Referendum C.D.: più ambiguità e incertezza col nuovo articolo 8

Fra le occasioni mancate di questa revisione del Codice Deontologico, quella relativa all’art. 8 è forse la più deludente, perché la modifica che ci viene proposta è peggiorativa: introduce infatti un ulteriore elemento di ambiguità e di incertezza in un testo che già in partenza si presentava confuso e di difficile interpretazione e applicazione.

Il testo originario è il seguente:
“Lo psicologo contrasta l’esercizio abusivo della professione come definita dagli articoli 1 e 3 della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, e segnala al Consiglio dell’Ordine i casi di abusivismo o di usurpazione di titolo di cui viene a conoscenza. Parimenti, utilizza il proprio titolo professionale esclusivamente per attività ad esso pertinenti, e non avalla con esso attività ingannevoli o abusive”.

Il testo enuncia un principio, ma non dice esattamente a quale condotta sono tenuti/e psicologi e psicologhe, e in quali circostanze.
Già si poneva quindi il problema di cosa significhi in concreto «i casi di abusivismo e di usurpazione di titolo di cui viene a conoscenza», espressioni riferite a fattispecie diversissime che stanno nella stessa frase.

L’usurpazione di titolo è un fatto: se io non sono autorizzato/a all’esercizio della professione di psicologo, e pubblicamente (sui social, con una targa sulla porta, sui biglietti da visita, con delle affissioni) mi spaccio per esserlo, commetto un abuso (e un reato) facile da dimostrare, perché la prova o è materiale e lampante o non lo è.

L’abusivismo dell’esercizio professionale (reato grave, punito dal Codice Penale con la detenzione fino a tre anni e con multe fino a € 50.000) è molto più difficile da individuare e da provare.

Vediamo in breve quali potrebbero essere i criteri in base ai quali lo/la psicologo/a potrebbe farsi l’idea che un soggetto, esterno alla professione, la eserciti abusivamente.

Qui, diversamente dall’abuso di titolo, non c’è mai la prova documentale: si tratta sempre di elementi indiziari o di prove testimoniali.
Facciamo qualche esempio.

Il parrucchiere, mentre sistema la piega alla cliente, ne ascolta le confidenze relative alla sua vita coniugale e le dà interessanti consigli su come affrontarne le difficoltà: è sicuramente presente una forma seppure ingenua di “ascolto attivo”, di sostegno emozionale, di “alleanza d’aiuto”, ma il contesto non è istituito con una finalità consulenziale.
Così come non esercita abusivamente la professione psicologica un amico che ne consola un altro disperato perché la fidanzata lo ha lasciato.
Esercita abusivamente, invece, chi costruisce un contesto finalizzato all’esplorazione e alla valutazione di stati della vita mentale, e su questi interviene nella forma del colloquio (integrata o meno dall’uso di tecniche o esercizi specifici), fornendo azione non occasionale o informale di prevenzione, sostegno, abilitazione e riabilitazione che investono le emozioni, i processi cognitivi, le abilità o disabilità psicologiche di una persona che si pone spontaneamente e consapevolmente quale cliente.

Questo del tutto a prescindere dall’elemento economico: su questo la giurisprudenza penale è chiara, l’esercizio abusivo si configura anche con un solo atto e a titolo gratuito.

Insomma, nell’esercizio abusivo c’è un’intenzione precisa e per la sua realizzazione viene organizzato un vero e proprio setting. Non importa se a questo viene dato un titolo diverso, e la copertura di una denominazione anglofona che “suona bene”: counselor, coach, trainer, mentor, con la relativa aggettivazione di comodo “esistenziale”, “relazionale”, “mentale” e simili. (Ogni termine con la radice “psi” ovviamente viene evitato con cura).

L’art. 8 ha in teoria la duplice funzione di indurre gli psicologi e le psicologhe a farsi “sentinelle” contro l’esercizio abusivo della professione, e di avvertire che non possono collaborare in nessun modo alla formazione di soggetti potenzialmente abusanti: non solo mediante l’insegnamento (come prevede in modo inequivoco l’art. 21), ma anche ricoprendo incarichi amministrativi, di tutoring, supervisione etc.

Appare infatti evidente che, quando un soggetto sprovvisto di laurea in Psicologia investe tempo e denaro per formarsi come counselor o simili pseudo-professioni, il suo intento è di entrare nel mercato per rispondere in modo improprio tecnicamente e illegale sotto il profilo giuridico, a domande di intervento psicologico.
Come giudicare lo psicologo o la psicologa che asseconda questo percorso, incoraggia e sostiene questa formazione, ne legittima surrettiziamente la qualifica? Non solo qui vi è la mancata vigilanza contro l’abusivismo, ma vi è la complicità, l’istigazione, il concorso morale oltre che operativo.

Ecco allora che l’art. 8 del Codice Deontologico nasce, in origine, anche per stigmatizzare ogni possibile collusione, passiva e omissiva, ma soprattutto attiva, delle psicologhe e degli psicologi con l’abusivismo professionale.

Vediamo ora, evidenziata in corsivo, la “brillante innovazione” che modifica il testo dell’art. 8:
“La psicologa e lo psicologo contrastano l’esercizio abusivo della professione come definita dagli articoli 1 e 3 della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, e segnalano al Consiglio dell’Ordine i presunti casi di abusivismo o di usurpazione di titolo di cui vengono a conoscenza”.

Aggiungere ora al testo l’aggettivo “presunti” che contributo interpretativo, che chiarificazione fornisce? Introduce, piuttosto, un ulteriore elemento dubitativo e una inutile, anzi potenzialmente dannosa complicazione sotto il profilo procedurale, quando si dovrà giudicare la condotta di qualche collega che non abbia “presunto” l’esercizio abusivo della professione da parte di qualche counselor, coach, mentor o altro, quando era invece il momento di farlo.

È doveroso constatare dunque la futilità dell’aggettivo “presunti”, aggiunto al testo senza specificare a quale soggetto debba andare in capo il presumere: allo/a psicologo/a?, all’Autorità Giudiziaria?, agli organismi disciplinari dell’Ordine? Per forza, diremmo noi, allo/a psicologo/a, dato che, quando l’Autorità Giudiziaria o gli organismi disciplinari dell’Ordine siano già in possesso della ipotetica notitia criminis, non ricorrerebbe la necessità che l’iscritto/a si attivi per la segnalazione. E quale dovrebbe essere, infine, il criterio da seguire per l’azione disciplinare se – per pura insipienza, svagatezza, disattenzione, indecisione… – lo/a psicologo/a non “presumesse”. Come dimostrare, al caso, che “avrebbe dovuto presumere”?

Insomma, un articolo già problematico e di difficile applicazione – e per altro un articolo strategico, fondamentale per la difesa della professione dall’abusivismo – è stato pasticciato senza costrutto e, immaginiamo, senza consapevolezza.
A volte, si direbbe, l’ansia di fare comunque qualcosa, di esibire comunque dinamismo, di piazzare comunque una bandierina, fa premio sulla motivazione achievement che suggerirebbe di chiedersi prima di tutto quale obiettivo si vuole raggiungere, e in subordine come. E in mancanza di questa capacità, l’atteggiamento più virtuoso non sarebbe invece, piuttosto che creare confusione, non fare proprio niente e lasciare le cose come stanno?




Codice Deontologico: la necessaria riorganizzazione.

Il nostro Codice Deontologico ha un quarto di secolo. Fu redatto da un gruppo ristretto di “saggi”, che ebbero a disposizione un tempo limitato, considerato che la Legge professionale era del febbraio 1989, e 5 anni dopo, nel febbraio 1994, ancora non erano stati costituiti tutti gli Ordini territoriali (la prima applicazione della Legge, con le norme di sanatoria, era stata lunga e laboriosa).

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(1) IL METODO

Gli estensori del Codice Deontologico dovettero scegliere di necessità un approccio top/down: basandosi, con un criterio analogico, sui Codici Deontologici di altri Paesi, formularono un articolato che definirei di buon senso, anche se un po’ astratto. Più improntato a una impostazione epistemologico-esistenziale che non giuridica, più attento all’etica professionale “in sé” che non al suo interfaccia con il sistema giuridico in cui essa si iscrive.

Mi spiego. La giurisdizione disciplinare degli Ordini è parte del diritto pubblico: ne è quella che potremmo definire “l’ultima ruota del carro” — subordinata alle Leggi dello Stato, ai Codici Civile e Penale —, ma pur sempre un segmento della giurisdizione.

Le decisioni che i Consigli degli Ordini assumono in materia disciplinare hanno concreta e notevolissima rilevanza sulla vita degli/delle iscritt∂: sulla loro immagine sociale, sulla loro condizione economica, sulle loro prospettive di sviluppo professionale.

Non si può limitare il Codice Deontologico a princìpi e regole di condotta (vediamo più avanti la differenza e quale dovrebbe essere il rapporto fra gli uni e le altre) che prescindono da quanto le Leggi dello Stato prescrivono ai/alle professionist∂, talvolta sfidando persino le condizioni operative in cui ess∂ stess∂ si trovano a operare.

Porre la base del Codice Deontologico nei valori che si suppongono “universalmente” condivisi dalla comunità delle colleghe e dei colleghi è rischioso: più un valore è enunciato in termini generali, assoluti, più è presumibilmente condiviso, ma anche è più facilmente inteso e praticato modo difforme quando poi viene messo al confronto con la realtà vivente della professione.

Un esempio per tutti: accade talvolta che per proteggere il setting di un intervento psicologico si ponga il problema di come al tempo stesso rispettare il Codice Penale. Accade quando si viene a conoscenza di reati commessi da terze persone a danno di persone da noi assistite, accade quando siamo invitati dall’Autorità Giudiziaria o chiamati in giudizio a testimoniare su circostanze che riguardano persone assistite: rispettare il Codice Deontologiche e violare la Legge, o viceversa? Non è un problema da poco (ci torno su al § 4).

L’American Psychological Association poté permettersi, dopo la seconda Guerra Mondiale, di costruire il proprio Codice a partire da un sondaggio presso gli iscritti sulle criticità etico-giuridiche incontrate nella loro attività; le risposte vennero clusterizzate e ne scaturì un primo elenco di ethical standards che più tardi divennero ethical principles e code of conduct. Una ben chiara distinzione fra princìpi e regole, le seconde conseguenti dai primi, che ha permesso la redazione di un Codice a partire dalla realtà vivente della professione, e non da ideali teoricamente giusti, ma poco aderenti alla realtà, come invece nel nostro caso.

Sarà dunque meglio, riorganizzando l’articolato del Codice Deontologico, seguire il modello metodologico americano, e partire dai problemi viventi dei colleghi, più che da idee giuste ma spesso scollegate dalla realtà. La riorganizzazione del Codice Deontologico potrebbe seguire oggi un approccio bottom/up, non più top/down, facendo tesoro di quanto psicologhe e psicologi si sono trovati o meno sintonia con esso in questi anni, e di quanto sono in grado di assumere verso di esso una attitudine critica costruttiva.

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(2) L’EVOLUZIONE DELLA SOCIETÀ E DELLA PROFESSIONE

Sono passati 25 anni: problemi che allora erano inconcepibili oggi sono d’attualità. Basti pensare a due aree: l’uso dei social e le nuove opzioni economico-finanziarie che la professione propone. La normativa sulla pubblicità delle professioni sanitarie (Legge di Bilancio 2019, art. 1, c. 525) richiederebbe che essa non abbia carattere né “suggestivo” né “promozionale” (ma perché mai io dovrei fare pubblicità se non per promuovermi?… contraddizioni inspiegabili, a volte, delle Leggi stesse).

Oggi è impensabile che un∂ psicolog∂ che si affaccia al mercato non utilizzi FaceBook, Instagram e/o altri mezzi analoghi, servendosi dei linguaggi che questi sistemi richiedono di utilizzare. Ancora: oggi è del tutto normale che nella libera professione l∂ psicolog∂ ricorra a modalità di “aggancio” della clientela basate su un marketing aperto a scontistica, prestazioni iniziali gratuite, anticipi, abbonamenti, bonus etc.

Dove e come porre dei “paletti”? In che modo questi nuovi approcci alla costruzione di una immagine sociale della professione ne rinforzano o invece ne ledono il prestigio? Quando e come possiamo individuarne un vulnus del decoro e della dignità della professione?

Se non vuole apparire ed essere fuori dal tempo, il Codice Deontologico opportunamente rinnovato dovrà inevitabilmente fare i conti con queste e altre innovazioni, che richiedono di essere in qualche modo regolate sotto il profilo etico-giuridico.

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(3) DISTINGUERE FRA PRINCIPI E NORME.

Princìpi e norme deontologiche devono essere enunciati in modo chiaramente distinto e separato. Attualmente in ogni articolo del Codice Deontologico sono presenti gli uni e le altre senza una sufficiente discriminazione, ciò che rende difficile l’interpretazione tanto per il/la collega che si trova ad affrontare una criticità, che per la Commissione Deontologica e per il Consiglio chiamato a giudicare di eventuali infrazioni.

I princìpi vanno espressi con la forma verbale del modo indicativo, e corrispondere a criteri di condotta quanto più largamente condivisi dalla generalità della famiglia professionale: rispetto della dignità di persone assistite e di colleghi, piena assunzione di responsabilità del proprio ruolo professionale in qualsiasi contesto, presentazione obiettiva dei risultati delle proprie ricerche, capacità di indicare sempre i riferimenti teorico-tecnici del proprio operare etc.

Le norme, conseguenti a tali princìpi, devono essere espresse in modo imperativo (tipicamente con l’uso dei verbi ausiliari: “deve/non-deve”, “può/non-può”) indicando così con chiarezza cosa è consentito e cosa è vietato a seconda dei contesti in cui il/la professionista si trova a operare.

Non è un compito semplice: le norme del Codice Deontologico non si prestano a essere formulate secondo una disgiunzione binaria “consentito/non–consentito”: esse sono scontatamente espresse nella modalità che il filosofo del diritto Hans Kelsen ha definito come “regole consultive”.

Si tratta di regole che non impongono un comportamento adempitivo a-contestuale (pensate al semaforo rosso nella circolazione stradale: bisogna solo ubbidire, non c’è niente da capire), ma di regole che propongono un atteggiamento valutativo variabile a seconda delle condizioni concrete in cui un problema si presenta. Dunque: “deve/non-deve”, “può/non-può” a seconda di come una circostanza si presenta nella realtà vivente dell’esercizio professionale.

Il Codice Deontologico di una professione è sempre composto di questo tipo di regole: il/la professionista da una parte ha a mente un principio (il rispetto, la responsabilità etc.), dall’altra l’indicazione di una condotta che ne consegue, in modo differente a seconda dei contesti in cui il problema si presenta.

Non sempre prevalgono gli stessi principi. In certi casi, per es., prevarrà l’esigenza di proteggere il setting, in altre quella di tutelare l’incolumità o la sicurezza di terze persone, in altri ancora quella di promuovere la maturazione di una scelta autonoma da parte della persona assistita etc. Si pensi al caso in cui una persona di età minore riveli di subire molestie o maltrattamenti da parte di un familiare adulto; o a quello in cui una persona assistita di età minore riveli di avere comportamenti a rischio per la propria vita; o a quello in cui una persona adulta assistita riveli di avere comportamenti a rischio per la vita o la salute di una persona di età minore: la condotta del/della professionista psicolog∂ non potrà essere scontatamente la stessa nei tre casi esemplificati, e certamente non ci sono formule precostituite da applicare in nessuno di essi per avere la certezza di una scelta inattaccabile sotto il profilo penale e/o deontologico.

La deontologia non è una “scienza esatta”: è piuttosto una guida alla costruzione di un principio di autoregolazione di ognuno di noi, che ci consenta anche di correre — se del caso — il rischio di sbagliare con la consapevolezza di avere scelto il male (probabilmente) minore.

Il nuovo Codice Deontologico degli Psicologi Italiani sarà un’operazione vincente se avrà la capacità di assumere questa funzione, proponendosi appunto come una bussola, non come un catechismo fatto di precetti rigidi e per questo inapplicabili, o come un elenco di buoni propositi, tutti applicabili ma tutti privi di capacità di orientamento.

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(4) ESPLICITARE LE SANZIONI.

Ultimo ma non meno importante. Un Codice Deontologico non può esimersi dall’indicare un range di sanzioni per ogni possibile infrazione di ogni articolo.

Abbiamo già detto che il Codice Deontologico è un segmento delle fonti del diritto nella giurisdizione del nostro Paese (tant’è vero che il ricorso contro le sanzioni disciplinari va portato davanti alla Magistratura ordinaria).

È un principio elementare della nostra democrazia che per ogni infrazione alle norme — quali che esse siano — siano dichiarate le sanzioni attese: si chiama “principio di legalità” (art. 25., c. 2 della Costituzione), ed è a fondamento anche del Codice Penale (art. 1). La certezza del diritto impone che sia noto al trasgressore cosa lo attende se volontariamente o involontariamente si trova in violazione della norma, così che possa regolare di conseguenza la propria condotta.

Facciamo un esempio: l’obbligo di referto. Una minorenne mi racconta delle molestie che subisce da un adulto amico della famiglia, contestualmente implorandomi di non dire nulla a nessuno, perché prova vergogna, perché i genitori non capirebbero, forse accuserebbero lei, si creerebbe una situazione ingestibile etc. L’art. 365 del Codice Penale mi impone il referto (entro 48 ore!, art. 334 del Codice di Procedura) all’Autorità Giudiziaria, referto che io però — pensando anche al doloroso percorso della vittimizzazione secondaria che attende la ragazza — non vorrei fare, prendendomi invece il tempo di aiutarla a maturare la decisione di parlare con i genitori, o comunque di farsi parte attiva della denuncia contro il molestatore. Ora, la pena massima che mi posso aspettare per questa mia violazione del Codice Penale è una multa di 516 euro: decido di rischiarmela; non so come mi regolerei se la pena fosse, per dire, un anno di prigione…

E già che ci siamo: qua e là nell’articolato del Codice Deontologico ci sono veri e propri errori, dovuti a un pericoloso disallineamento con quanto prescrive il Codice Penale. Per esempio, da come è formulato l’art. 12 sembra che la rivelazione in giudizio del segreto professionale sia consentita “esclusivamente” in presenza di liberatoria da parte della persona interessata, e che il/la professionista abbia discrezionalità a fare pienamente uso di tale liberatoria considerando “preminente la tutela psicologica” della persona stessa. Si dimentica che, ai sensi dell’art. 200, c. 2, del Codice di Procedura Penale, il Giudice — con pronuncia debitamente motivata — può ordinare al/alla professionista di testimoniare, e in tale evenienza la testimonianza deve essere piena e veritiera.

Insomma, il Giudice può stimare che, in taluni casi, l’interesse della Giustizia sia prioritario rispetto a quello delle persone da noi assistite: e a noi non resta che ubbidire. L’art. 12 del Codice Deontologico contiene un pericoloso errore, che può causare qualche dispiacere a chi di noi ci si dovesse attenere alla lettera.

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(5) CONCLUSIONI

C’è un grande e appassionante lavoro da fare per ridisegnare la deontologia della nostra professione, una sfida intellettuale ed etica che investe tutta la comunità professionale, le persone da noi assistite, i committenti pubblici e privati, le istituzioni a cui rispondiamo e che in noi hanno riposto la loro fiducia.

Non sprechiamo questa occasione in piccoli, oziosi aggiustamenti cosmetici.




Psicologia Forense

L’espressione “Psicologia Forense” è qui deliberatamente usata in alternativa a “Psicologia Giuridica” a sottolineare che il Gruppo di lavoro si dedicherà agli aspetti operativi di quest’area di attività piuttosto che a quelli teorici, e anzi programmaticamente  non entrerà nel merito dei modelli sostenuti da alcuna delle componenti il panorama del settore. Al contrario, verrà promosso il libero confronto fra i modelli e scoraggiato ogni tentativo o pretesa di egemonia culturale da parte degli operatori più inseriti nei circuiti delle consulenze.

Fin dalla nascita dell’Ordine del Lazio, una ventina di anni fa, la maggior parte del contenzioso fra colleghi comparso davanti alla Commissione disciplinare-deontologica, ha riguardato i conflitti tra CTU e CTP (Consulenti d’Ufficio e Consulenti di Parte). Vi sono a riguardo due problemi di fondo che da molti anni l’Ordine non ha saputo/voluto affrontare, benché — almeno fino alla gestione attuale, che ha steso su tutto un velo di inerzia e di opacità — i Consigli degli anni 1990 e dei primi anni 2000 avessero posto le basi per una ridefinizione e riorganizzazione complessiva del settore. Problemi che hanno a che fare tanto con la natura intrinseca di queste attività professionali che con questioni di potere: queste ultime finendo per rivelarsi di gran lunga le più significative. Ma vediamo bene di che si tratta.

Va detto che, certamente, lo psicologo impegnato in attività di consulenza in ambito forense è esposto inevitabilmente alle pressioni delle parti in lite nel civile e della difesa vs parte civile nel penale. Gli avvocati intendono, di regola, che il CTP sia un loro ausiliario, così come il CTU lo è del giudice: sennonché il giudice e il suo ausiliario sono per definizione neutrali rispetto al conflitto, mentre le parti sono per definizione in aperto contrasto e pronte a servirsi a proprio vantaggio di ogni minimo errore o debolezza della controparte. Questa è la “fisiologia” del processo, e gli psicologi che vi sono coinvolti dovrebbero essere aiutati dall’Ordine (per es. attraverso iniziative di formazione, monitoraggio, mediazione-conciliazione) a mantenere un profilo di colleganza quanto più possibile franco e indipendente rispetto alla conflittualità processuale.

 

CRITICITA’

C’è però la questione che prima abbiamo definito “di potere”, e questo complica tutto. Come funziona infatti questo settore?

Un numero ristretto di colleghi, da sempre, acquisisce la maggior parte delle consulenze grazie a una più antica e radicata frequentazione delle aule giudiziarie e di conseguenza al maggior numero di conoscenze personali fra i giudici e negli studi legali, e grazie alla tessitura di reti di relazioni fra colleghi a partire dalle scuole di formazione in psicologia forense che utilizzano gli allievi prima come aiutanti (a titolo gratuito) e poi come promotori e procacciatori.

Nulla di illecito in tutto questo, ovviamente: se non che il mercato delle consulenze è bloccato e blindato all’accesso degli psicologi più giovani, tranne che siano direttamente “clonati” dai pochi detentori di questo regime di oligopolio. È tempo dunque che l’Ordine attivi un sistema di osservazione delle dinamiche di questo mercato e di facilitazione dello start-up al suo interno dei colleghi che intendono confrontarsi con esso.

Fino a oggi, l’Ordine ha invece sostanzialmente lasciato che il mercato funzionasse in regime di oligopolio di fatto in mano a pochi privilegiati. E — come è stato da noi messo in evidenza nel progetto Commissione Etica e Deontologica — si potrebbe aggiungere che questi privilegiati sono tali anche rispetto alla possibilità di prevalere in sede di contenzioso disciplinare-deontologico su colleghi meno noti, meno esperti, meno “protetti”: anche perché questi ultimi — comprensibilmente — spesso si guardano bene dal segnalare pressioni o scorrettezze eventualmente subìte in corso di attività consulenziali, appunto perché sfiduciati quanto alla reale possibilità di vedere riconosciute le proprie ragioni.

Qui si innesta l’aspetto culturale della questione: con queste logiche distorte, anche la strada dell’innovazione e del rinnovamento risulta chiusa. Si adoperano sempre e solo i metodi, l’apparato concettuale e le procedure valutative decisi dalla medesima minoranza di colleghi. Del resto, non vi è motivo per cui un giudice o un avvocato dovrebbero porsi il problema dell’avvicendamento e del rinnovamento dei consulenti psicologi secondo un principio di equa distribuzione delle opportunità di lavoro in àmbito forsense. Il problema non è loro, il problema è degli psicologi: e sta all’Ordine fare la propria parte istituzionale per risolverlo.

È tempo dunque che l’Ordine torni a occuparsi della materia, con spirito libero e alieno da ogni conflitto di interessi.

 

OBIETTIVI DEL PROGETTO

  • Promuovere GRATUITAMENTE una formazione di base in psicologia forense per tutti gli psicologi che intendono dedicarvisi, così da offrire loro una alfabetizzazione ideologicamente neutrale alle procedure e ai problemi di base di quesa area di attività
  • Promuovere presso i Tribunali della Regione l’immagine della professione in riferimento alle attività consulenziali e peritali
  • Contestualmente promuovere presso gli Uffici competenti dei Tribunali  della Regione, un principio di rotazione delle assegnazioni di tali incarichi e i criteri relativi, da mettere a punto con gli Uffici stessi
  • Mettere a disposizione degli psicologi, in modo continuativo, opportunità di approfondimenti per temi e per metodiche, favorendo il libero confronto fra modelli diversi (continuing education).
  • Realizzare iniziative di confronto fra psicologi ed esponenti della Magistratura e dell’ Avvocatura per una sempre migliore integrazione delle rispettive culture professionali