L’epoca delle psicoterapie tristi: San Precario, proteggici tu!

Mutazioni in corso (e paradossi)
La psicopatologia è in aumento nel mondo occidentale (e non solo), l’OMS lancia un allarme per il 2020 (cioè domani) su questa emergenza, molti osservatori e tutte le statistiche epidemiologiche segnalano un’impennata della patologie dell’infanzia e dell’adolescenza, ed il recente libro francese di M Benasayag e G. Schmit “L’epoca delle passioni tristi” (a cui il titolo di questo scritto fa non casualmente riferimento) è già una prima buona elaborazione su tale scenario. Sono passati soli 12 anni dall’uscita del libro-intervista di J. Hillman, “100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”, e le inquietudini e le considerazioni di quel testo sono sempre più attuali.
Mi limito ad accennare al dato quantitativo. Non oso avventurarmi nella complessa questione delle continue trasformazioni delle forme del patire.

Pur non scivolando in un facile millenarismo, e volendo trascurare i dati più allarmistici riguardanti la psicopatologia riconoscibile, “siglabile”, non si può più continuare a trascurare la trasformazione profonda degli stili di vita degli ultimi decenni e le conseguenze di tale trasformazione sulla quotidiana conduzione delle “normali” esistenze, dunque sulle nostre menti. Essendo tutto ciò sotto i nostri occhi, tutto intorno a noi e dentro di noi sembra sottrarsi paradossalmente alla nostra osservazione. Alla “società narcisista” di Lasch oggi possiamo senz’altro affiancare la società bulimica, la società depressa, la società del panico, la società anestetica dell’intasamento mediatico, la società precaria ed infine la società impulsiva, e quant’altro.
Nel frattempo è oramai diffusa sensazione tra gli addetti ai lavori che l’attività privatistica dello psicoterapeuta diventerà presto un ricordo del passato o appannaggio di pochissimi: colleghi giovani (e non) non lavorano e arrancano posizionandosi su lavori di ripiego; il mercato della psicoterapia è ormai da molti anni demenzialmente chiuso su se stesso e sfrutta, illudendoli, i numerosissimi allievi formandi in psicoterapia blandendoli con titoli di cartone.
Si assiste allora al dato paradossale per il quale pur essendo questa l’epoca di maggiore produzione di psicoterapeuti (se ne sfornano migliaia l’anno, grazie alla lungimiranza e alla magnanimità delle precedenti politiche professionali…) e pur essendo ciò corrispondente all’epoca di maggiore diffusione del disagio psichico, GLI PSICOTERAPEUTI SI CANDIDANO, NONOSTANTE QUESTO, AD ESSERE SEMPRE PIÙ UN POPOLO DI DISOCCUPATI O DI PRECARI. COME MAI?

Chi ha bisogno della psicoterapia?
I conti non tornano, signori, qui qualcuno sta truccando. Ma come, la gente sta male e gli psicoterapeuti si girano i pollici o sono colti da stupore?! Cosa impedisce loro d’intercettare il disagio sociale invece di occuparsi unicamente della variante umana (del tutto minoritaria/elitaria) denominata “Individuo-che-frequenta-una-stanza-con-targa”?
Beh, qui la faccenda si complica un bel po’ e forse dovremmo svolgere analisi che ripercorrano la storia delle nostre discipline e le culture istituzionali che fin qui hanno prevalentemente colonizzato e ammorbato le nostre formazioni (a su questo mi aggiorno ad altro intervento).
Oggi assistiamo però ad un fenomeno “nuovo”: l’attuale e progressiva “industrializzazione della cultura” (Lyotard, 1979) che pervade ogni segmento della nostra vita sociale, cambia radicalmente le carte in tavola e le regole del gioco. Ciò che si modifica essenzialmente, nel modo di sentire e nello scambio sociale, è sia il modo di contattare i bisogni, sia il modo di formulare le domande (qui mi limito alle domande formative e terapeutiche), modalità veicolate da variabili semiotiche sempre più iscritte nelle logiche economicistiche. Le istituzioni psicoterapeutiche recepiscono la delega sociale e raccolgono bisogni e domande, ma nel fare ciò non possono sottrarsi alle stesse logiche economicistiche per le quali la corsa all’accaparramento dell’allievo e del paziente (che a volte coincidono, in onore del principio molto etico per cui il limone va spremuto fino in fondo) diviene l’elemento collusivo prevalente.

Un altro punto è che questo nuovo assetto rende di fatto illeggibili (od opacissimi) bisogni e domande formative e terapeutiche, ma al contempo l’accelerazione dei processi obbliga a fornire risposte, comunque. Da ciò deriva, fisiologicamente, la “moneta falsa” della formazione standardizzata ed il conseguente degrado degli apparati formativi e dei profili professionali (ma questo in realtà comincia già dal corso di Laurea in Psicologia, sul quale è meglio tacere).
Risultato: le scuole di psicoterapia sono diventate cacciatori di allievi e gli psicoterapeuti, giovani e meno giovani, cacciatori di pazienti. Certo, possiamo intendere questi fatti solo come problemi di cattivo marketing, ma se vogliamo evolverci siamo costretti e svolgere riflessioni un po’ più articolate. Se ciò non dovesse avvenire, il rischio è che allievi e pazienti giustifichino, per il solo motivo della loro “esistenza commerciale”, il nostro esistere come formatori e terapeuti: questo fa di scuole e studi di psicoterapia ammiccanti boutique del pret-à-porter

Nel frattempo le risposte della psicoterapia si sostituiscono immediatamente, non solo nel marketing, ma nell’immaginario collettivo, con il massivo uso di farmaci, con la riproposizione di culture istituzionali semplificate e controllanti, con l’affermazione di modelli psicoterapeutici rapidi ed indolori, ipertecnicistici, medicalistici e preformati. E se non bastasse, in alternativa ci sono pur sempre i maghi: hai visto mai!
Il “Sociale” sembra avere, dunque, sempre meno bisogno di questa psicoterapia, di quella psicoterapia cioè che abbiamo coltivato nelle nostre formazioni, nata e cresciuta in ambientazioni culturali radicalmente differenti da quelle odierne.

Sul piano delle pratiche, una psicoterapia disattenta ai processi di mutazione può facilmente diventare l’inutile presidio finale, molto, ma molto a valle, di catene di eventi patogeni che solo apparentemente (epifenomenicamente) accadono nelle famiglie, nei gruppi, negli individui, nelle storie, ma che in realtà riguardano l’organizzarsi di fenomeni nuovi su scenari sempre più complessi che possono avvenire al di fuori dalla nostra portata osservativa.
Molto più addentro alla contemporaneità (non sembri una futile provocazione) compagnie di assicurazioni e multinazionali della ricerca pubblicitaria, che per espliciti e stringenti motivi di cassa sono costrette a studiare con rigore l’evoluzione della società. La psicoterapia intanto sonnecchia. In sintesi: culture e mercati drogati e saturi a fronte di orde di psicoterapeuti sempre più attoniti e a spasso.

Si aprono a questo punto almeno due possibili strade: o ci si piega fatalisticamente all’andazzo degradante e alle richieste semplificate dell’industria culturale della psicoterapia, e questo vuol dire svolgere diligentemente il compitino andando appresso ad ogni folata di vento del mercato, strizzando l’occhio ad ogni moda e rimanendo dentro le nostre stanzette-fortini; o si prova a riformulare radicalmente il compito, ridefinendo lo spazio d’azione della psicoterapia, percorrendo la complessità delle sfide sociali e scommettendo sulla qualità alta delle proposte formative.