LAVORARE IN SICUREZZA. LA SALUTE PSICOLOGICA E LA TUTELA DEGLI OPERATORI SANITARI.

Il 03 maggio 2023 in tutta Italia sono organizzate manifestazioni in memoria della dr.ssa Barbara Capovani, medico psichiatra, uccisa sul lavoro da un ex paziente della psichiatria di Pisa.

Come comunità professionale di psicologi ci uniamo al cordoglio per la morte della dr.ssa Capovani e come AltraPsicologia Lombardia parteciperemo alla fiaccolata. 

Molti ordini degli Psicologi hanno aderito all’iniziativa.

La manifestazione nasce anche per chiedere maggiori tutele per il personale sanitario.

Il tema delle aggressioni verso il personale sanitario è estremamente attuale, negli ultimi tre anni l’Inail ha contato 5000 episodi denunciati di aggressioni ai sanitari, che nel 70% dei casi sono donne. Si conta che circa il 35% degli episodi avvenga nei servizi di salute mentale. Più tutti i casi che non vengono denunciati.

Come psicologi conosciamo bene la situazione di reparti e servizi territoriali, con scarse risorse, poco personale e molti casi complessi da seguire.

La carenza di risorse ha un impatto diretto su chi ha un disagio mentale, perché nelle situazioni di scompenso psichiatrico, acuzie o sintomi esternalizzanti è necessaria una presa in carico rapida, non solo farmacologica ma anche psicologica di ascolto, contenimento e nel lungo periodo di psicoterapia. 

Si aggiunge il tema della prevenzione. 

La violenza in molti casi è un prodotto del contesto. 

Investimenti e risorse sono necessari e urgenti dopo anni di tagli al comparto: per ridurre i tempi d’attesa nei servizi territoriali, garantire un pronto soccorso psichiatrico con più personale, sia medico che psicologico che infermieristico. Serve la creazione di spazi idonei per la messa in sicurezza degli operatori.

E’ basilare fare una formazione psicologica agli operatori sanitari sulla gestione dello stigma e della relazione, per imparare a lavorare in modo sicuro con l’utenza che diviene aggressiva. 

Mettere in atto tecniche di comunicazione e de-escalation del conflitto, prevenire la conflittualità, utilizzare l’assertività, saper fare l’analisi dei comportamenti a rischio. 

Saper gestire queste situazioni può fare la differenze in molti casi, modificando l’assetto aggressivo dell’utenza.

Ci sono poi tutti i casi di antisocialità, marginalità e dipendenza da sostanze che giungono ai servizi, ma necessitano di una presa in carico differente e costante nel tempo. La terapia psichiatrica è sufficiente? 

Queste persone non rientrano nello specifico nei percorsi riabilitativi psichiatrici e nella residenzialità delle  REMS. Le REMS sono nate 8 anni fa con la funzione di stabilizzazione dei sintomi, cura e riabilitazione psichiatrica in alternativa agli ospedali psichiatrici giudiziari per gli autori di reato con diagnosi. Ma come ha denunciato la Società Italiana di Psichiatria, vengono utilizzate in modo improprio per persone spesso con misura di sicurezza provvisoria che non hanno una patologia psichiatrica.  Aumentando la lista d’attesa per chi ne ha reale necessità.

Se l’ospedale psichiatrico non era la soluzione, oggi si assiste ad un vuoto sia territoriale che residenziale che lascia un margine di rischio alto per il personale di cura, sia per parenti e familiari, che per i comuni cittadini.

La sinergia tra forze dell’ordine, magistratura e servizi socio sanitari non è garanzia di sicurezza, servono leggi e procedure più tutelanti.




Psicologi e divulgazione sui social. Con quali criteri?

Di Nicole Adami e Alfredo Verde

I social sono la vetrina pubblica contemporanea che permette a molti colleghi di farsi conoscere, divulgare, esprimere pareri e opinioni su temi sociali e psicologici.

Si sta creando un Digital Professional Divide tra chi sa sfruttare le nuove tecnologie, promuovendosi attraverso i social, e chi invece non li utilizza.

Ma nessun marketing ben riuscito è garanzia di qualità.

La capacità di essere incisivi e avere follower sui social è legata alla conoscenza degli algoritmi e delle strategie di posizionamento. Non alla competenza e alla serietà professionale.

Osserviamo centinaia di post, reel, video accattivanti, acchiappalike, ma privi di riferimenti scientifici, che possono banalizzare alcuni sintomi, aumentando un senso di inadeguatezza e ansia in chi legge; oppure stigmatizzano alcuni disturbi mentali, in questi anni il narcisismo è in testa.

Disturbi spesso malamente intesi e soprattutto diagnosticati attraverso il relato di pazienti presunti/e vittime di tali soggetti.

E’ importante riflettere sugli effetti negativi di una divulgazione priva di bibliografia scientifica. Talvolta emerge una grossa confusione fra quanto può essere definito “scientifico”.

In un recente dibattito su un noto social, ad esempio, a un collega che le obiettava di non basarsi su “articoli” scientifici, un altro collega rispondeva che lui non si riferiva ad articoli, ma a libri (!).  E i libri cui si riferiva erano costituiti da… semplici riferimenti a nomi di prestigiosi colleghi stranieri, mescolati con nomi di meri divulgatori, spesso neppure psicologi, autori di agili volumetti che semplificano le diagnosi psicologiche e le fanno diventare etichette simili agli spilli che inchiodano le farfalle negli espositori.

Ma cosa è scientifico?

Tutto ciò che ha passato il vaglio della comunità scientifica, cioè articoli sottoposti a revisione anonima da parte di altri studiosi del settore, inseriti in riviste indicizzate e citate sui più noti motori di ricerca internazionali, come WebofScience, Scopus, Pubmed.

La scienza non si misura in like o followers, come alcuni colleghi credono, confondendo i social con l’Accademia di Stoccolma, ma in citazioni.

Perchè è importante che ci sia un riferimento alla ricerca scientifica?

Perchè l’argomento della psicologia riguarda soprattutto l’essere umano, i cui comportamenti e stati mentali possono venire letti e interpretati in modi diversi. In chiave filosofica, antropologica, religiosa, pedagogica, o in chiacchiere da bar.

Ma chi è psicologo deve ricordarsi che la sua professione rientra tra le professioni sanitarie, quindi deve necessariamente rifarsi a basi scientifiche.

Anche la psicologia clinica e la psicoterapia non sfuggono a queste regole; e anche la diagnosi psicologica quindi, che spesso deriva da intuizioni (tecnicamente da abduzioni nel senso di Charles Sanders Peirce, e cioè dalla sussunzione di un fatto osservato sotto un concetto noto) non sfugge al controllo attraverso la verifica con i criteri che derivano dalla ricerca. Convenzionali certamente, ma confermati tramite procedure di tipo induttivo/deduttivo tramite confronti tra campioni clinici e campioni di controllo.

La legge cosa dice? 

Le norme deontologiche che regolano la nostra professione affermano proprio quanto sopra abbiamo argomentato. Gli articoli 5,7,8 del Codice Deontologico degli psicologi sono fondamentali: ci ricordano che noi psicologi non possiamo diffondere semplici opinioni, teorie pressapochiste o esperienze personali spacciandole per psicologia.

Possiamo AVERE opinioni personali, abbiamo la libertà di esprimerle, ma dobbiamo SPECIFICARE che non c’è niente di scientifico o psicologico in quelle opinioni; oppure che si tratta di intuizioni (abduzioni) che hanno una validità scientifica ancora in discussione e comunque dubbia, e che richiederebbero ulteriore ricerca allo scopo di essere confermate.

Anche l’esperienza personale può contare (come evidenziano le storie di vita dei grandi innovatori della psicoterapia), ma deve condurre alle intuizioni e validazioni di cui sopra.

Quanto privato nella vita pubblica online?

Si nota di frequente una commistione sui social tra la vita privata e la professione. L’utilizzo di immagini riconoscibili dei figli, oppure cronache di vita privata, che ruolo hanno nel marketing e nella costruzione della propria immagine professionale? Che effetto può avere sull’utenza che legge?

La riflessione sulle self disclosures, ovvero le autoaperture e l’esposizione della vita privata dello psicologo all’interno degli interventi psicoterapeutici, che tuttora è molto praticata a livello scientifico, andrebbe discussa e ponderata nel mondo social.

La metariflessione sul mondo social

Spesso chi vende consulenza agli psicologi per aumentare i propri followers sui social pare non conoscere il codice deontologico, e trascurare gli aspetti metariflessivi e relazionali che caratterizzano in modo specifico la nostra professione.

I social sono mezzi potenti che, se usati bene, possono contribuire alla diffusione di una cultura della salute mentale.

Alla luce di tutto ciò, è indispensabile che parta da noi psicologi una riflessione ampia sull’uso professionale dei social!

Ma mancano linee guida ufficiali da parte degli Ordini, mancano ricerche sugli effetti della divulgazione psicologica tramite social. Abbiamo un documento sulla digitalizzazione della professione. Ma non offre linee guida.

Allora da dove iniziare?

Possiamo iniziare a dirci che i consigli “psicologici” snocciolati a sconosciuti in chat pubbliche, senza conoscere la situazione complessiva delle persone, sono pericolosi e non hanno nulla di terapeutico.

Oppure che i reel in cui si offrono i “5 magici trucchi per capire se stai con un narcisista” sono non scientifici e violano il codice deontologico.

Che non si può fare diagnosi su un social, in particolare su terze persone.

Che sparare giudizi facili contro le cattive abitudini o contro categorie generiche come “i genitori”, “gli insegnanti” o “la società” utilizzando reel e canzoncine, non ha niente di professionale.

Che l’ansia non la sconfiggi in 3 mosse, quando è davvero ansia patologica.

Che non esiste alcun trucco per far durare a lungo una relazione o raggiungere l’orgasmo perfetto.

Insomma, dobbiamo iniziare a distinguere tra il marketing aggressivo e la professionalità: è possibile creare modalità accattivanti per catturare l’attenzione dei fruitori, senza perdere serietà, credibilità e soprattutto scientificità! Gli algoritmi non aiutano in questo, ma la qualità paga.

Infine una provocazione.

L’utenza non è scema.

Gli utenti ci osservano, osservano come ci poniamo, con che toni, con che stile, con che linguaggio. Stanno imparando a mettere in discussione le nostre affermazioni e a chiedere fonti e riferimenti.

La divulgazione scientifica seria fortunatamente si sta ampliando sui social, e con lei una maggiore consapevolezza delle persone. Di conseguenza la competenza psicologica media nella popolazione sta aumentando.

Se l’obiettivo di questo marketing social “populista e alla buona” è un ritorno in lavoro concreto, ovvero un aumento dei pazienti e un maggior numero di richieste di consulenza, allora la leggerezza e l’opinionismo sono un volano che rende solo nel breve termine.

Mentre la serietà, la scientificità, la correttezza, che non sono sinonimo di pesantezza ma di professionalità, pagano nel lungo periodo e nel passaparola reale.

Nel frattempo, attendiamo con ansia che gli ordini di competenza ci forniscano linee guida redatte con accuratezza e nel confronto con la comunità professionale, e ci indirizzino a utilizzare i social in modo conforme ai criteri della buona divulgazione.

 

Nicole Adami
Alfredo Verde




Contro gli psicologi non psicoterapeuti?

Negli ultimi mesi un piccolo gruppo di direttori di alcune scuole di psicoterapia si sta muovendo per affermare che gli psicoterapeuti dovrebbero avere l’esclusiva su una serie di attività della professione di psicologo.

Sono andati prima a parlare con il Presidente dell’Ente di Previdenza e Assistenza degli Psicologi (ENPAP), per avere chiarimenti riguardo al bando borse lavoro, con l’intenzione eventuale di intentare una causa legale contro l’ente se le criticità da loro evidenziate non fossero state modificate.

I componenti della delegazione, a parte uno psicologo, sono medici psichiatri ultrasessantenni.
Tradotto in pratica: medici che vanno alla cassa degli psicologi a chiedere di escludere gli psicologi stessi da un bando di lavoro.

Ma sarebbe riduttivo fermarsi qui, la questione è complessa e l’origine del problema oramai decennale.

Questi stessi medici psichiatri, a fine carriera, in quiescenza e direttori di scuole di psicoterapia, sono andati anche dal Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, il CNOP.

Perché?
Per chiedere di modificare il nostro codice deontologico, allo scopo di delineare meglio i confini professionali tra psicologi e psicoterapeuti ed escludere gli psicologi senza specializzazione dal campo della psicopatologia.

Ma cosa c’è nel bando ENPAP che li ha mossi?
Il bando borse lavoro prevede di erogare interventi di supporto psicologico e psicoterapia gratuiti per la popolazione.
ENPAP mette a disposizione 5 milioni di euro per pagare i professionisti, con il duplice obiettivo di valorizzare e sostenere la professione di psicologo e avere un impatto diretto sulla popolazione che, post pandemia, vive numerose difficoltà psicologiche ed economiche.
Il bando prevede due livelli d’intervento: di primo livello, erogati da psicologi per persone con sintomi sottosoglia; di secondo livello per utenti con criteri di patologia ansiosa o depressiva, erogati da psicoterapeuti.

Questi criteri di primo e secondo livello non sono nuovi, vengono definiti già nel 2018-19 in un documento del CNOP sulla cronicità .
Inoltre tali criteri sono delineati anche nella Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità del 2021, sulle terapie per ansia e depressione. 

La critica di questa ristretta delegazione di psichiatri e psicologi è estesa: il bando non va bene, perché solo gli psicoterapeuti possono fare interventi verso la popolazione che presenta difficoltà, anche se non sono sintomi conclamati.
La divisione in interventi di primo e secondo livello li vede contrari, perché gli psicologi non dovrebbero fare nulla di clinico.

Non solo, ritengono che il codice deontologico non vada bene, perché non definisce in modo sostanziale i limiti di chi è “solo” psicologo.
Gli utenti, a detta loro, vanno tutelati dagli psicologi non psicoterapeuti. Gli psicologi non possono e non sanno fare interventi.

Balza alla mente la pessima regolamentazione che dal 1989 attraversa la professione di psicologo.
Quella di psicologo è l’unica professione in Italia che obbliga uno studente, dopo 5 anni di università, un anno di tirocinio e un esame di stato, (tra poco accorpati al percorso universitario) a dover investire altri 25mila € e altri 4 anni di formazione nelle scuole di psicoterapia private, per poter esercitare una professione, sanitaria per giunta.

Mi chiedo dove inizi il vero interesse a tutela dell’utenza da parte di questa ristretta delegazione di capi scuola, e dove invece nascano gli spettri per il rischio della fine di un’epoca per alcune lobby che da oltre 30 anni vivono di formazione e supervisioni.

In un mercato selvaggio e pieno di scuole (quasi 400 con più sedi in Italia) che al loro interno hanno orientamenti infiniti, talvolta piani di studio molto variopinti e corpi docenti (didatti si dice) a volte di provenienza più amicale che scientifica.
La formazione in psicoterapia, quando avviene in scuole serie, ha un enorme valore clinico e sanitario, fondamentale per la collettività.
Ma rimangono grandi zone d’ombra che favoriscono l’esistenza di situazioni che non sono in grado di garantire standard di formazione sufficienti.

Mi chiedo se la lotta di questa piccola delegazione di medici e direttori di scuole di psicoterapia, per restringere il più possibile il campo d’azione degli psicologi, a favore degli psicoterapeuti, sia realistica e tenga conto di tutto il contesto, dei limiti del sistema formativo, oppure no.

Perché le battaglie professionali fatte da chi appartiene ad un’altra professione ed è alla fine della sua carriera, vanno decisamente attenzionate.
Mi torna inoltre alla mente un articolo del Sole24Ore, parla della generazione dei boomer che non passa il testimone e vorrebbe che il mondo rimanesse esattamente come loro lo hanno pensato, costruito, vissuto nei decenni scorsi. Sarà questo un caso del genere? Le decine di migliaia di psicologi non psicoterapeuti (circa 60mila!) che in questi decenni sono usciti dalle università e che vivono con redditi medio bassi, quale futuro lavorativo hanno nella mente di medici ultrasessantacinquenni?
Creare muri all’interno della stessa categoria professionale quale visione politica, sanitaria, economica può avere nel lungo periodo, se portata avanti da chi vuole barricate invece che riforme?

Tutte le forme di psicologia che intervengono sul disagio, come lo psicologo di base, lo psicologo scolastico e lo psicologo dell’emergenza, che valore assumono in una protesta che vuole bloccare l’agire dello psicologo?

Oggi quello che serve è un cambiamento legislativo che attraversi profondamente il mondo della psicologia, partendo dai percorsi formativi universitari, ai percorsi post-laurea e delle scuole di psicoterapia, servono riforme sostanziali, coraggiose e al passo con i tempi.
La psicologia italiana ha bisogno di una rivoluzione funzionale, per le decine di migliaia di professionisti psicologi, psicoterapeuti e non, e per quelli che verranno in futuro.
Rivoluzione gestita dagli stessi psicologi, che riconosca a ciascuno – psicologi e psicoterapeuti – il proprio valore e senza le ingerenze politiche di un’altra categoria professionale.




Ci sono un Counselor, uno Psicologo e uno Psicoterapeuta.

amici_barAl bar si incontrano un Counselor, uno Psicologo e uno Psicoterapeuta.

Il Counselor dice:

“Io sono un professionista accreditato dalla legge 04/2013. Io non curo le malattie, ma aiuto le persone in modo generico, faccio consulenza sul benessere, io miglioro la qualità di vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminazione. Faccio parte di un’associazione senza Ordine, il mio lavoro è libero, per legge si fonda ‘sull’autonomia, sulle competenze e sull’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica, nel rispetto dei principi di buona fede, dell’affidamento del pubblico e della clientela, della correttezza, dell’ampliamento e della specializzazione dell’offerta dei servizi, della responsabilità del professionista’. Insomma, suona tutto molto autoreferenziale e alla buona, ma posso farlo!

Lo Psicologo risponde:

“Io sono un professionista regolarmente iscritto all’Albo degli psicologi, dopo una laurea in psicologia di 5 anni, un tirocinio, l’esame di stato, e mi occupo di promozione del benessere, counseling, sostegno, ‘uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità’. Non so perché – caro Counselor – ho l’impressione che tu faccia un po’ il mio lavoro giocando sulle parole, ma risparmiandoti la formazione universitaria e il tirocinio! Ti ricordo inoltre che l’articolo 2 della legge 04/2013 recita che: ‘alle associazioni  sono  vietati  l’adozione e l’uso di denominazioni professionali relative a professioni  organizzate in ordini o collegi, non è consentito l’esercizio delle attività professionali  riservate  dalla  legge  a specifiche categorie di soggetti, salvo il caso in cui dimostrino  il possesso  dei  requisiti  previsti  dalla  legge  e  l’iscrizione  al relativo albo professionale’. Insomma, Counselor, non ti stai arrampicando sugli specchi?

Lo Psicoterapeuta risponde:

Io sono IL professionista, che dopo 5 anni di università, un anno di tirocinio, l’esame di stato, 4 anni di scuola di specializzazione e altri 4 anni di tirocinio gratuito e supervisione, fa quello che volete fare anche voi, ma decisamente meglio, con tutto il tempo e il denaro che ci ho speso! E in più solo io posso lavorare con le patologie, almeno da quel che si evince dalla legge 56 del 1989! Per cui voi, in teoria, potete fare poco e lo fate con meno strumenti e con poche competenze!”

Insorge lo Psicologo con il cappuccino in mano:

“sono un professionista sanitario e posso fare sostegno e riabilitazione, posso lavorare con il disagio… In Italia ci sono 364 scuole di psicoterapia, di tutto e di più, non si capisce nemmeno che cosa studiate, sembra un circo… Insomma, voi psicoterapeuti vi ritenete migliori ma con quali garanzie?”

Lo Psicoterapeuta innervosito si alza, ordina un caffè e ricorda a tutti che la legge 56/89 andrebbe migliorata, che le scuole di psicoterapia sono troppe e andrebbero regolamentate:

“Ma non è marciando sui limiti altrui che ci si può arrogare il diritto di lavorare con la salute delle persone, senza una formazione adeguata, aggiornata e scientifica, come da regolamento. Insomma, Psicologo, fai le pulci a qualche nostra pagliuzza mentre i Counselor cavalcano una trave!”

Il Counselor si beve un caffè d’orzo biologico in tazza grande e decide di restare ad ascoltare, tanto sa che lavorando nelle retrovie se la cava con poco: niente università, esami interni che si contano su una mano (a volte mezza), corsi di tutto un po’, minimo sforzo, massima resa.

Mentre gli altri due discutono di clinica, diagnosi, confini professionali, deontologia, tutte cose che non capisce poi tanto e che trova ridondanti, prende e se ne va.

Lo Psicologo ad un tratto si alza di fretta e dice allo Psicoterapeuta: “è stato un piacere, corro dai miei pazienti.”

Lo Psicoterapeuta finisce il caffè, si alza e paga per tutti.




Il bazar della psicoterapia

Trecentosessantaquattro (364).

Una più, una meno: è il numero delle scuole di psicoterapia riconosciute sul sito del MIUR.

Ogni scuola spesso ha più di una sede, per cui sul territorio possono quasi raddoppiare nel numero…


10937840_10152809958364219_1495379930_nCognitive, cognitivo-comportamentali, post-pre-neo analitiche, più o meno freudiane, costruttiviste, metaforiche, familiari e sistemiche, brevi e meno brevi, transculturali e dialettiche, comparate e somatiche, strategiche ed espressive, razionaliste e psicodrammatiche.

Ma psicodrammatica non è solo la scuola, lo è anche questa situazione.

Cosa ce ne facciamo di tutte queste scuole?  Nel solo Lazio ce ne sono 78….

Le scuole di psicoterapia, in teoria, sono state istituite negli ultimi venticinque anni per la formazione di quegli psicologi e medici che vogliono specializzarsi nella terapia psicologica.

Sulla carta, la specializzazione in psicoterapia (della durata obbligatoria di quattro anni), fornisce strumenti specifici per poter lavorare nel campo della salute mentale.  La professione di psicoterapeuta è quindi, formalmente, una professione sanitaria: si lavora nell’ambito del disagio mentale, di patologie più o meno gravi, di marcato disagio esistenziale.

La Legge 56/1989, che ha istituito la professione di psicologo, non ha però definito e chiarito in modo esplicito quali siano i criteri qualitativi della formazione: ne ha delimitato solo la quantità in termini di tempo.

Ed ecco che, in un quadro legislativo morbido, ognuno ha costruito il suo banchetto, ha esposto la sua merce e sta nel mercato delle psicoterapie.

Come è stato possibile che in soli venticinque anni aprissero una media di quindici scuole all’anno, degli orientamenti più diversi?

Come è stato stabilito se una scuola fosse sostanzialmente (e non solo formalmente) in grado di preparare in maniera solida gli studenti per una professione di tipo sanitario, a fronte di onorari che vanno dai 15 ai 20mila euro (spese escluse) in quattro anni?

“Venghino signori, venghino!”, ci gridano le diverse scuole.

Che a volte puntano su qualche nome risonante e sul proselitismo già dai banchi universitari. “Venghino, giovani psicologi!” confusi dal marasma di colori dei diversi siti promozionali e dalle teorie speculative.

shoah1“Venghino, paghino…”, e poi?

 E poi la situazione si fa complicata, perché non essendoci una base qualitativa comune nella formazione italiana, ogni scuola ci mette dentro quel che meglio crede il suo fondatore (o i suoi sottoposti). Non sono molte le scuole che insegnano una metodologia strutturata che non sia solo autoreferenziale, o tecniche evidence based e procedure con standard internazionali; in alcune scuole alla fine dei quattro anni viene chiesto di portare un solo caso come tesi finale.

Quattro anni davanti ad una bancarella per portare a casa un solo acquisto?

Quindi, a cosa servono quattro anni di scuola?

Ad ampliare la conoscenza, a fare esperienza, a lavorare su di sé, a riflettere sulla complessità del vissuto umano. Si, è vero, come terapeuti queste sono competenze importanti e necessarie. Ma se non si insegnano delle tecniche efficaci e di ampio respiro, va bene lo stesso?

Molti colleghi psicologi rifiutano l’aspetto sanitario del lavoro clinico, ricordano giustamente che l’essere umano a livello psicologico non è “sezionabile” e “oggettivabile” come può esserlo a livello corporeo, per cui il campo della salute mentale è più etereo e meno definibile del lavoro medico; di conseguenza, sono un po’ allergici alla rigidità scientifico-medica e alle pratiche cliniche evidence based.

Dimenticano però che, nonostante l’”unicità dell’animo umano e la sua irriducibilità”, vi sono elementi e processi comuni a molti sintomi psicologici, i quali nel corso dell’ultimo secolo sono stati studiati in modo sistematico non solo (come vuole certa vulgata) per “inscatolare le persone in grafici utili alle case farmaceutiche”, ma per permettere di creare dei protocolli e delle linee guida efficaci, ripetibili ed anche riadattabili a diverse situazioni problematiche.

Questi protocolli e questi metodi, che hanno dimostrato di funzionare, vengono insegnati sempre nelle scuole? La risposta è “no”.

Mentre sborso 20.000 euro sarò disposto a mettere in discussione quello che mi viene insegnato, se non è all’altezza degli standard internazionali?

Posso permettermi di autoflagellarmi, ammettendo che ho scelto di pagare qualcosa che non vale quello che ho speso, o alla fine mi convinceranno che quella è la strada migliore, e  “ok, il prezzo è giusto”?

E servono davvero quattro anni per qualificarsi come psicoterapeuta?

Per arrivare al mercato della psicoterapia abbiamo già studiato cinque anni all’università, più un anno di tirocinio, più un esame di stato (quindi sono già passati sei anni e mezzo circa).

tempoQuattro anni sono molti, considerando che spesso non ci sono contenuti tali da occupare quattro anni di corsi, che le tecniche si apprendono in tempi piuttosto rapidi e che oltre alla teoria (in parte studiabile autonomamente o con corsi specifici per argomento), è basilare avere qualcuno di esperto che ti guidi nel lavoro, da pagare ovviamente.

Quattro anni e 20.000 euro sembrano ulteriormente insostenibili soprattutto da quando una Legge recente e molto discussa, la 04/2013, ha facilitato figure pseudopsicologiche, che (grazie a corsetti privati, veloci e spesso privi di qualsiasi bussola scientifica), fanno un lavoro molto simile a quello degli psicologi, cambiando semplicemente il nome alle stesse attività.

Servono davvero 364 scuole diverse?

No.

Non sono garanzia di qualità formativa degli specializzati, e non offrono una formazione realmente controllata nei suoi livelli qualitativi.

Servirebbe una normativa più attuale, una Legge 1/2015 che faccia un po’ d’ordine in questo grande bazar caotico della psicoterapia italiana…