Il bando ENPAP per le Borse Lavoro prevede 5mila euro per ogni collega che avrà i requisiti e vorrà partecipare ad un protocollo strutturato di interventi psicologici rivolti alla cittadinanza.
Come per tutti i nuovi progetti non mancano alcune polemiche, sulle quali esprimo il mio pensiero.
“Gli psicologi pagano gli psicologi per lavorare”
Questa è la cosa più banale che ho sentito e fa la coppia con “ENPAP non si deve occupare di questi temi ma deve solo preoccuparsi di previdenza ed assistenza”.
Non è così perché il progetto si rivale sul 2% che mettiamo in fattura, che tecnicamente viene riscosso dai clienti (e quindi i cittadini privati), ma il tema è più ampio e politico.
Con le “borse lavoro” ENPAP sta agendo sul lavoro: dopo previdenza e assistenza nel sistema contributivo diventa fondamentale il sostegno al lavoro.
Le politiche di ENPAP vanno nella direzione di incidere sull’ampliamento delle possibilità di occupazione degli psicologi e delle psicologhe (quasi esclusivamente liberi professionisti), perché il maggior guadagno di oggi si traduce nella maggior pensione di domani.
ENPAP ha tutto l’interesse nel portare avanti politiche a sostegno del lavoro per creare le condizioni per l’aumento dell’introito economico degli psicologi e delle psicologhe, e a parer mio lo sta facendo bene!
Anzi, tecnicamente ENPAP ha più interesse specifico del CNOP (il nostro Ordine Nazionale) che ha come mandato di legge la tenuta degli albi, la cura della deontologia e dell’osservanza delle leggi e dialoga con la politica a livello nazionale (la tutela della professione è demandata agli ordini regionali).
L’istituzione delle borse lavoro è uno dei progetti di buone prassi che impattano sulla percezione di utilità della psicologia nella cittadinanza e nei decisori delle politiche per la salute e il benessere.
Progetti che hanno le potenzialità di aumentare il riconoscimento delle attività psicologiche, in questo caso libero professionali, come utili “strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona” (legge 56/89).
Se non si è in grado di inserire il progetto “borse lavoro” in questo quadro di riferimento, tutte le critiche risultano sterili, anzi, dannose.
“Il progetto prevede di far fare psicoterapia ai non psicoterapeuti.”
Questa polemica mi pare più articolata e riguarda tutta la professione. Per stroncarla basterebbe leggere il bando, che distingue bene non solo gli interventi degli psicologi da quelli psicoterapeutici, ma anche la diversa formazione a cui queste due categorie accederanno.
Ma allora perché questa critica?
La questione rimanda alla differenza di fatto tra “psicoterapia” e “psicologia clinica”. La legge 56/89 non dice nulla a riguardo se non che la psicoterapia la effettuano gli psicoterapeuti.
Lo psicologo, senza essere psicoterapeuta, già lavora in svariati contesti delicati come le scuole, forse in futuro come psicologo di base e nelle emergenze a trattare il DPTS; rimane la questione nodale di quando un atto di “sostegno psicologico” diviene “psicoterapia”.
La risposta apre a diverse interpretazioni.
Al di là dei vari arzigogolati ragionamenti teorici, nei fatti quando l’utilizzo di tecniche psicologiche diviene trattamento psicoterapeutico?
Dal punto di vista deontologico non ho mai visto una sanzione a un/una collega che abbia fatto psicoterapia senza essere abilitato/a. Se ne avete traccia avvisatemi che sarei interessato a leggere le motivazioni.
La psicoterapia è introdotta come specializzazione degli psicologi nel momento in cui la legge 56/89 ha definito la professione degli psicologi. Il motivo reale è stato far partecipare alle “cure” psicologiche anche i medici e assimilare la specializzazione ai percorsi delle specializzazioni mediche già presenti. Il concetto di “cura” crea la differenza, e infatti alcuni assumono che la psicoterapia “cura” (e la psicologia no) nel momento in cui si agisce su una chiara diagnosi “medica”, cioè modello DSM o ICD.
Ma noi psicologi sappiamo dalla nostra pratica quotidiana (psicoterapeuti e non psicoterapeuti) che la barriera tra una diagnosi e disagio personale passa solo dalle carte intestate degli operatori sanitari. Sappiamo anche che quando si lavora con un paziente si lavora su tutto l’ecosistema-persona e distinguere gli elementi patologici in senso medico-diagnostico da quelli che non la riguardano è un esercizio da teorici del nulla.
Sappiamo anche che ciò che fa la differenza sulla capacità di attuare dei percorsi di sostegno efficace o di cura è l’esperienza dello psicologo o della psicologa, e sicuramente, chi ha fatto la specializzazione in psicoterapia ha 4 anni di esperienza strutturata in più rispetto chi non l’ha svolta, ma credo che dopo diversi anni di attività la differenza si assottigli, se non svanisca del tutto.
Le critiche che sono state poste al protocollo delle “borse lavoro” nascono, in verità, dal fatto che il protocollo ha alzato il velo sottile e trasparente che ricopre la psicoterapia ed è andato a toccare gli interessi di alcune scuole (private, sigh!) che sopravvivono al riparo di questo velo sentendosi garanti di una impostazione teorica che solo loro possono certificare.
Siamo di fronte a un sistema complesso, che ha creato un meccanismo contorto prima per salvare gli interessi dei medici, poi quello delle scuole e che si è sempre avvantaggiato dietro la certificazione di “psicoterapia” che era ed è necessaria soprattutto per i concorsi pubblici. Ma quando questa esce dall’amministrazione pubblica, che vive di burocrazia, allora il sistema non regge e iniziano le critiche. Critiche confermate da tutti quei colleghi che hanno fatto tanti sacrifici per specializzarsi (in questo caso in CBT) e che vedono nel bando “borse lavoro” un pericolo al loro status (perché è questo quello dello psicoterapeuta, non un ruolo) faticosamente guadagnato.
Ecco, allora la risposta sta proprio qui, prevedere nel bando delle borse lavoro ENPAP anche gli psicologi non psicoterapeuti ha tolto la velina a un sistema della psicoterapia che in 30 anni è stato il detentore dell’intervento psicologico (le università forniscono spesso solo nozioni teoriche) e ora si svela il segreto di pulcinella: all’atto pratico, per gli psicologi già formati, basta avere protocolli e una buona supervisione per poter affrontare le ansie e le depressioni, senza tirarla lunga più di tanto. E buona pace per quelle scuole che pensano di sopravvivere grazie alla carta bollata della psicoterapia necessaria per accedere al sistema pubblico, e un augurio di pronta collaborazione a tutte le altre scuole di specializzazione che vogliono vivere di formazione di qualità addestrando a trattamenti basati sull’evidenza.
E’sempre più diffusa la possibilità di attuare percorsi psicoterapeutici sotto connotazioni “fantasiose”, in barba alla legge 56/89, che nacque a tutela dell’utenza e dei professionisti.
Chi è in regola per esercitare e’sottoposto a vessazioni economiche e formative che rappresentano solo introiti per chi le fornisce, di inutilità assoluta riguardo all’aggiornamento professionale. Chi, invece, fa psicoterapia fantasiosa, si esonera da quota all’Ordine -che dovrebbe vigilare su chi esercita senza titolo-versamenti all’ENPAP che eroga pensioni da FAME, trasmissione fatture al sistema tessera sanitaria, POS, ECM…
Io, teoricamente, sono in pensione, ma data l’irrisorieta’del ritorno, continuo a lavorare, irritata assai verso coloro che esercitano la ns professione senza titolo appropriato. AMEN
L’irritazione è comune e molti in AltraPsicologia sono qui proprio per questa irritazione. Mi spiace invece per la pensione, ENPAP funziona in base a quanto tu accumuli durante la carriera lavorativa e visto che sei già in pensione, non hai avuto l’opportunità di accumulare fin dall’inizio carriera (ENPAP è nata dopo). Questo, purtroppo, è il sistema contributivo, non ci possiamo fare un granché. In bocca al lupo per tutto
Finalmente un po’ di chiarezza! Grazie, collega Campanini. Potrei avere il piacere di farti una breve intervista? Grazie. Cordialmente. Anna Potenza
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