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Opportunità, cultura e competenze per lavorare:

una riflessione dal campo

Quali sono le reali prospettive di lavoro per un laureato in psicologia in Italia? Cosa deve fare uno psicologo per lavorare? È davvero necessario continuare a formarsi dopo la laurea e l’esame di stato?

Queste domande cruciali interessano colleghi giovani e meno giovani, vorrei pertanto tentare di abbozzare alcune risposte in modo estremamente realistico, basandomi anche sulla mia esperienza diretta. Chiunque voglia documentarsi potrà trovare sul sito di AP numerosi riferimenti. I più curiosi potranno invece consultare direttamente le varie pubblicazioni ISTAT, Almalaurea, e l’ancora abbastanza attuale lavoro svolto dall’Osservatorio.

Cosa sappiamo al momento?

Lo stesso CNOP nel 2012 sembra essersi reso conto dell’abnorme numero di corsi di laurea di II livello in psicologia attivati sul territorio Italiano (una sessantina) negli ultimi 15 anni. Nel 2012 eravamo circa 83.000 e si stima che nel 2015 potremmo superare le 100.000 unità. Per far comprendere a tutti la dimensione effettiva di questo numero, basti pensare che l’intera Arma dei Carabinieri sia formata da poco meno di 106.000 unità(1) tra ufficiali, sottoufficiali e truppa. Da che con sole due facoltà di Psicologia (Roma e Padova) eravamo una minoranza, si sfornavano pochi psicologi, e questi erano comunque carenti e insufficienti rispetto a un mercato potenzialmente in espansione, siamo in pochi anni diventati una moltitudine e il mercato è ormai più che saturo: è traboccante.

Proviamo, però, a vedere anche oltre l’area di possibilità (il “cosa lo psicologo potrebbe fare” dei dispositivi normativi, L. 56/89 e DPR 328/2001) e troviamo la dimensione cioè del probabile: cosa cioè può concretamente fare lo psicologo dal punto di vista lavorativo. Affrontiamo insomma la realtà senza infingimenti per poi, in conclusione, capire come affrontarla e fornire qualche suggerimento, specialmente ai più giovani.

Il dilemma: clinica o non clinica?

La prima grande questione che riguarda lo psicologo e la sua scelta lavorativa è: clinica o altri ambiti (lavoro, ricerca, ecc..)?La seconda invece riguarda la scelta tra un lavoro autonomo e uno da dipendente.Alcuni risolvono il primo dilemma a monte, preferendo un percorso formativo specificamente incentrato sull’ambito lavoro/organizzazione, o si orientano sin dall’inizio verso una carriera nel mondo della ricerca, o ancora all’interno della dimensione universitaria o scolastica. Altri s’indirizzano fin da subito verso l’ambito clinico e aspirano di solito a fare gli psicoterapeuti. Ripeto, stiamo parlando di ciò che si desidera fare e non di ciò che poi si farà perché si è cambiata idea o perché ‒ come più facilmente accade ‒ ci si trova a fare i conti con il proprio lunario da sbarcare quotidianamente. Dicevamo, dunque, che tanti iniziano a studiare psicologia con il sogno di fare poi gli psicoterapeuti. Molti di più, in effetti, di quanti poi effettivamente pratichino questo mestiere e dunque di quanti appaiano nelle statistiche ufficiali. Anche se la definizione di psicologia clinica è più ampia, fare clinica in ambito pubblico significa, di fatto, per lo più diventare psicoterapeuti e ciò vale sia per il lavoro autonomo sia per quello dipendente. Ai concorsi si accede se si è conseguito il titolo di psicoterapeuta e tant’è. Lo psicologo lavoratore autonomo, può però scegliere di fare clinica senza diventare necessariamente psicoterapeuta. Si può, infatti, fare (ma si torna al mondo del possibile) attività psicodiagnostica, occuparsi di benessere in generale, di counseling (quello vero che fanno gli psicologi), di clinica insomma, senza fare necessariamente psicoterapia. Sono mosche bianche quelli che riescono a farlo, ma ci sono.

La cultura psicologica nelle imprese italiane

Gli psicologi che si occupano di lavoro e organizzazione non sono solo coloro che hanno seguito il percorso di studi specifico, ma anche i clinici. Quest’evidenza ha due motivazioni alle spalle una di ordine pratico: molti clinici pur di lavorare si adattano più o meno volentieri e non tutte (quasi nessuna) azienda è in grado di riconoscere la specificità dei piani di studio e dei titoli conseguiti. Uno psicologo d’altronde è uno psicologo.

C’è però anche una seconda ragione, che a mio avviso meriterebbe uno spazio di riflessione apposito: molte università ci abituano a pensare che “clinica” corrisponda a terapia o comunque a qualcosa che attiene l’individuo. In realtà anche un’organizzazione e dunque un Ente o un’azienda può essere approcciata in modo clinico. Questo lo sanno abbastanza bene gli psicologi del lavoro che si trovano a operare nel quotidiano ‒ di fatto ‒ ancheattraverso strumenti clinici, come ad esempio “l’analisi della domanda”, ne hanno invece minore consapevolezza paradossalmente proprio i clinici. Agli psicologi clinici peraltro mancano strumenti tipici dello psicologo del lavoro che sono però comunque sempre acquisibili in seguito.

Che succede però nel mondo del lavoro reale? Parliamo di coloro che per fortuna, bravura, o per conoscenze (quelli purtroppo non mancheranno mai) finiscono per lavorare ad esempio nel mondo aziendale. Uno sbocco interessante per gli psicologi è, infatti, quello della selezione del personale, della formazione, della valutazione delle risorse umane e della consulenza organizzativa più in generale. Qualcuno riesce a diventare recruiter (selezionatore del personale) in qualche agenzia per il lavoro somministrato (ex interinali per intenderci) e si tratta di esperienze che se non altro economicamente possono dare qualche soddisfazione. Abbiamo detto che spesso le aziende non hanno una grande cultura psicologica e organizzativa, soprattutto quelleitaliane. A questo punto però devo anche confessare di aver raramente trovato colleghi veramente preparati (e mi riferisco a conoscenze tecniche e teoriche, non di esperienza sul campo), che sappiano cioè di cosa si sta parlando quando ci si riferisce a “competenze”, “potenziale”, “motivazione”. Credo che le Università non sempre riescano a fornire ai colleghi conoscenze adeguate. Per non parlare della formazione, dove le competenze di molti si riducono alla mera conoscenza dell’erogazione in aula. Il modo in cui lavoriamo genera però negli altri un’immagine di noi e della nostra professione.Se non siamo in grado, come spesso purtroppo accade di portare un valore aggiunto reale al cliente (Azienda, Ente, Istituzione) si finisce per appellarci unicamente alle normative: ad esempio all’obbligo di utilizzo dello psicologo nelle attività di valutazione (potenziale) del personale. Il Cliente però in questo modo non sente di aver bisogno delle nostre competenze. Molti Direttori delle Risorse Umane preferiscono tuttora assumere un laureato in altre discipline e poi formarlo internamente alla selezione, la formazione e la valutazione. Questo perché troppo spesso non sono in grado di cogliere la qualità della nostra specifica pratica. Ormai chiunque fa colloqui di selezione e poche o pochissime aziende o società di consulenza affidano questo lavoro a degli psicologi. Spazi lavorativi perduti per la categoria, sicuramente.

La responsabilità di questa cultura, come abbiamo cercato di mostrare, non è solo dell’azienda ma anche dell’incapacità del sistema Universitario (e anche post universitario come vedremo in seguito) di creare un raccordo adeguato tra la formazione degli psicologi e le esigenze del mercato del lavoro.

L’Orientamento: autonomo o dipendente? Pubblico o privato?

Lavorare come libero professionista o come dipendente è molto spesso una scelta necessitata, piuttosto che ponderata. Poter svolgere entrambe le attività è d’altronde una condizione estremamente difficile da realizzare.

Una delle primissime cose che si dovrebbe garantire ai futuri psicologi, fin da quando frequentano i primi anni di università, è un serio orientamento lavorativo. Optare per fare il dipendente o dirigersi verso la libera professione è già di per sé una scelta che richiede un elevato livello di autoconoscenza e di conoscenza del mercato del lavoro. Consapevolezza delle singole caratteristiche, dei propri limiti, attitudini e capacità personali, oltre che un monitoraggio approfondito rispetto alla propria motivazione e direi anche alla propria vocazione. Il secondo passo è chiedersi ‒ che tipo di lavoro ‒ dipendente o libero professionale s’intenda svolgere. Insomma, le opportunità possono essere varie e saper riconoscere quella più adeguata a noi è fondamentale per la nostra vita.

L’orientamento pre e post universitario è essenziale. Sarebbe bello che gli ordini professionali aiutassero le università in questo difficile compito, portando ad esempio l’esperienza dei professionisti iscritti all’albo tramite incontri ad hoc per i giovani aspiranti psicologi.

Conoscenze e capacità per lavorare

Le attività di orientamento universitario però non dovrebbero limitarsi alla pur indispensabile scelta motivazionale. Si dovrebbe, infatti, aiutare l’individuo nel fare un bilancio delle proprie effettive competenze. Ovviamente ci riferiamo a quella componente delle competenze, nel caso dei giovani, che attiene più alle capacità personali che alle conoscenze o alle esperienze finalizzate. Noi psicologi non possiamo affermare che per capire se un lavoro fa o meno per noi “bisogna provare”. Questo lo può dire un qualunque altro professionista. Lo psicologo dovrebbe avere le conoscenze adeguate per valutare ex ante le competenze dei singoli soggetti, inclusi i propri colleghi. Questa è esattamente la funzione che dovrebbero garantire i centri di orientamento universitario.

Qualche suggerimento

Per i colleghi che intendono tentare una carriera in azienda, qualche suggerimento specifico.

  1. Studiate. Come detto in precedenza non è ammissibile che uno psicologo (del lavoro o clinico) non sappia di cosa sta parlando quando si cimenta in attività come la selezione, la valutazione e la formazione delle risorse umane. Non date per scontata la preparazione universitaria. A volte occorre un’integrazione.

  2. Un titolo non è uguale all’altro. Non vi lanciate a fare un master o un corso tanto per avere un titolo. Non serve a nulla. E soprattutto non crediate che una formazione equivalga a un’altra. I master in Risorse Umane (per citare uno di quelli più gettonati dai nostri colleghi) che valgano davvero questo nome in Italia sono circa cinque. Uno al Sud, uno a Roma e tre al Nord. Il resto delle decine d’istituti che propongono master in Risorse Umane consegnerà un certificato che equivale più o meno a un pezzo di carta straccia pagato a caro prezzo. Inutile da presentare nel curriculum (se si mira a un impiego in aziende private) quanto inservibile per accrescere le vostre competenze. Non v’insegneranno nulla di realmente spendibile come valore aggiunto. Spiacente se avete già un simile titolo nel vostro curriculum, a volte è persino meglio non inserirlo nel cv. Se trovate un selezionatore competente, infatti, potrebbe addirittura leggere questa scelta come una vostra incapacità di discernere la qualità, e cestinare il vostro cv senza nemmeno archiviarlo.

  3. Non lavorate gratis, ma imparate. Inutile svolgere lavori gratis o sottocosto “per farsi notare”. Vi farete notare solo come professionisti il cui lavoro “vale poco”. Ottimi gli stage iniziali, anche quando non retribuiti (in tal caso però deve trattarsi di un’organizzazione che possa spiccare nel vostro futuro curriculum), che hanno comunque un enorme valore nel vostro curriculum e permettono di accumulare esperienze finalizzate. Queste esperienze vanno distinte dalle attività gratuite che sono un’altra cosa. Piuttosto che lavorare gratis, fate del buon volontariato, imparerete e salvaguarderete la vostra immagine.

  4. Abbiate le idee chiare su cosa volete fare ma non siate incontentabili. Proporsi come uno che può, o che vuole “fare tutto” non è ben visto da nessuno. Tutti sono alla ricerca di lavoro da giovani e tutti si adatterebbero. Ciò però non può significare che non si debbano avere le idee chiare sui propri desideri e motivazioni. Dal lato opposto ci s’imbatte più spesso di quanto si creda in giovani colleghi poco disponibili a considerare lavori lontani da casa o con ritmi particolarmente stressanti. Sembra strano, ma è così. Altra cosa: giusto sapere se ci sarà e quanto sarà il compenso, ma non è la prima cosa da chiedere in un colloquio e magari la si può rimandare al momento della stipula dell’eventuale contratto.

  5. Nei colloqui di lavoro ricordatevi che siete lì per essere valutati, salvo che non siate dei professionisti già molto affermati e non avete alcun potere contrattuale, questa è la realtà. Informarsi sul lavoro è indispensabile, ma mostrate curiosità sui contenuti della mansione, sull’azienda. C’è invece sempre tempo per capire se le condizioni contrattuali vi soddisfano o no, pensate piuttosto a essere scelti voi.

Per chi invece intende perseguire il sogno di una carriera libero professionale, che questa sia o no in ambito clinico, una cosa su tutte oggi: specializzatevi ma pensate in modo generalistico. Siate curiosi, leggete, abbiate voglia di aggiornarvi anche autonomamente. Il mercato attuale paga maggiormente le conoscenze specifiche e approfondite. Scegliete qualcosa che vi piaccia, studiatelo a fondo, diventate esperti in quell’ambito, e siate ostinati.

Supporto da parte degli Ordini

Bilancio delle competenze, supporto alla realizzazione di un curriculum efficace, preparazione a sostenere un colloquio di lavoro, sono tutti strumenti fondamentali per orientare il soggetto verso il proprio futuro lavorativo. Chi ha letto le statistiche, sa bene che gli psicologi sono probabilmente la categoria professionale più penalizzata in questo momento.

Gli Ordini hanno dunque il dovere di sensibilizzare le strutture istituzionali territoriali verso un maggior coinvolgimento degli psicologi. Lo psicologo del territorio è una possibilità, ma non l’unica e a mio avviso nemmeno la più importante. Sarebbe ad esempio molto opportuno che gli Ordini si facessero promotori di un dibattito culturale a livello istituzionale circa la possibilità di prevedere (in che termini, con quali strumenti e modalità) la figura dello psicologo nelle selezioni (e successivo supporto) di personale pubblico ad alto impatto sociale e relazionale (operatori sanitari, insegnanti, ecc..).

Agli Ordini professionali è richiesto, per questo, uno sforzo che in questo frangente può andare anche oltre i compiti statutari: gli psicologi sono in una vera e propria emergenza occupazionale e tutto ciò che può essere fatto, deve essere tentato a partire proprio dagli Ordini.

1 Audizione al Senato del Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Generale di Corpo d’Armata, Leonardo Gallitelli, 03.07.2013 seduta n.6

Autore: Alessandro Raggi

Sono psicoterapeuta psicoanalista junghiano attualmente Responsabile del Centro ABA (Associazione per lo studio e la ricerca sull’anoressia, la bulimia, l’obesità e i disordini alimentari) di Napoli. Docente del master ABA in “Clinica psicodinamica dell’anoressia-bulimia dell’obesità’ e delle nuove dipendenze”, insegno “Teoria e tecnica del colloquio in psicoterapia” e “Fondamenti di Psicologia Archetipica” presso la Scuola di specializzazione in Psicoterapia Analitica AION di Bologna. Ho inoltre ricoperto incarichi manageriali (Direttore Risorse Umane, Direttore Generale) in varie Aziende (come ad es. Kuwait Petroleum Italia, Braccialini, Datalogic) e sono CEO di una società di consulenza.