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Il ricorso di un gruppo di colleghi contro il nuovo Codice Deontologico non si ferma.

Dopo una prima bocciatura al TAR, i ricorrenti si appellano ora al Consiglio di Stato.

Le motivazioni ricalcano quelle del ricorso al TAR, e alcune non sono affatto peregrine.

MANCATA CONVOCAZIONE TRAMITE PEC

La prima doglianza è che la convocazione degli psicologi da parte del CNOP per il voto al referendum sia avvenuta interamente con modalità non personali e non certificate: sono state inviate semplici mail, newsletter, pubblicate informazioni sul sito. Ma non una PEC, che avrebbe avuto valore certificativo.

Al di là del merito tecnico, effettivamente non sarebbe costato nulla inviare una PEC a tutti. Sarebbe stato un atto di convocazione ufficiale, privo di costi, semplice. E si sarebbe evitata ogni contestazione.

Il mancato uso della PEC non è tanto e solo, a detta dei ricorrenti, un problema di diritto, ma denota in generale un “procedimento tardivo, sbrigativo, lacunoso ed alterato che assegna il risultato dell’avvenuta approvazione ad un referendum conosciuto e partecipato da una sparuta minoranza degli iscritti a causa del ritardo nella divulgazione e pubblicità.”

L’ABERRAZIONE DELLA PREMESSA ETICA

Altro punto su cui insistono i ricorrenti è la presenza di una premessa etica di cui non è chiara la natura.

In particolare non è chiaro se essa sia una fonte di diritto, come il Codice, e quindi giuridicamente vincolante, oppure se sia solo un richiamo generale di buona morale.

La questione non è irrilevante, perché ad esempio nella premessa etica è scritto che si deve operare con supervisione. Si tratta di un principio vincolante, tale da avere conseguenze giuridiche se non lo si rispetta, oppure è un semplice consiglio?

Secondariamente, e questa è una critica personale a cui semmai dedicherò un approfondimento, i principi etici contenuti in questa premessa di etico hanno ben poco, nel senso che non fanno riferimento ad alcuna teoria etica o ai principi della bioetica, e sembrano piuttosto un aggregato di principi di buonsenso poco radicati nella riflessione filosofica morale.

Si aggiunge infine una questione sostanziale: la premessa etica NON è stata oggetto del referendum. Quindi, a rigore giuridico, non fa parte del Codice, è carta straccia. Un altro pasticcio che si sarebbe potuto evitare con un po’ di confronto in più.

CONSENSO INFORMATO

Altro punto contestato dai ricorrenti è il consenso informato, che per come è disegnato nel nuovo codice deontologico pare riferirsi alle sole attività sanitarie.

Ed effettivamente è così: il nuovo Codice ha il merito di ispirarsi, per le attività sanitarie, alla legge 219/2017 sul consenso informato, che è la norma di riferimento in Italia. Ma facendolo perde per strada tutte le attività non sanitarie, che restano così orfane di indicazioni.

Si chiedono giustamente i ricorrenti se per tutte le attività non sanitarie, come ad esempio quelle nella scuola, non si debba seguire il principio di informare e attenersi al consenso/rifiuto della persona.

La critica è fondata e anche io in precedenti articoli ho sottolineato questa lacuna. Avevo anche suggerito agli estensori della revisione di utilizzare il concetto di contratto professionale, così da mantenere le garanzie del processo di informazione e consenso, senza perdere la peculiarità del consenso informato in ambito sanitario, che effettivamente ha una storia e una consistenza civica specifica.

La questione si risolve – forse – per interpolazione: è ormai paradigma giuridico assodato che il professionista, sanitario e non, debba informare il cliente, e sia quindi gravato da un onere informativo che è tipico del professionista e che può minare la validità del contratto. Cosa che non avviene per altri contratti: il tabaccaio non è vincolato all’onere di informarci che il fumo fa male affinché il contratto di vendita sia validamente concluso.

Tuttavia un Codice di recente revisione non dovrebbe costringerci ad agire per via interpretativa: già che lo stiamo rivedendo, facciamolo bene e senza ambiguità.

ARTICOLO 31: CONSENSO PER I MINORI

I ricorrenti contestano che la nuova formulazione dell’articolo 31 imporrebbe agli psicologi di rimettere alla decisione dell’autorità giudiziaria ogni caso di minore in cui sia ritenuto necessario un intervento in assenza del consenso dei genitori. Il codice precedente imponeva solo di informare l’autorità.

Ora, qui la questione è stata il recepimento alla lettera della legge 219/2017 art. 3, che effettivamente impone al medico o alla struttura sanitaria di rimettere all’autorità giudiziaria le decisioni. Lo spirito della norma va letto nel contesto del suo dettato: la legge dice che i genitori devono agire, nel consenso/rifiuto, tenendo conto della volontà del minore e della tutela della sua salute. Ogni volta che uno di questi due principi viene violato, la decisione si rimette al giudice non tanto perché egli decida, quanto perché egli possa dare voce al minore e alle sue esigenze di salute.

A mio avviso qui i ricorrenti interpretano malamente l’art. 31 del CD perché interpretano malamente la sua fonte, l’art. 3 della legge 219/2017.

Tuttavia anche l’articolo 31 nella sua nuova versione, gettato sulle spalle della comunità professionale senza un’attenta opera di riflessione sulle conseguenze pratiche ma anche sui nodi applicativi critici, non rappresenta certamente una guida chiara per la condotta professionale.

Un tema su tutti: dato che la legge, e ora anche il Codice, prescrivono di tenere conto della volontà del minore e che tale volontà è premessa per un consenso informato validamente espresso dai genitori, nella pratica come deve fare lo psicologo per rilevarla? Deve vedere il minore prima del consenso dei genitori? La questione è del tutto aperta, ma il CNOP sembra averla dimenticata subito dopo la fine dei festeggiamenti per l’approvazione.

LE LINEE GUIDA E I PROTOCOLLI

Altra questione toccata dal ricorso è quella relativa al dovere di aderire alle linee guida, sancita sia dalla premessa etica che dall’articolo 22.

Anche qui credo che il ricorso centri un punto critico, che ancora una volta avevo anche io sollevato in precedenti articoli.

Il richiamo alle linee guida è corretto nel principio, e richiama alla legge Gelli-Bianco. Ma l’articolo 22 ha preso un pezzo del concetto espresso dalla legge Gelli-Bianco e ne ha dimenticato un altro, importante.

Risulta così che il nostro Codice prescriverebbe di usare sempre le linee guida come riferimento, laddove nemmeno la legge 24/2017 lo prescrive, in quanto essa tempera la prescrizione con la chiosa di considerare sempre e comunque le peculiarità del caso concreto.

Insomma, un errore di elisione che crea una prescrizione assurda, più realista del re. Anche questa segnalata e non corretta.

CONCLUSIONI PERSONALI

A prescindere da come andrà il ricorso, la sua stessa esistenza e molte delle sue articolate argomentazioni non sarebbero da liquidare solo in tribunale. Un ricorso come questo è intanto il segno che qualcosa, nel processo sociale di costruzione di un Codice in cui tutti dovremmo riconoscerci, non ha funzionato.

Le questioni sollevate, molte delle quali estremamente rilevanti per il nostro lavoro, non meriterebbero di essere sciupate o risolte in modo salomonico da un tribunale: pare che non sappiamo nemmeno dotarci di una nostra deontologia professionale, che dobbiamo farcela stabilire dai giudici.

Qui la responsabilità è tutta del CNOP, che dopo aver imbastito un processo che non manca di democraticità, come sostengono i ricorrenti, bensì di confronto e condivisione, ha festeggiato il risicato risultato di approvazione come fosse una sorta di vittoria personale dei revisori, e poi ha abbandonato il neonato per strada, privo di cure, come se potesse cavarsela da solo.

Invece come ogni modifica dei codici deontologici, andrebbe fatto un lavoro prima, di confronto ampio e organizzato. Così non è stato, io stesso ho sperimentato di poter intervenire solo in modo carbonaro nel processo di revisione, senza una discussione aperta e articolata, e sono state escluse dalla commissione importanti ‘parti sociali’ come l’Ordine Lazio, che detiene il primato del maggior numero di procedimenti disciplinari gestiti e quindi avrebbe avuto ben qualcosa da dire.

E andrebbe fatto un lavoro DOPO, di accompagnamento alle questioni aperte dalle nuove regole, perché se una revisione ha valore non è una revisione neutrale, e se non è neutrale genera effetti nelle prassi che vanno mappati, visti, discussi, elaborati anche al fine delle future revisioni.

Insomma, sebbene non concordi con tutti i contenuti di questo ricorso, ne colgo lo spirito, ne condivido alcuni rilievi, ma soprattutto vorrei che non fosse derubricato ad una mera questione di avvocati e carte bollate, ma fosse l’occasione per un ripensamento critico di questa revisione così sofferta e dall’esito così risicato.