione del “benessere” soggettivo, come metodo di indagine dell’intrapsichico e delle strategie personali.

Esistono molte forme di psicoterapia (in verità la maggioranza di esse) che si avventurano nel “relazionale”, nell’”interpersonale”, così come nel “gruppale” ed “istituzionale”, ma i loro dispositivi sembrano comunque inerzialmente ricadere in uno psicologismo di fondo e conseguentemente nella sfera gravitazionale dell’in-dividuo e della sua inalienabile responsabilità. Del resto, la nascita e lo sviluppo della psicoterapia sembrano, storicamente, corrispondere all’ascesa dell’individuo sulla scena sociale (specie nell’ultimo secolo): discipline, metodi e preoccupazioni sono tutti rivolti alla cura di tale nuovo soggetto sociale.

Non esiste infatti una “psicoterapia sociale” (laddove esistono la psicologia, la medicina, la psichiatria, sociale), definizione di per sé chimerica, ma ancor più insostenibile se si pensa al pericolo dell’estensione dei comuni paradigmi psicoterapeutici ai domini sociali (incomprimibili alle leggi dell’individuale e del relazionale), e l’insana idea di mettere la società sul lettino dell’analista o dello psicoterapeuta corrisponderebbe ad una buia e apocalittica visione orwelliana dell’ordine sociale, per la quale si tratterebbe il corpo sociale come un malato da sottoporre a cure psichiche e per la quale si opererebbe la pratica della psicoterapia come forma di controllo sociale (cosa che, implicitamente, ed in qualche misura, già avviene).

Per quanto moltissimi colleghi psicoterapeuti dichiarino, nel desiderio di distinguersi dai modelli medici, di non voler “curare” o “guarire” nessuno, bensì solo “prendersi cura”, “sostenere”, “facilitare”, aumentare la comprensione e le capacità di pensiero e di azione dei propri pazienti, non mi risulta che a queste variazioni lessicali sia mai corrisposto, nell’immaginario collettivo, un cambiamento dei “significanti” di fondo in gioco: lo psicoterapeuta continua, nelle rappresentazioni sociali del proprio lavoro, a “curare” gente, anche se in cuor suo sa di non farlo come un medico e “concretamente” è assai lontano da tale approccio (ma cambia poco).

Da quanto va emergendo da questo mio argomentare, il mondo “psi” nei suoi principali filoni, quando non si accoda alle imperanti narrazioni consolatorie dello scientismo, non sembra ancora possedere la necessaria autorevolezza per poter proporre oggi narrazioni/suggestioni/mitologie autonome e soprattutto fruibili per il sociale.

Ma allora perché porre la questione di una presunta mission sociale per la psicoterapia date queste premesse? Data cioè l’intrinseca e storicamente fondata miopia e riduttività dello sguardo psicoterapeutico sulle faccende sociali.

La risposta più spontanea potrebbe essere che lo “psichista”, chiunque egli sia e da qualunque parte egli provenga, si occupa in senso generale di benessere e qualità di vita molto prima che di malessere ed ha questo mandato sociale esplicito (sebbene alla polarità semantica benessere/malessere sia davvero difficile attribuire un attendibile spessore ed autonomia concettuale, risultando di fatto come una scatola vuota che ogni epoca riempie dei propri vezzi e le proprie contingenze).

Una risposta più ponderata è quella che invece rintraccia il senso dell’agire “terapeutico” nell’etica della liberazione, della dignità e dell’autodeterminazione di individui e gruppi sociali: assume senso voler incrementare il benessere se questo proposito si colloca su un orizzonte più ampio, che riguarda cioè la politica dei legami sociali e la responsabilità ad essa connessa.

Lo scatto in avanti della psicoterapia e il riconoscimento di una prevalente mission sociale può allora finalmente corrispondere a questa augurabile metamorfosi profonda, a questa responsabilità etica verso la collettività, ed indicare una più verace collocazione di tali saperi in ambiti scientifici più adeguati a tali scopi e alle proprie prerogative: quelli umanistici, antropologici, sociali.

Per di più, solo riconoscendo questa prevalente mission sociale, è possibile per la psicoterapia distinguersi e riscattarsi dalla pervasiva commercializzazione della salute che caratterizza ogni atto ed ogni pensiero terapeutico nella postmodernità, proprio in virtù del fatto che il deliberato ancoramento della psicoterapia agli interessi prima descritti (liberazione, dignità, autodeterminazione) implica una sua non neutralità e una posizione necessariamente critica verso i pre-giudizi economicistici e consumistici propri della nostra epoca.

*gruppalità interne*, ed è in considerazione di queste che va radicalmente rivisto il concetto di mondo soggettivo quando esso viene trasportato dalla biologia animale allo studio dell’uomo: il mondo soggettivo umano è per la maggior parte rappresentato da un insieme relazionale (significati, affetti, intenzioni) che riproduce dall’interno la medesima forza coercitiva che originariamente venne esercitata sull’individuo dall’esterno, ed anziché esprimere quindi, come comunemente si ritiene, un’originalità individuale, narra, riattivandola, la propria tradizione culturale e specificamente famigliare.
Il costruirsi del mondo soggettivo e dunque l’esito di un *processo di ambientazione*, inteso non come un processo di adattamento di un soggetto al proprio ambiente, ma come quel processo per cui l’ambiente viene internalizzato, e fattosi cosciente, viene affermato dall’individuo come se fosse nativamente proprio.
(…) Ma il mondo soggettivo, in quanto esito di ambientalizzazione, è esposto alla stessa necessità di riconcepimenti originali che l’uomo alle cose percepite dal mondo ‘naturale’. Quell’ “animale embrionico” che l’uomo è rimobilita anche nei confronti del proprio mondo soggettivo la stessa necessità di rifondazione del reale, per la quale sin dalle origini egli ha umanizzato l’ambiente ‘naturale’, Si apre cioè un processo inverso, un *processo di deambientalizzazione* del mondo soggettivo, ovvero di una sua risoggettualizzazione, che consiste in quella *poiesis*, in quel fare trasformativo di senso, a cui mi sono già riferito. In termini pragmatici, ciò significa che la parte tendenzialmente *identica* alla propria tradizione, cioè i gruppi interni, vengono incessantemente
rivisitati dalla parte *autentica* dello stesso individuo, e questa rivisitazione implica una destituzione, per parti più o meno estese, della legalità propria del gruppo interno a favore dell’emergenza di una propria originale legalità, delle propria *auto-nomia*.
*Idem* e *autòs* sono i due termini con cui indico, per brevità questa doppia polarità dell’esperienza individuale, ed è tra questi due poli che si gioca la condizione dell’uomo come condizione conflittiva perché necessariamente creativa e quindi distruttiva o destinata a legami tradizionale di significazioni affettive”

In estrema sintesi, Napolitani qui individua le premesse per uno studio antropologico della psiche alternativo ad un approccio metapsicologico. Getta le basi per un superamento del rapporto mondo interno/mondo esterno, individuo/gruppo, non riducibile alla presunta prevalenza di un’ottica molare su un’ottica molecolare, o viceversa, ma ad una loro originaria co-presenza dialettica.

La recente riflessione di René Kaes (“Il disagio del mondo moderno e la sofferenza del nostro tempo. Saggio sui garanti metapsichici”. Intervento al Convegno “I disagi della civiltà”, Roma, 2005) sembra muovere invece da preoccupazioni cliniche ancor prima che teoriche e parte dalla constatazione, oramai diffusa, che la cultura del nostro tempo produce nuove configurazione psicopatologiche, e che per comprendere tali fenomeni occorra prendere in esame altri modelli di funzionamento psichico.

Ad esempio “la trasmissione intergenerazionale del disturbi psichici ha messo in discussione la concezione di una psiche esposta soltanto ai conflitti intrapsichici”. Collocando quindi su un livello meta l’analisi del disagio, emerge una nuova complessità e, a tal proposito Kaes prosegue: “Le trasformazioni riguardano le grandi strutture di inquadramento e di regolazione delle formazioni e del processo sociale: miti e ideologie, credenze e religione, autorità e gerarchia. Le incrinature, le disorganizzazioni e le ricomposizioni di questi garanti metasociali della vita sociale colpiscono i garanti metapsichici della vita psichica, ossia le formazioni ed i processi dell’ambiente psichico su cui si basa e si struttura la psiche di ogni soggetto. Questi garanti consistono essenzialmente nelle interdizioni fondamentali e nei contratti intersoggettivi che contengono i principi organizzatori dello psichismo”.

Questi due concetti, garanti metasociali e garanti metapsichici, sono molto promettenti perché indicano modalità di funzionamento socio-psichico ed una interazione tra domini differenti.

Contestualmente all’indebolimento dei garanti metasociali della vita sociale, (concetto introdotto da A. Touraine nel 1965, e che indica le strutture di inquadramento e regolazione della vita sociale e culturale), avvenuto dalla rivoluzione francese in poi, e alla progressiva incertezza verso ogni riferimento a valori condivisi e rappresentazioni, si è assistito, parallelamente, all’indebolimento dei garanti metapsichici della strutturazione dello psichismo.

sociopsichico) e non più come processi differenti e diacronici, dall’altro cominciano ad esplorare con maggiore precisione le leggi che presiedono ai processi antropologico-culturali che governano a loro volta numerosi (e profondi) processi di narrazione e rappresentazione, di strutturazione delle trame psichiche e, di converso, di istituzione immaginaria del sociale (Castoriadis).

Sulla base di queste riflessioni diventa conseguente ripensare la mission della psicoterapia, ed in una buona misura anche le sue procedure e strategie, perlomeno a partire dagli assetti interni dello psicoterapeuta.




Intervista a Sergio Benvenuto (Psicologo, psicoanalista e Ricercatore CNR)

Presentazione estesa di Sergio Benvenuto a fondo pagina

D. Ci siamo domandati, come AltraPsicologia, dello stato di salute della ricerca in Psicologia in Italia. Cosa puoi dirci dal tuo osservatorio? Quali sono secondo te i problemi principali?

R. Tu usi la P maiuscola per Psicologia: troppa grazia! Per me è sempre stata minuscola… Personalmente non ho mai fatto ricerca in Psicologia – piuttosto in psicologia sociale.
La mia impressione è che – a parte le solite importanti eccezioni – la psicologia in Italia è stata sempre una parente povera. Ma il punto è: che cosa s’intende per Psicologia? Ormai questo termine si usa solo per i rotocalchi destinati alle massaie e al pubblico lower class.

D. Quali sono le cause che hanno, secondo te, determinato questi problemi?

R. Il problema è sociologico: la psicologia, ripeto, è un campo per il pubblico di cultura medio-bassa. Quasi nessuna persona seria si dice più “psicologo”. E’ come un idraulico che si dicesse “stagnaro”. La psicologia è ormai una categoria della cultura di massa, non del mondo scientifico rispettabile. Chi non si vuole far ridere dietro oggi si dice “scienziato cognitivo”, “psicoanalista”, “psicoterapeuta”, “esperto di comunicazione”, “filosofo della mente”, ecc, mai “psicologo”!

D. Come mai è cambiata la denominazione da Istituto di Psicologia a Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione. Non che ci si affezioni ai nomi delle cose, ma questo cambiamento non sembra per caso un segnale di una trasformazione culturale più profonda?

R. Il mondo scientifico è soggetto a mode, fisime, conformismi, cotte, passioni, non meno del mondo dell’abbigliamento, per esempio, o delle arti o della musica. Oggi gli Anglo-Americani – che nella scienza come dappertutto sono gli Arbitri Elegantiarum – hanno deciso che quello che
contano sono le Scienze Cognitive e noi europei, alla periferia
dell’Impero, ci adeguiamo. Del resto al CNR per fare carriera devi pubblicare nelle riviste del Quotation Index, che sono – in grandissima maggioranza – in inglese e redatte da anglo-americani. Devi quindi assimilare la mentalità cognitiva anglo-americana, altrimenti sarai sempre un parya.
Credo che la voga del termine Cognitivo abbia essenzialmente un senso anti-psicoanalitico, come a dire: gli analisti, poveretti, si occupano della vita affettiva ed usano categorie affettive – noi cognitivi invece ci occupiamo della vita razionale (quindi, anche di quello che è razionale nella vita affettiva) usando categorie razionali. Per gli analisti i soggetti umani sono uomini e donne in calore, per noi cognitivi sono come software per computer, insomma processi logici. Le sedicenti scienze cognitive privilegiano un aspetto della vita umana – la cognizione, ovvero il sapere e il calcolo – e allo stesso tempo sono come ciò che privilegiano, moduli cognitivi. Il sapere si adegua al suo oggetto e viceversa.
Inoltre, si confondono scienze cognitive e cognitivismo. Alcuni scienziati cognitivi (Bateson, Varela, Edelman, Langacker, Lakoff, Rosch, Gallese, ecc.) non sono affatto “cognitivsti”. Le scienze cognitive sono interdisciplinari, nel senso che sono trasversali alle vecchie scienze accademiche (tra cui la psicologia) e si occupano spesso di questioni molto eccitanti. Il cognitivismo – derivante da Chomsky – è una teoria particolare che vorrebbe chiudere il campo, ma le scienze cognitive vanno ben oltre il cognitivismo! (Il cognitivsmo è l’approccio secondo cui la nostra mente è computazionale, insomma, come un software da computer.)
Anche se molto spesso i “cognitivisti” dicono “NOI siamo le scienze cognitive!”. Per fortuna non è così.
D. Cosa dovrebbe fare un giovane ricercatore, o un laureato, che volessero investire energie ed entusiasmo nelle ricerca in Psicologia per poter trovare degli spazi di azione e di sviluppo? A chi dovrebbero rivolgersi? Quali sono i campi più promettenti?

R. In Italia contano i potentati universitari: se un giovane troverà un professore potente – foss’anche in “Psicopatologia Sportiva” o in “Micologia Cognitiva” o in “Bizantinistica Psicologica” – e gli farà da portaborse per anni, probabilmente farà carriera. In Italia non si premia il merito e la creatività dei giovani: si premia solo la loro fedeltà ancillare (aiutare il professore a fare esami, a fargli da segretario, scarrozzarlo in auto, ecc.). Perciò siamo agli ultimi posti in Occidente per produttività scientifica (e non solo quindi per penuria di fondi).
Consiglio per i giovani attratti dalla ricerca, in psicologia o altrove? ANDARSENE ALL’ESTERO. In particolare, prendersi un PhD negli Stati Uniti – se hanno una famiglia che possa mantenerli in US per qualche anno – e cercare di fare ricerca là. L’Italia è sempre più un deserto. Quanto al
CNR, l’attuale governo lo sta di fatto smantellando.

D. Quali rimedi occorrerebbero per ripristinare, anche solo parzialmente, lo stato di salute della ricerca in Psicologia? Quale futuro si prospetta?

R. La domanda implica che la ricerca in Psicologia sia malata, e che quindi prima era in buona salute. Ma quando è stata in buona salute in Italia? In Italia non abbiamo mai avuto dei Piaget, o Wallon, o Gesell, o William James, o Vygotsky, ecc. Piuttosto siamo stati grandi in pedagogia – vedi Montessori o don Milani.
Come ho detto sopra, Psicologia ormai è un termine tabù: chi dice “sono psicologo” è come chi dicesse “sono un cocchiere di carrozelle” oggi nel 2005. Certo esistono ancora, in particolare a Firenze, dei conduttori di carrozzelle, ma non credo che sia la professione dell’avvenire!
E poi, QUALE psicologia? Ho sempre concepito le facoltà di psicologia come certi quartieri delle metropoli americane, dove c’è da una parte il ghetto dei negri, dall’altra il ghetto degli ebrei, dall’altra quello dei cinesi, e dei russi, ecc. ecc. Il quartiere ha un unico nome, ma di fatto la popolazione è del tutto eterogenea. La Psicologia è un’invenzione della storia accademica d’Europa, non una regione dell’Essere. E’ un cerchio arbitrario tracciato sulla sabbia. Non ho mai pensato che esista la psicologia, e nemmeno la Psicologia come tu scrivi.
Di fatto si iscrivono a psicologia persone di culture, vocazioni,
interessi, mentalità del tutto diverse, se non opposte. Si iscrive a Psicologia la ragazza che aspira solo ad essere “una mamma abbastanza buona”, così come chi vuole approfondire le neuroscienze o la psicoanalisi lacaniana! Che c’è in comune tra questi esemplari?
Personalmente, non ho mai considerato un laureato/a in psicologia un mio/a collega, e credo che buona parte dei laureati in psicologia avrebbero orrore nel dirmi un loro collega.
Personalmente, scinderei la facoltà di psicologia in dipartimenti distinti: uno di Psicologia Pratica (per tutti quelli che vogliono aiutare l’anima del prossimo, infermieri dello spirito, educatori, psicoterapisti, ecc.), un’altra di Scienze della Mente (e non cognitive!) e infine un’altra di Scienze Critiche (il dipartimento nel quale io vorrei insegnare). La psicoanalisi seria dovrebbe entrare in quest’ultima.

Presentazione di Sergio Benvenuto

Risiede a Roma.
Psicologo, psicoanalista e filosofo, è ricercatore presso l’Istituto di
Scienze e Tecnologie della Cognizione (ex-Psicologia) del CNR a Roma.
E’ membro del comitato scientifico della Società Gruppo Analitica Italiana
(SGAI) e responsabile per l?Italia dell’Institut des Hautes Etudes en
Psychanalyse, con sede a Parigi.
Laureatosi in Psicologia all’Università di Parigi nel 1973, si è quindi
laureato in sociologia all’Università di Urbino nel 1976. Ha seguito
l’insegnamento di Roland Barthes e Jacques Lacan a Parigi, di Elvio
Fachinelli e di Diego Napolitani a Milano. Ha insegnato nelle università di
Siena, Chieti-Pescara, Trento e Catania, ed è stato per due anni Visiting
Researcher alla New School for Social Research di New York.

Direttore del semestrale “Journal of European Psychoanalysis”, che si edita
a Roma e a New York, è stato capo-redattore del trimestrale “Lettera
Internazionale” (del cui comitato scientifico fa tuttora parte) ed è
columnist del trimestrale Lettre International di Berlino.

Ha pubblicato alcuni libri, e oltre 360 saggi (su oltre 70 riviste,
italiane e straniere), sulla filosofia delle scienze sociali e della
psicologia, sulla psicologia sociale, sulla teoria psicoanalitica e sugli
Studi Culturali. Le sue pubblicazioni sono in varie lingue – inglese,
tedesco, francese, ungherese, spagnolo, croato, rumeno, russo, ecc.
Tra i suoi libri:

“La strategia freudiana”, Liguori, Napoli 1984
“Confini dell’interpretazione. Freud, Feyerabend, Foucault”, Teda,
Castrovillari 1988
“La bottega dell’anima” con O. Nicolaus, FrancoAngeli, Roma 1990
“Capire l’America”, Costa & Nolan, Genova 1995
Capitoli di “Kursbuch Stadt. Stadtleben und Stadkultur an der
Jahrtausendwende”, Redaktion Stefan Bollmann, DVA, Stuttgart 1999
“Dicerie e pettegolezzi”, Il Mulino, Bologna 2000; Edizione ungherese:
Városi legendák. Miért hisszük el, amit mondanak? Casa editrice Gondolat,
Budapest 2004
?Un cannibale alla nostra mensa. Gli argomenti del relativismo nell?epoca
della globalizzazione?, Dedalo, Bari 2000
“Perversioni” – 2005 in stampa




Il mito infranto dell’evidence-based in psicoterapia

Chi aveva cantato vittoria sulla validazione “scientifica” delle procedure psicoterapeutiche, dovrà attendere probabilmente qualche centinaio di anni.
No, non si tratta della solita diatriba tra sperimentalisti e anti-sperimentalisti, o tra psicoterapeuti cognitivo-comportamentali e psicodinamici, no, troppo semplice, si tratta invece di una brusca retromarcia proprio in casa sperimentale.

Il “colpevole” si chiama Drew Westen, noto e accreditato ricercatore di Atlanta, portabandiera dell’empirismo in psicoterapia, primo autore del recente saggio “The empirical status of empirically supported psychotherapies: assumptions, findings, and reporting in controlled clinical trials”. Psychological Bulletin, 2004, 130: 631-663. 2004 by the American Psychological Association, tradotto in italiano in Psicoterapia e Scienze Umane, 1/2005 (Franco Angeli editore): “Lo statuto empirico delle psicoterapie validate empiricamente: assunti, risultati e pubblicazioni delle ricerche” Drew Westen, Kate Morrison, Heather Thompson-Brenner.
Non si tratta dunque del solito scettico o di un pericoloso rivoluzionario anti-sistema, tutt’altro. La critica proviene dall’interno, che più interno non si può.

Chi volesse trovare un’esauriente sintesi delle oltre 70 (!) pagine di questo saggio può consultare l’articolo a cura di Paolo Migone, direttore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane.

Il nostro Drew Westen, dunque, rimette radicalmente in discussione tutta una serie di certezze su cui si è fin qui fondata la ricerca americana in psicoterapia e le due siglette magiche che davano una certa baldanza e sicurezza, RCT (Randomized Clinical Trials, studi clinici controllati randomizzati) e EST (Empirically Supported Treatments, trattamenti supportati empiricamente o “evidence-based”), pare che, secondo l’autore, non possano più raccontare alcuna storia mitica sulla verità dell’efficacia in psicoterapia.
Questa storia va ineluttabilmente riscritta. Solo che non si sa ancora bene come.

Le linee-guida fin qui utilizzate dalla ricerca, secondo quanto dimostra Westen, si sono fondate essenzialmente su assunti falsi o quantomeno artefatti:

Tali assunti – che la psicopatologia è altamente malleabile, che la maggior parte dei pazienti può venire trattata per un unico problema o disturbo, che i fattori di personalità sono irrilevanti o di secondaria importanza nel trattamento dei disturbi psichiatrici, e che un’esatta applicazione degli stessi metodi sperimentali usati in altre aree della psicologia e nella ricerca in psicofarmacologia costituisce il principale se non l’unico criterio per identificare strategie di interventi terapeuticamente utili – risultano validi solo se applicati in una certa misura a certi tipi di trattamenti per alcuni tipi di disturbo e con le precisazioni del caso, anche perché la loro applicazione indiscriminata può condurre ad errori di valutazione determinanti”.

E più avanti:

Siamo ben lontani dal sapere in che misura le conclusioni qui proposte, anche quelle più caute, siano generalizzabili alla popolazione dei pazienti trattati nella comunità, e questo in ragione degli elevati, e altamente variabili, tassi e criteri di esclusione che rendono difficile aggregare ed applicare alla popolazione di coloro che chiedono un trattamento terapeutico i risultati provenienti
dagli RCT
”.

Traduco in un linguaggio più accessibile: campioni sperimentali sostanzialmente fittizi; esclusione irrealistica dei disturbi di personalità dai campioni; protocolli terapeutici manualizzati applicati come a topini bianchi; durate illogicamente brevi degli interventi; follow-up non sufficientemente prolungati nel tempo; criteri medici trasferiti meccanicamente in ambito psicologico; e mille altre eccezioni e sfumature sollevate dal nostro eroe a smontare, pezzo a pezzo, un approccio sperimentale alla psicoterapia del tutto inaccettabile e assolutamente non esportabile ad una popolazione umana reale!

Insomma, sembrerebbe proprio che i criteri che (forse) si attagliano alla ricerca medica, ahimè, male si adattano alla psicoterapia. Ma guarda un po’, che sorpresa!
Ma, attenzione, Drew Westen è tutt’altro che contrario all’empirismo nella ricerca in psicoterapia, considerato importantissimo per la crescita delle pratiche cliniche, ed egli tenta – non saprei prevedere con quali risultati – nella seconda parte del suo lavoro, di trovare una sintesi tra metodi statistici e metodi naturalistici, una correlazione tra risultati codificati RCT e risultati “comuni”.

Noi sappiamo però come, specie in ambiente americano, siano le compagnie di assicurazione (quelle che rimborsano solo le terapie comprovate come “efficaci”) e le compagnie farmaceutiche le realtà sociali ed economiche che informano, orientano e promuovono questo inverosimile tipo di ricerche. Ad esse, com’è noto (e detto senza scandalo o moralismo), interessa molto più far quadrare i conti piuttosto che accrescere il benessere sociale, o soltanto dei propri clienti. Le statistiche sono utili per prevedere le fluttuazioni e gli andamenti dei consumi e dei mercati, ed è dunque l’uomo consumatore l’unico possibile target di questo approccio.
Non l’uomo!

Il moto di ribellione di Westen a questo punto assume, a mio parere, la forma di un appello a tutta la categoria di ricercatori e clinici in psicoterapia affinché si svincolino da queste strettoie che, culturalmente, limitano e mortificano la ricerca trasformandola in una sorta di girandola di artifici statistici (atta a vendere prodotti a clientele piuttosto che a dimostrare l’efficienza delle buone pratiche), e si auto-determinino definendo autonomamente i criteri di validazione della ricerca stessa “capovolgendo la relazione tra disegni sperimentali di efficacia (efficacy) e di efficienza (effectiveness) come
è attualmente concepita
”.

Un altro punto sensibile è che a volte – compagnie a parte – sono proprio gli Stati nazionali, o loro sottoprodotti (enti, ministeri, centri di ricerca accreditati, etc..) che, in assenza di giudizio e competenza, finiscono per mutuare ed assumere come sensate le posizioni scientifico-culturali dell’evidence-based come le uniche voci autorevoli sulla validità delle pratiche psicoterapeutiche. E qui la frittata è presto pronta in tavola!
In Francia, ad esempio, pare sia in corso una annosa vertenza nazionale tra psicoterapeuti e ministero delle salute proprio su questo genere di questioni, a partire dal fatto che le uniche psicoterapie “validate evidence-based” (e dunque “passabili dalla mutua”) sono quello comportamentali-cognitive manualizzate ed effettuate in 6-16 sedute. Tutte le altre non rientrano nei criteri previsti (me lo diceva il babbo di andare a lavorare con lui…!).

Si apre, a questo punto, la futura e prossima vicenda dell’accreditamento delle psicoterapie anche qui da noi in Italia. Secondo quali criteri il ministero della salute distinguerà (semmai lo farà mai) tra le psicoterapie quelle efficaci-efficienti e quelle non, essendo ormai crollato il bel castelletto dell’evidence-based?
Furbi e lobbies di ogni genere si organizzeranno senz’altro nel dimostrare l’indimostrabile o viceversa nel lasciare, in perfetto stile italiano, tutto assolutamente amorfo ed indefinito, ma di ricerca in psicologia e psicoterapia (not evidence-based) da noi non se ne parla nemmeno sotto tortura