Amore ferarum

Capita. Devo abbandonare il computer perché l’idraulico, convocato d’urgenza dall’amministratore per diagnosticare la causa di una perdita d’acqua nell’appartamento di sotto  pretende di  mettermi a parte di una descrizione dell’impianto di cui nulla vorrei sapere e non tollera che il mio Io smetta di svolgere le sue funzioni di amministratore consapevole, responsabile e partecipe della Realtà. Mi sento sprofondare lentamente nelle sabbie mobili della Monotonia e della Noia, ascolto dissertazioni sulla distribuzione condominiale dell’acqua e descrizioni di componenti invisibili di cui non riesco a rappresentarmi le fattezze, parlo di tubi senza sapere che cosa dico e non esiste più altro mondo che quello percettibile, fatto di  ferraglie e piastrelle spaccate.

Ma ecco la lingua a fornirmi un salvagente nella prospettiva che l’acqua del condominio decida di riversarsi nel mio appartamento e io anneghi parlando di chiavi inglesi. L’idraulico, infatti,  rientrando trionfante da una spedizione in un suo deposito di strumenti,  esclaman: “Ho portato tutte le prolunghe possibili e immaginarie”. Si rispalanca la porta dell’Altro Mondo, quello in cui la realtà non offende e non allaga:  io vedo distintamente una cassetta magica degli attrezzi, che non pesa nulla e non contiene altro che Idee platoniche, innocue fantasie di idraulici.  Prendo fiato.

Questa delle prolunghe immaginarie è altrettanto poetica di “non portare il can per aria”, complessa rielaborazione dell’idiotismo “non menare il can per l’aia” (astenersi coloro che credono che idiotismo sia un insulto: vuol dire “frase idiomatica”, che  si dice in una lingua e non in altre).

Sono una grande collezionatrice di castronerie sentite dalle orecchie mie o di amici, e  molte  mi rallegrano anche a distanza di anni (come quella, sublime, pronunciata da una signora grassoccia “Questa dev’essere una pasta per quelli che non digeriscono i glutei”).  Ce ne sono alcune che aggiungono senso e vivacità a un’espressione consunta, come “Il lavoro mobilita l’uomo” (il che è innegabile); drammaticamente efficaci sono le locuzioni   “un’ambulanza che passa a sirene spietate” , “ un comportamento da far raccapricciare la pelle” . Io stessa non posso che convenire se mi dicono  che le perdite di memoria sono “le prime rappresaglie dell’età”.  Spezzerei una lancia a favore di quelli che invece la lancia la scagliano: meglio una lancia intera che va a segno piuttosto  che una  mera dichiarazione di essere pronti a battersi, l’inferno è lastricato di buone intenzioni.

Apprezzo anche gli sforzi di passare dall’astratto al concreto, tipici di coloro che, aborrendo la geometria, descrivono un deragliamento del pensiero nei termini di “è partito per la tangenziale” (presumibilmente nell’auspicio che venga bloccato dal traffico)  o trovano che un’assurdità non stia “né in cielo né per terra”; credo siano gli stessi che sono al corrente dell’esistenza di “prostitute d’alto borgo”, ivi rifugiatesi probabilmente a seguito della legge Merlin.  Presumo inoltre che  spendere due ore a parlare della “rana e la fava” sia un’occupazione cui dei biologi e degli zoologi potrebbero dedicarsi con buoni risultati.  Chi di animali è meno pratico, d’altra parte, va giustificato se gli ha messo “il fiato sulla coda” ( forse si identifica con mamma passera?) o declama che  “tanto va la gatta al largo” (verosimilmente un caso di ailurofobia).

 Meno mi emoziona il successo di lingue, preferenzialmente morte, che alcuni si ostinano a usare pur senza  averne l’obbligo, come  chi per dire  “spontaneamente”,  si lancia  in un discutibile “di sua sponte”  se non addirittura “di mia sponte” facendomi sempre venire voglia di chiedergli che cosa diavolo sia questa sponte; o quelli che, intendendo dire che la soluzione che propongono è la migliore, si abbandonano a un incauto “E’ l’optimus” senza rendersi conto che l’Optimus è la marca di burro prescelta dalla moglie.  Spericolatissimo e transculturale, un professionista di mia conoscenza ha deciso un giorno che era ora di mettere  un “out out”  , mentre   altrove definiva il lavoro in corso un working progress,  anticipandone  così il risultato fausto.  Mi aspetto da un momento all’altro che individui  nel nostro scambio il valore di un do ut don’t , e se trova che  così come sono state impostate le cose non va tanto bene,  mi dica che non è un buon insipit ; né escludo che prima o poi mi racconti di un poveretto cui, a seguito di infarto, hanno dovuto mettere tre byfax.  Ma comprendo che in questo mondo globalizzato non sia facile cavarsela.  Chi fa le cose obcollo torto dovrebbe forse farsi aiutare dal dottor Gibaud, ma deve anche guardarsi dal farle “a mio malincuore”, è un eccesso di privatizzazione dei sentimenti.  Però è facile che vada d’accordo con quelli  le cui fidanzate gradiscono l’amore ferarum (meglio un leopardo di questa bestia del mio fidanzato).

Ho  sentito dalla bocca di una preside  di un istituto superiore che “le aspettava un periodo di ferie”.  Spetta e spera.