Psicologo CTU e processo telematico: facile ma non semplice

Istruzioni passo-passo per depositare le Perizie d’Ufficio con le regole del Processo Telematico.

Gli obblighi introdotti dal Processo Civile Telematico inquietano i colleghi consulenti del Giudice e creano dubbi sia tra quelli che lavorano solo come CTP sia tra gli altri, che per esempio si chiedono se dovranno a loro volta acquisire la firma digitale, offerta in convenzione da qualche Ordine regionale.

Alcuni colleghi, sollecitati dalla cancelleria del Tribunale a verificare di essere iscritti al RegIndE, mi chiedevano come si faceva a telefonare al RegIndE (che essendo un Registro di Indirizzi Elettronici ha le stesse attitudini interattive di un elenco del telefono); altri pensavano che la firma digitale – che è una firma elettronica con particolari requisiti – potesse venire sostituita dalla loro firma manuale scannerizzata.

In realtà tutti gli strumenti e le procedure sono spiegati per filo e per segno all’indirizzo pst.giustizia.it (senza “www.” davanti), ma forse l’effetto è quello delle istruzioni per montare i mobili Ikea: se non si fa non si capisce.

Così ho pensato che fosse utile diffondere qualche spiegazione ipersemplificata, rinunciando all’esaustività, giusto per familiarizzarsi con una procedura che in fin dei conti è identica a quella fisica, con la differenza che non occorre andare in cancelleria con quintali di carta.

Ogni tanto interviene qualche piccolo cambiamento, quindi è meglio non considerare quanto scrivo come definitivo e tanto meno esaustivo: ne sapremo di più quando avremo sperimentato i possibili errori.

Occorre innanzitutto dotarsi di alcuni strumenti. I primi due sono:

  • La PEC, che peraltro è già da tempo obbligatoria per i professionisti iscritti ad Albo. Quella che ci ha fornito l’Ordine (PEC di aruba con suffisso psypec) va benissimo; dovrebbe avvisarci quando la casella di posta è piena, e in ogni caso è abbastanza capiente. Se si ha grande traffico di PEC, meglio comunque, per prudenza, ricordarsi di verificare che ci sia spazio, perché se la casella fosse piena e non potessimo ricevere comunicazioni, sarà colpa nostra. Infatti d’ora in poi la cancelleria comunicherà con noi solo via PEC.
  • Il cosiddetto token (chiavetta con firma digitale o Carta Nazionale o Regionale dei Servizi). Per semplificare, mi riferisco alla chiavetta di Aruba con la firma digitale, che probabilmente è quella più diffusa e più pratica. La si può anche ricevere a casa, ma per evitare passaggi di autentica di firma conviene andare di persona a prenderla da uno dei certificatori accreditati. Quelli attivi si trovano all’indirizzo http://www.agid.gov.it/identita-digitali/firme-elettroniche/certificatori-attivi; se si sceglie Aruba li si trova a questa pagina https://www.pec.it/CDRLaccreditati.aspx

Poi bisogna appunto essere certi che la nostra PEC sia registrata sul Reginde (vedi sopra). Gli Ordini dovrebbero averlo fatto per noi, ma nel momento in cui abbiamo il token possiamo anche verificare; è possibile anche iscriversi individualmente.

A questo punto possiamo accedere al sito pst.giustizia.it, quello che menzionavo sopra. “PST” vuol dire “Portale Servizi Telematici”, così ce lo ricordiamo più facilmente. Si deve accedere con la chiavetta inserita e utilizzando il browser residente sulla chiavetta, che in quella di aruba è Firefox. Chi ci ha venduto la chiavetta dovrebbe averci dato anche le istruzioni per utilizzarla, ma si trovano agevolmente.

Quando si accede per la prima volta a pst.giustizia, di solito appare una finestra con un messaggio che dice che la connessione non è affidabile e che dobbiamo dichiararci consapevoli dei rischi. Non spaventiamoci, diciamogli di sì, clicchiamo su “Aggiungi eccezione”, scarichiamo il certificato che ci propongono e se è possibile diciamogli “Salva eccezione in modo permanente” e clicchiamo anche su “Conferma eccezione di sicurezza”. Non ci sono pericoli, ci stiamo solo autenticando sul sito del ministero di Giustizia.

Quando avremo fatto tutte queste manovre ci troveremo in una pagina di Login. Clicchiamo su “smartcard”: ci verrà chiesto il PIN della nostra firma digitale, e, quando lo avremo inserito (facendo attenzione a non sbagliarlo, perché dopo tre volte veniamo bloccati), in alto apparirà? il nostro codice fiscale.

A questo punto possiamo accedere ai servizi. Scegliamo un Tribunale (es. Milano), un Registro (es. Contenzioso Civile), un Ruolo (CTU) e potremo accedere ai fascicoli che ci riguardano. Se non siamo nel RegIndE, probabilmente ci verrà chiesto di mandare un verbale di nomina firmato digitalmente; sul pst.giustizia si trovano istruzioni anche per questa evenienza, meglio comunque verificare anche con l’Ordine.

Questo, per la parte di consultazione, che è relativamente meno preoccupante. Vantaggi: per esempio, recuperare quel verbale di udienza per il giuramento in cui sono scritte tutte le scadenze, accedere ai fascicoli per via telematica eccetera. Il pst.giustizia, infatti, è uno dei PDA (Punti Di Accesso) registrandosi ai quali – come abbiamo appena fatto – possiamo usufruire di questi servizi di consultazione.

Un po’ di suspense in più verrà sperimentata al momento dell’invio, e qui è meglio leggere bene le istruzioni, senza però lasciarsi scoraggiare, perché? vi diranno che occorre un terzo strumento necessario ovvero: un apposito “redattore”.

Si tratta di un software che ha solo la funzione di preparare i nostri documenti inserendoli in una immaginaria “busta digitale” perché? possiamo spedirli nel formato digitale corretto e accettato. Di questi redattori-imbustatori se ne trovano diversi; il portale pst.giustizia.it rinvia a un elenco, ma bisogna fare attenzione, perché alcuni sono gratuiti, altri no. In pratica: uno ha la sua brava relazione in word, trasforma il file in pdf (non pdf da scanner, quello è vietato: solo il pdf generato da word, cosiddetto “pdf nativo”), lo firma digitalmente, poi va sul programma “redattore” e gli dice “mettimela nella busta”. Possono anche esserci degli allegati, che non occorre firmare (per esempio, un certificato medico; ci si comporta proprio come nel deposito fisico).

Attenzione: la chiavetta vi propone diversi tipi di firma digitale: bisogna scegliere quello che si chiama “Busta crittografica P7M”). Il software redattore-imbustatore ci prepara il materiale e poi noi lo mandiamo con la nostra PEC all’indirizzo di posta certificata corrispondente al nostro ufficio (l’indirizzo giusto si trova su pst.giustizia.it sotto “Uffici Giudiziari”).

Dovremo avere un’accortezza: scrivere nel subject della mail “DEPOSITO” in maiuscolo e poi un testo libero. Tipo “DEPOSITO Ctu Topolino-Minnie”. Tra DEPOSITO e Ctu ci dev’essere uno spazio. Se avremo fatto tutto giusto, ci arriveranno vari messaggi di notifica di corretta ricezione. Ma a questo punto ci saremo familiarizzati con le istruzioni di pst.giustizia.it e sapremo decodificarli. L’importante è che arrivino, se non ci arriva niente dobbiamo preoccuparci.

Questo è un passaggio che non ho ancora sperimentato, dunque non ne conosco le insidie, ma senz’altro mi cimenterò nell’invio in anticipo rispetto alle date in cui sarà obbligatorio, ovvero per i procedimenti iscritti a ruolo dopo il 30 giugno. Suggerisco di fare altrettanto, sia perché non è vietato sia perché conviene prenderci la mano; meglio – fino a quando ci sarà la doppia opzione – provarci un giorno prima della scadenza di consegna, in modo da avere il tempo di depositare fisicamente il giorno dopo se qualcosa va storto. Tanto, anche quando dovremo farlo obbligatoriamente ci toccherà inviare con un giorno di anticipo rispetto alla scadenza (hai visto mai che qualcosa non ci funzioni: a quel punto non ci sarà più l’opzione di depositare il cartaceo). D’altra parte, il tempo risparmiato nel fare copie, pinzare, firmare tutte le pagine ci compenserà ampiamente e le foreste amazzoniche ringrazieranno. Ovviamente, toccherà comunque andare in cancelleria a depositare, per esempio, le audio e videoregistrazioni.

I colleghi che hanno Mac sono come al solito penalizzati? La risposta, per ora, è “sì”, anche se le cose miglioreranno anche grazie agli eroici pionieri che passano ore e ore con l’assistenza di Aruba. Per carità, con fatiche improbe e restando fedeli al motto di Steve Jobs “stay hungry, stay foolish” si riesce, ma conviene avere anche un emulatore di Windows, tipo VMWare o Parallels, soprattutto se si è stati così vigliacchi da acquistare, per esempio, il “redattore” (vedi sopra) di Giuffrè, che è molto facile da usare ma per ora funziona solo su Windows.

E i colleghi CTP devono avere la firma digitale? Questo non è specificato da nessuna parte, ma presumo che non sia necessario così come non lo era prima: le Note di parte trasmesse al CTU verranno inserite dal CTU tra gli allegati alla relazione, verosimilmente non firmate o firmate nel modo in cui il CTP firma di solito. Ovviamente, il CTP che firmerà digitalmente le sue Osservazioni farà un figurone.

E agli altri Psicologi che non operano in ambito forense serve la firma digitale? Questa è una valutazione individuale. Personalmente l’ho sempre desiderata, presumendo che mi avrebbe risparmiato molte seccature, tipo andare a farmi autenticare la firma quando è necessario o consegnare a mano e per posta i documenti per cui viene richiesta una firma in “originale”; l’unico motivo per cui ho atteso tutto questo tempo è che mi seccava di andare fisicamente a procurarmela. Chi non è altrettanto pigro, però, può sopravvivere anche senza.




Quanto dura la nostra gavetta?

Di seguito pubblichiamo le riflessioni di Valeria La Via in risposta alla “Lettera aperta di una psicologa delusa”.

“..Le racconterei le storie di altri colleghi che hanno fatto chi il capostazione e chi l’operatore di call center ma che ora sono docenti universitari..”

Cara Cristina, questa collega, che ha preso una laurea con lode, che ha scritto una lettera ben strutturata e, a parte qualche apostrofo mancante, corretta (e la capacità di scrivere, che è capacità di pensare, è una dote sempre più rara), merita una risposta e possibilmente un incontro. Io vorrei sapere qual era il suo orientamento, che cosa le sarebbe piaciuto fare, in quale ambito le piacerebbe lavorare.

Forse le racconterei che anch’io, durante gli anni della formazione, venivo pagata esattamente come la colf per fare traduzioni ed editing;

lo accettavo perché riguardavano libri di psicoanalisi e potevo congiungere  il mio desiderio di leggerli con l’utilità di apprendere un lavoro che poi avrei fatto a lungo per sostenere i difficili inizi della professione. E le racconterei le storie di altri colleghi che hanno fatto chi il capostazione e chi l’operatore di call center e ora sono docenti universitari. Ma soprattutto, di questi tempi, dovremmo dirle che il professionista vive di contatti, e che proprio dai contatti viene il lavoro. Che uno dei motivi più rilevanti del non tirarsi fuori dalla comunità professionale è proprio questo, perché già il fatto di essere insieme ad altri fa venire in mente delle idee e favorisce uno scambio di informazioni che aiutano a trovare un punto di partenza, perché di questo si tratta, a   condizione che uno lo usi bene e lavori benissimo. È vero: l’Ordine non ha come compito primario questo, perché un Ordine professionale trae sostanzialmente la propria ragion d’essere dall’interesse comune al corretto esercizio della professione;   tuttavia il nostro Consiglio si è molto adoperato per favorire gli incontri tra colleghi, affinché, con un   corretto uso dell’istituzione, essi potessero avere qualche occasione in più per trovare il loro punto di   partenza.   Certo, l’Ordine non è in grado né può risolvere i problemi di lavoro dei colleghi come se fosse un sindacato   o un’agenzia di collocamento, ma può costruire condizioni favorevoli, può agire indirettamente, può   sostenere. Gli psicologi sono abituati a questo metodo: uno psicologo affianca, potenzia risorse, non è l’artefice diretto di un cambiamento di cui non può nemmeno fornire garanzie a priori.

Eppure quante volte il semplice fatto di sentirsi sostenuti, da qualcuno o da un gruppo, è la via regia alla soluzione pratica di un problema!

Se non lo sanno gli psicologi, chi altri lo dovrebbe sapere? E lo sa anche questa brava collega, se ha avuto voglia di scriverti: dunque parla con lei, come direbbe Almodovar.




Art. 5: la formazione continua. O forse comincia ora?

Mi è accaduto varie volte di incontrare per strada qualche gruppetto di colleghe libere professioniste che correvano trafelate “a fare i punti”.  Mi spiegavano ansimanti che c’era un corso su un argomento per il quale non avevano alcun interesse, ma che aveva il pregio di erogare crediti ECM; bastava sopportare la noia e sedersi vicino a qualcuno con cui chiacchierare, non senza avere preventivamente individuato un conoscente (di solito di sesso maschile, il contrario di quel che succedeva a scuola) disposto a compilare anche i questionari di chi non era stato attento.

Visto che alcune di loro non lavoravano per pubbliche amministrazioni, mi sono sempre chiesta a chi esibissero i crediti conquistati a prezzo della rinuncia a eventi per loro ben più interessanti ma non accreditati ECM.  Penso che non lo sapessero neanche loro.

D’altro canto, i colleghi che non hanno mai smesso di lavorare sul loro lavoro, quindi quelli che studiano, si confrontano, traggono beneficio dallo scambio con altri, spesso nemmeno  si curano di annotare le loro attività formative né di ritirare o inserire in un’apposita cartellina gli attestati di partecipazione a corsi e convegni  selezionati in base a interesse e utilità.

L’attuale versione dell’art.5 del Codice Deontologico, del resto, già prescrive che lo psicologo sia “tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione professionale e ad aggiornarsi nella propria disciplina specificatamente nel settore in cui opera”.  Ma come dimostrarlo? E’ ovvio che un curriculum chilometrico in cui si sono annotate tutte le giornate di studio, conferenze, congressi cui si è partecipato di per sé attesta solo una lodevole attitudine compilativa.

La nuova formulazione dell’art.5 che siamo chiamati ad approvare ribadisce l’obbligo  per lo psicologo di formazione e aggiornamento professionale “con particolare riguardo ai settori in cui opera”. Il passaggio dal singolare al plurale, da “settore” a “settori” registra un fenomeno attuale di expertise dello psicologo in diversi settori d’intervento. L’obbligo di dimostrare l’aggiornamento in ciascuno di essi dovrebbe indurre qualche opportuna revisione  delle carte intestate di chi,  non aderendo  all’adagio “less is more”, vi inserisce una lista di titoli “esperto in” da far invidia a un premio Nobel, come se da un corso semestrale frequentato nel 1998 derivasse una competenza sempreverde.

Ma c’è di più.  La nuova versione dell’art.5 recepisce la disposizione normativa contenuta nel DPR 137/2012 in materia di aggiornamento professionale, stabilendo che la violazione dell’obbligo di formazione continua determini un illecito disciplinare che deve quindi venire sanzionato.

Non che prima non sussistesse lo stesso obbligo, ma vi era un’indeterminatezza che doveva venire corretta: infatti un singolo Consiglio di un Ordine degli Psicologi non necessariamente include, nelle persone dei consiglieri, tutte le possibili competenze dello psicologo  ed era quindi probabile che un determinato Consiglio non fosse in grado di cogliere un particolare difetto di expertise o accettasse una documentazione che agli occhi di un esperto sarebbe di scarso pregio.  Per ovviare a questo inconveniente, gli Ordini saranno obbligati a emanare dei Regolamenti destinati a rendere più “oggettiva” e più facilmente verificabile la dimostrazione dell’aggiornamento.

Vi sarà dunque nuovamente un sistema basato sui crediti, ma sarà, auspicabilmente, più ricco e pertinente rispetto al sistema ECM,  in cui i crediti potevano venire accumulati  secondo la modalità di  una raccolta punti che spesso  somigliava a una specie di vendita delle indulgenze.

In linea di principio, questo metodo, che è pensato per incentivare la qualità e competitività dei servizi professionali, potrebbe assicurare ai prodessionisti diversi vantaggi.  Uno di questi è la diminuzione dei costi, visto che molti eventi accreditati – come la formazione deontologica – saranno erogati dagli Ordini.  E poi i professionisti potrebbero essere messi in grado di comporre un proprio pacchetto  personalizzato di crediti  composto da  un complesso di attività differenziate:  oltre ai corsi ECM,  lo studio, la produzione di testi, la didattica, la supervisione, l’approfondimento di nozioni di altre discipline necessarie per operare nel proprio ambito di competenza e così via.

Si tratterà di vedere come e con quali passaggi e criteri il principio verrà tradotto in Regolamento attuativo da parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine.  Molti crediti agli estensori se, nella traversata dal dire al fare, il Regolamento non smarrirà la rotta.




Lo psicologo forense è uno psicoterapeuta?

Ha suscitato grande sconcerto presso gli esperti di psicologia forense una News dell’Ordine degli Psicologi del Lazio che annuncia la formazione di un elenco di CTP “accreditati” dall’Ordine per il gratuito patrocinio e ne stabilisce i criteri di inclusione.

Viene infatti specificato che per operare nell’area dei procedimenti minorili lo psicologo, oltre ad avere specifiche competenze  ed esperienza clinica in psicologia e psicopatologia dell’età evolutiva,  deve essere psicoterapeuta.

Questo requisito va letto assieme a quello della previsione di un numero minimo di  sole 50 ore di formazione in psicologia giuridico/forense:  in pratica, secondo l’Ordine del Lazio per fare lo psicologo forense occorre avere solo una rudimentale formazione specifica  in questo ambito e avere invece frequentato ben quattro anni di scuola di psicoterapia.  Lo  psicologo forense è quindi concepito non già come uno psicologo specializzato in un determinato ambito applicativo, ma come uno psicoterapeuta che “applica” il suo sapere alla valutazione peritale; ciò in nome del diritto alla difesa, come si dice in premessa.

Ora, con una formazione di sole 50 ore, difficilmente questo psicoterapeuta incidentalmente psicologo forense conoscerà i fondamenti giuridici – anche procedurali – di quel diritto alla difesa che viene invocato nella premessa della delibera e saprà farlo valere con efficacia; difficilmente, avendo avuto una formazione breve e generalista, conoscerà bene le normative, generali e specifiche dell’ambito in cui opera.  Sia il CTP che il CTU più psicoterapeuti che psicologi forensi avranno difficoltà a stabilire un setting valutativo differente dal setting di intervento.  Come potranno intendere la profonda differenza tra il contesto dell’accertamento peritale e quello del contratto terapeutico, in cui lo specialista è liberamente scelto, il rapporto è vincolato al segreto professionale e la prestazione si basa su un’alleanza?

Il rischio di confusione tra i due diversi setting è peraltro ben noto:  basta aprire  un manuale a caso per leggere che “il consulente psicologo deve sempre ricordare che il contesto dell’indagine è di tipo ‘valutativo-giudiziario’ e non può confondersi con un lavoro di tipo clinico-terapeutico[1]

Del resto,  anche per gli psichiatri non è automatico diventare “psichiatri forensi”; materie come la psicopatologia forense e la medicina legale – con cui tutti quelli che operano in ambito forense dovrebbero avere dimestichezza – non avrebbero alcun senso se per lavorare in ambito forense fosse sufficiente saper curare.

La ratio di questa delibera risulta quindi incomprensibile a chi abbia pratica di questo lavoro: invece di incoraggiare i colleghi a frequentare il Foro essendo sufficientemente attrezzati (e rivolgendosi ad altri colleghi quando hanno necessità di integrare le loro competenze tecniche), gli si dà l’idea che il consulente tecnico si identifichi prioritariamente con  lo psicoterapeuta e che quindi  il ruolo dello specialista abbia una predominante connotazione terapeutica.

Suscita anche qualche perplessità che questa opzione, peraltro molto contestata dalla comunità degli esperti e dalla tradizione codificata nelle università e nei manuali venga deliberata dal Consiglio di un Ordine, che non ha  un mandato  scientifico.  Forse che tutti i consiglieri di  un Ordine hanno una competenza di psicologia forense? È statisticamente improbabile.

Spiace per i colleghi dell’Ordine del Lazio e in particolare per quelli che  non potranno venire inseriti nell’elenco dei CTP promossi dall’Ordine per il gratuito patrocinio o che avranno la tentazione di iscriversi a una scuola di psicoterapia per poterne fare  parte; spiace per coloro che potrebbero avere difficoltà a venire inseriti nell’elenco dei CTU;   spiace – e molto –  per i periziandi; ma certo non spiacerà al CTP di controparte che  davvero abbia la speciale competenza richiesta allo psicologo o psichiatra  forense: costui avrà infatti  buon gioco nel confutare molti degli esperti accreditati in quanto psicoterapeuti.

Valeria La Via
Psicologa psicoterapeuta, specialista in Criminologia Clinica, psicologa forense; docente nel  Corso   di Perfezionamento in Psicopatologia Forense e nel Corso di Perfezionamento in Criminologia dell’ Università degli Studi di Milano (a.a. 2011-2012 e 2012-2013) 



[1] T.Bandini, G.Rocca, “Indagini psicologiche e psichiatriche sulla famiglia”, in  Fondamenti di psicopatologia forense,  Giuffrè, Milano 2010, pag. 329.




Porta Pazienza

Fantastico spesso l’istituzione di un ministero della Parola, cui attribuisco svariate competenze sorrette da un’apposita normativa. Tra le funzioni che vorrei affidate all’Alta Vigilanza del ministro è la distribuzione, paritetica e parca, degli imperativi, e mi riferisco proprio al modo del verbo (da’, fa’, di’), anche quando viene sostituito dal congiuntivo se ci si dà del lei (dia, faccia, dica). Oggetto di particolare sorveglianza sarebbero gli imperativi “devi…” e “ deve…” se pronunciati all’indirizzo di qualcuno nell’intento di sollecitarlo a compiere una certa azione, adottare una certa condotta e soprattutto far assumere una certa forma e contenuto ai suoi pensieri e sentimenti.
Se ci si fa caso, nel mondo bizzarro che abitiamo vige una policy all’incontrario: quelli che sarebbero più legittimati a usare l’imperativo (agenzie di socializzazione, insegnanti, famiglia, insomma le autorità) ci stanno attenti, elaborano insidiose strategie di persuasione e manipolazione (“uso dei trucchi” sento dire ogni tanto ai genitori che vogliono far fare qualcosa di normale ai figli, tipo andare a scuola la mattina); nelle aziende si utilizzano imitazioni della maieutica per far credere ai dipendenti di avere elaborato personalmente la decisione del dirigente. L’imperativo viene invece praticato senza freni dal passante casuale, dal parcheggiatore, dall’amministratore di condominio nei confronti del condomino suo datore di lavoro, dall’amico che ti ingiunge “sta’ attento” quando ormai sei inciampato nel gradino e hai pestato gli escrementi di un cane di grossa taglia.
Il più delle volte non ci facciamo caso, a meno che il nostro lavoro implichi come mandato una certa sorveglianza del lessico: sarà capitato a molti psicoterapeuti che un cliente arrivi in ritardo dicendo “Lei mi deve scusare”, e gli si replica “Non devo, posso”. Fuori studio, però, l’imperativo sparpagliato è semplicemente fastidioso, e se non stiamo attenti a stabilire continuamente confini tra obbedienza e condiscendenza i nostri percorsi nelle città diventano sentieri militari.
Il ministero della Parola avrebbe una funzione special-preventiva, ben sapendo che un imperativo fuori luogo e mal collocato può essere la goccia che fa traboccare il vaso dell’irritazione, soprattutto quando ti viene ingiunto qualcosa che hai già fatto o un’azione rispetto alla quale non hai alternative.
Ora, la vita di tutti i giorni è costellata di contrattempi, ovvero di eventi imprevisti che si verificano in un momento inopportuno impedendo o ritardando il normale svolgimento delle nostre incombenze. Nelle circostanze in cui siamo ostaggi di qualcuno o qualcosa che ci si mette per traverso, nessuno dovrebbe infierire su di noi dandoci ordini; sarebbe semmai gentile da parte sua cercare di distrarci, dire una spiritosaggine, raccontarci una storiella. Invece proprio questo è il momento in cui la Società ci dedica una raffica di imperativi: non perdere il buon umore, sii ottimista, non ti lagnare; immancabilmente qualcuno si sente autorizzato a pronunciare la frase per cui invocherei sanzione: “Devi Avere Pazienza”.
Già bravo, pensi, e fin adesso che cos’ho fatto? Fino a cinque minuti fa la Società mi ha ammorbato infliggendomi le stesse osservazioni sul tempo atmosferico che ero già stata in grado di compiere per mio conto prima di uscire di casa, a seguito delle quali avevo già assunto le necessarie decisioni di portarmi un ombrello o indossare un maglione più caldo essendo pertanto pronta a passare ad argomento più interessante. Eppure con tutte le persone che hanno voluto informarmi che fa freddo e nevica ho educatamente convenuto che effettivamente così stanno le cose, mi sono astenuta dal fare commenti sarcastici tipo “Ma davvero? Sa anche per caso se è arrivato l’inverno?”, ho addirittura introdotto alcune piccole varianti sul tema, dalla mitica nevicata milanese nel maggio di tanti anni fa a quella volta che il sindaco Moratti si era dimenticata di comprare il sale e tutti scivolavamo sul ghiaccio; ho finto che l’argomento mi appassionasse mentre volevo solo aprire l’e-book reader per finire il mio giallo, ho sorriso e fatto sorridere. Dovrei essermi meritata la medaglia d’oro della Pazienza; l’ho praticata e diffusa al popolo permettendogli di pensare che un evento così infausto come una giornata fredda non è equiparabile alle piaghe d’Egitto.
Ma ecco che, giunta a destinazione, dopo aver fatto la mia paziente fila di mezz’ora, mi sento dire dall’ impiegata che a causa di problemi organizzativi non hanno fatto in tempo a mettere un cartello che mi ordinasse di fare la fila a un altro sportello e che dunque ho perso mezz’ora per niente; porto pazienza, faccio una fila di un quarto d’ora (che risparmio!) all’altro sportello per sentirmi dire: “sì, è vero, si fa qui, ma poteva farglielo fare anche l’altra da cui è andata prima, solo che avrebbe dovuto farle pagare un euro in più”. Disobbedisco: perdo il buonumore e l’ottimismo (la stupidità vista da vicino mi fa questo effetto) e non trattengo la battuta sarcastica che mi sono ingoiata in occasione delle considerazioni sul tempo atmosferico. L’impiegata probabilmente non afferra il criterio di calcolo con cui stabilisco il rapporto tra quanto mi costa un’ora in tasse con cui vengono pagati gli stipendi suoi e della collega e l’euro che hanno voluto gentilmente risparmiarmi, ma capisce che sono contrariata e non trova di meglio che ingiungermi “Deve Avere Pazienza”. Me ne è rimasta, di pazienza, una briciola, quel che basta per replicare: “No, signora, non credo proprio” e mi metto in sciopero. Per il resto della giornata al passante casuale che mi informa che fa freddo e nevica rispondo che io sento caldo e c’è il sole. Che la faccia lui, la Bisbetica Domata.